Olimpiadi invernali 2014. Lo Zar di Sochi

Guido Caldiron
www.micromega.net

«La Russia teme solo se stessa, non certo l’Occidente o quei paesi che si comportano in una maniera assolutamente spudorata e tentano di screditare politicamente le nostre olimpiadi». Le piste da sci, il campo da hockey su ghiaccio, la piscina monumentale le ha volute inaugurare tutte personalmente. Ha perfino “domato” un leopardo nello zoo della città. Vladimir Putin ha ribadito, con le parole come con le esibizioni muscolari a favore di telecamera, che il suo paese non potrebbe essere in mani più forti e sicure. Poco importa se i grandi d’Occidente, da Obama a Merkel, da Hollande a Cameron – a differenza di Enrico Letta – hanno scelto giustamente di dare forfait in polemica con le sue ripetute sortite omofobe che lo hanno reso rapidamente un eroe dell’estrema destra internazionale.

I XXII giochi olimpici invernali che il leader del Cremlino inaugurerà venerdi 7 nella località di Sochi, sul Mar Nero, sono prima di tutto una straordinaria vetrina per la sua Russia, quella che ha plasmato a sua immagine e somiglianza nel corso degli ultimi quindici anni di potere.

Lo sono a tal punto che, già prima dell’arrivo della fiaccola olimpica che ne sancirà l’apertura, queste olimpiadi hanno stabilito alcuni ben poco invidiabili primati. Tutti indicativi del clima che si vive da tempo nel paese, affogato da corruzione e scandali, proprio all’ombra dell’autoritarismo di Putin.

Un’immensa caserma sul Mar Nero

Il primo record è quello dei costi, balzati dal preventivo di 12 miliardi di dollari che era stato fissato per la loro realizzazione nel 2007 agli attuali 51 miliardi: in assoluto la cifra più alta mai spesa nell’intera storia olimpica. Somme colossali finite, come hanno denunciato diverse ong russe e il blogger dell’opposizione Aleksej Navalnyj, per altro anch’egli legato agli ambienti nazionalisti, in buona parte nella casse degli oligarchi che sostengono lo stesso Putin. I grandi gruppi economici alleati del Cremlino hanno fatto affari d’oro: Gazprom ha costruito il complesso dello sci di fondo, Sberbank quello del salto e Vladimir Potanin, il re del nickel, ha realizzato Rosa Khutor, il resort da dove partono gli impianti di risalita. Addirittura, ventuno contratti, per un totale di 7 miliardi di dollari, se li sono aggiudicati da soli i fratelli Rotenberg, imprenditori che di Putin sono stati amici d’infanzia a San Pietroburgo.

Poi ci sono le denuncie, riportate da diversi rapporti di Human Rights Watch, per le durissime condizioni di lavoro che sono state imposte alla manodopera, in larga parte immigrata. Molti lavoratori stranieri sono stati spesso costretti a dormire negli stessi cantieri, con temperature più che rigide, per poi magari essere espulsi dalle autorità, conniventi con le imprese appaltatrici, invece di essere pagati.

Non solo, per costruire praticamente dal nulla la cittadella olimpica che sorge in mezzo alle montagne, a una cinquantina di chilometri all’interno rispetto alla vera e propria stazione balneare di Sochi, dove prima i Romanov, quindi Stalin e infine Putin e molti dei nuovi ricchi di Mosca hanno posseduto le loro lussuose dacie, si sono accumulati detriti di ogni genere che, a detta degli ambientalisti locali, hanno già inquinato il fiume Mzymta e minacciano pericolosamente alcuni villaggi accanto ai quali sono sorte delle discariche improvvisate. Solo dopo i giochi olimpici, ha fatto sapere il Cremlino, si penserà allo smaltimento.

Infine, c’è il problema della sicurezza. Sochi si trova infatti a meno di 500 chilometri da Grozny, capitale di quella Cecenia a lungo epicentro di una guerra combattuta sanguinosamente da Mosca e dai fondamentalisti islamici del Caucaso e che ha già fatto più di centomila vittime.

Perciò, già prima di essere inaugurate, le olimpiadi di Putin hanno trasformato la zona in quella che il quotidiano britannico Guardian ha definito come “un’immensa caserma a cielo aperto”. Oltre centomila gli agenti delle forze dell’ordine e i militari mobilitati, mentre navi da guerra incrociano al largo, lungo la costa del Mar Nero, e aerei da caccia tengono rigorosamente chiuso lo spazio aereo locale. Nel villaggio olimpico sono poi sottoposti ad uno stretto controllo sia il traffico telefonico che le mail. Per prevenire attentati come quelli perpetrati nell’ultimo mese dagli jihadisti nella vicina Volgograd, e costati la vita a più di trenta persone, sostengono le autorità, per controllare con questa scusa anche i molti giornalisti di tutto il mondo che seguiranno l’evento, replicano le associazioni russe per la tutela dei diritti dell’uomo.
Ma se questo è lo scenario che fa da sfondo alla grande kermesse pubblicitaria costruita da Putin, resta da capire quali sono le idee e i progetti che vi saranno illustrati.

