Spagna – Riprendiamoci l’aborto

Jamila Mascat
www.micromega.net

Prima che diventasse il titolo del clip in cui Justin Timberlake rende omaggio a Michael Jackson ballando di notte sui marciapiedi di New York, Take back the night era un grido di battaglia delle donne contro la violenza sulle donne (femministe, lesbiche, trans).

E prima che fosse data in pasto alle derive securitarie del decreto sul femminicidio o al tormentone mediatico di One billion rising, la lotta contro la violenza sulle donne era un tema delle donne che rifiutavano di essere vittime del ricatto della paura e respingevano le restrizioni alla libertà di tutt* applicate in nome della presunta tutela di alcune. Poi ha subito una mutazione genetica e si è convertito nella Giornata Mondiale promossa dalle Nazioni Unite (25 novembre), in un pretesto per lo scontro di civiltà, in un indicatore di sviluppo, in uno slogan infarcito di contenuti diversi e a tratti contraddittori, in un hot topic che unisce, anche se in maniera tanto ecumenica quanto ambigua. Verrebbe da chiedersi perché, invece, l’aborto continui a dividere.

La Ley Orgánica de Protección de los Derechos del Concebido y de la Mujer Embarazada approvata dall’esecutivo spagnolo il 20 dicembre scorso, prevede delle feroci restrizioni rispetto alla legislazione precedente del governo Zapatero del 2010 e perfino rispetto alla legge Gonzalez del 1985. Se la proposta del ministro della giustizia Alberto Ruiz Gallardón sarà approvata dal parlamento (dove il Partito Popolare ha la maggioranza assoluta) in Spagna si potrà abortire soltanto nel caso in cui la gravidanza comporti un pericolo «serio e prolungato» per la salute fisica e psichica della donna (nell’arco delle prime 22 settimane), o nel caso in cui il concepimento sia il frutto di uno stupro (entro 12 settimane e previa denuncia dell’aggressione subita).

Alle minorenni sarà richiesto di essere autorizzate dai genitori e le malformazioni del feto non costituiranno più una motivazione sufficiente per esercitare il diritto all’aborto. Eppure, nonostante le dispute che ha suscitato all’interno del PP, la revoca dell’attuale Ley de Salud Sexual y Reproductiva y de Interrupción Voluntaria del Embarazo – una promessa lanciata dai popolari durante la campagna elettorale del 2011 – continua ad accontentare la parte più conservatrice dell’elettorato spagnolo.

Secondo un sondaggio di Metroscopia, che risale ad aprile del 2013, in Spagna il 41 % della popolazione era favorevole a un cambio della normativa in vigore che ridefinisse le condizioni in base alle quali potesse essere consentito interrompere una gravidanza.

Oggi, dopo mesi di mobilitazioni di piazza e campagne virali sui social network promosse da associazioni femministe, operatori sanitari, giuristi, e esponenti dell’opposizione contro la legge Gallardón, il consenso intorno alla proposta sembra essere precipitato, mentre il gradimento dei popolari è in ribasso, in parte anche a causa degli effetti inarrestabili della crisi spagnola (la disoccupazione al 26% e in aumento nel 2014) e delle conseguenze della riforma del servizio sanitario e dei tagli alla spesa pubblica di cui il governo di Rajoy si è fatto promotore.

C’è chi l’ha ribattezzata cruzada o contrarreforma, chi ne ha denunciato il carattere regressivo e oscurantista, e chi ha paragonato Gallardón al Grande inquisitore. Quel che colpisce della nuova proposta, in ogni caso, è proprio il fatto che costringa a fare marcia indietro. Così come fa marcia indietro la legge 194, sabotata dalla riscossa dell’attivismo pro-life e resa largamente impraticabile dagli obiettori di coscienza (la percentuale supera il 70 % tra il personale medico e infermieristico), che rischia di diventare un protocollo in via d’estinzione, come ricorda la campagna La mia scelta viene prima.

Il diritto di scegliere, in effetti, è l’unico principio in base al quale dovrebbe essere “regolamentata” la salute sessuale e riproduttiva delle donne. In alcuni paesi d’Europa questo diritto è ancora del tutto negato – Malta, Andorra, San Marino e Irlanda (dove in realtà l’aborto viene autorizzato solo per salvare la vita della gestante); negli altri stati l’interruzione di gravidanza è consentita secondo tempistiche e procedure parzialmente diverse. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, si richiede alle donne di fornire delle “buone motivazioni”, individuate di volta in volta nei rischi per la vita o per le condizioni psicofisiche della madre, nelle eventuali malformazioni del