Dio, patria e famiglia al Cremlino

«Il mondo diventa sempre più contraddittorio e agitato. Oggi molti paesi stanno rivedendo le loro norme morali ed etiche, cancellando le loro tradizioni nazionali in nome dell’equivalenza delle diverse opinioni e idee politiche, rischiando per questa via anche il riconoscimento dell’equivalenza tra il bene ed il male. In queste condizioni si rinforza la responsabilità storica della Russia. Noi difendiamo la famiglia, sosteniamo la conservazione dei valori tradizionali e della vita religiosa, sia sul piano fisico che spirituale: valori che da millenni costituiscono la base morale e spirituale della civiltà di ogni popolo. Non pretendiamo l’appellativo di superpotenza, se con questo si intende un’ambizione di egemonia mondiale o regionale. Il nostro progetto internazionale si basa sull’uguaglianza e gli interessi economici. Continueremo a sostenere il processo euroasiatico senza entrare in contrasto con altri progetti di integrazione, come ad esempio quello europeo. Nessuno deve però illudersi di superare militarmente la Russia, non sarà permesso, non l’accetteremo mai».

Così, alla metà di dicembre, nel suo discorso annuale alla nazione – la versione russa del discorso sullo stato dell’Unione della Casa Bianca –, pronunciato di fronte alle Camere unite del Parlamento e a numerose personalità del paese, a cominciare dal patriarca ortodosso Kirill, Vladimir Putin aveva delineato l’orizzonte a cui guarda la nuova Russia.

Un paese, quello disegnato dalle parole dell’ex agente del Kgb – primo ministro tra il 1999 e il 2000, presidente tra il 2000 e il 2008, quindi di nuovo primo ministro tra il 2008 e il 2012 e, infine, eletto ancora alla presidenza il 4 marzo 2012 –, che si vuole paladino della conservazione, che esalta il ruolo pubblico della fede, come si è visto nel caso delle Pussy Riot condannate per “blasfemia” per la loro messa-punk, che ribadisce il primato della famiglia tradizionale, sostenuto anche dalle recenti leggi contro “la propaganda omosessuale” o dai terribili “consigli” dispensati da Putin perché «i gay lascino in pace i bambini», e la “validità” del mantenimento delle discriminazioni tra i sessi.

Una Russia che è tornata a celebrare sia lo Zar Nicola II che il Piccolo padre Stalin e che non sopporta venga messo in discussione alcun mito patriottico, di recente ne ha fatto le spese la tv Dozhd che ha osato aprire una discussione sull’assedio di Leningrado, novecento giorni di disperazione che hanno segnato una delle pagine più terribili della Seconda guerra mondiale. E che si pensa come “una comunità di simili” dove non c’è posto per “i diversi”, non a caso a Mosca gli immigrati sono sottoposti alternativamente alle violenze delle bande neonaziste o alle angherie delle forze dell’ordine: l’ultima volta è successo nello scorso ottobre, quando nella periferia di Birioulovo, nel sud della capitale, oltre un migliaio di immigrati sono stati arrestati dopo essere stati oggetto di una sorta di pogrom, conclusosi con decine di feriti gravi, scatenato dai gruppi dell’ultradestra dopo che un giovane russo era stato colpito a morte da un lavoratore azero.

Questo, mentre monta fin dentro il Cremlino il ruolo dell’ideologia eurasiatica, cresciuta nelle fila della destra russa fin dall’inizio del Novecento, che sembra riproporre l’idea imperiale che fu prima degli Zar e poi dell’imperialismo sovietico. E che, ancora in questi giorni, emerge nelle pressioni e nei ricatti economici esercitati nei confronti dell’Ucraina o nei recenti accordi in materia di energia nucleare stipulati con il governo ultraconservatore ungherese di Viktor Orbán.

Dopo aver subito per anni l’offensiva in nome dell’“esportazione della democrazia” lanciata da Washington anche verso i paesi dell’ex blocco sovietico, Putin ha oggi inaugurato un ticket che spera risulti vincente: i muscoli dell’Eurasia assortiti con il soft power del conservatorismo.

Se della xenofobia cresciuta nella società russa degli ultimi decenni, come dell’omofobia più o meno manifesta dell’era Putin si è parlato a lungo, fino ad ora si è dato però poco risalto alla svolta eurasiatica di Mosca, inaugurata proprio con il ritorno di quest’ultimo al Cremlino due anni orsono. Eppure, si tratta di un elemento tutt’altro che marginale, in grado di illustrare in modo evidente la forte deriva, anche ideologica, verso destra conosciuta dalla politica della nuova Russia.

Eurasia, Mosca in fuga dalla democrazia

Corrente di pensiero sviluppatasi nell’emigrazione zarista degli anni Venti, l’eurasiatismo sosteneva che solo volgendosi verso Oriente la Russia avrebbe potuto evitare “il contagio” del progressismo europeo e ritrovare la propria natura di potenza, autoritaria, e la propria identità spirituale, ortodossa. Per resistere all’omologazione democratica dell’Occidente, era così necessario che i russi guardassero ad Est per formare un nuovo polo strategico e culturale “euro-asiatico”.

Pur avendo attraversato marginalmente anche alcuni ambienti dell’élite sovietica, le tesi eurasiatiche hanno fatto la loro piena ricomparsa a Mosca solo dopo la caduta dell’Urss, soprattutto grazie all’opera di divulgazione sia politica che culturale condotta da Aleksandr Dugin, attualmente docente di Sociologia all’Università moscovita Lomonosov. Già attivo nell’estrema destra negli anni Novanta, prima con il gruppo Pamjat e quindi con il Partito Nazionalbolscevico, animatore di importanti riviste nazionaliste come Den e Elementy, studioso del pensatore fascista Julius Evola, il teorico del cosiddetto “razzismo spirituale”, e vicino alla Nouvelle Droite di Alain de Benoist, negli ultimi anni Dugin si è progressivamente avvicinato all’establishment. Ha collaborato con il sito istituzionale Strana, con alcune note trasmissioni televisive e con la prestigiosa Literatournaja Gazeta e, come segnalava già nel 2011 il Financial Times, è finito per gravitare nell’orbita dello stesso Putin. Al punto che il movimento Evrazia, fondato dall’ideologo estremista negli ultimi anni, ha sostenuto Putin anche in occasione delle ultime elezioni presidenziali.

Non si tratta del resto di un convergenza sorprendente, dato che nella visione neo-eurasiatica di Dugin, come nella politica estera di Putin, lo sviluppo di un nuovo polo geopolitico che faccia riferimento a Mosca può rappresentare un valido contraltare all’egemonia americana e cinese. Mentre, sul piano interno, un ritrovato status di potenza, che la Russia sembra ricercare fin dalla caduta dell’Urss, servirebbe a rinsaldare la “comunità nazionale” oggi indebolita dalle legittime spinte all’autonomia dei popoli ex sovietici.
Le spinte autoritarie, nazionaliste e conservatrici incarnate da Vladimir Putin, insieme alla nuova politica estera aggressiva inaugurata da Mosca anche in materia economica, sembrano poter trovare così un loro quadro ideologico compiuto.

E’ ancora lo stesso Aleksandr Dugin, dalle pagine web di Evrazia.info, a sottolineare del resto questo percorso intrapreso dal Cremlino verso l’applicazione della “filosofia politica eurasiatica”. «Non si tratta solo di economia, Putin parla di Unione Eurasiatica come di qualcosa di diverso. Come di un’autentica strategia politica, una strategia fondata su tre principi basilari», sottolinea Dugin. Si tratta per prima cosa della «costruzione di un mondo multipolare, di un equo sistema di ripartizione della forza e delle zone d’influenza nel mondo». Secondo, dell’«integrazione dello spazio post-sovietico. La Russia non può costituire un polo pienamente autonomo e circoscritto, ma ha bisogno del Kazakhstan, della Bielorussia, dell’Ucraina, della Moldavia, se possibile anche dell’Armenia e dell’Azerbaijan». Infine, della «riedificazione della Russia, non partendo da quel modello liberal-democratico che negli anni ’90 venne copiato dall’Occidente, ma percorrendo il proprio cammino di sviluppo assolutamente originale. Noi non abbiamo un’unica società civile fondata sui principi dell’individualismo, del liberalismo come ad esempio la società americana o europea. Il sistema di valori della Russia è radicalmente diverso. Perciò, non si tratta di inseguire la modernizzazione liberale, ma di un compimento della potenza eurasiatica: integrale, forte, mondiale».

Eppure qualcuno continua a pensare davvero che quelle di Sochi saranno solo delle semplici gare sportive.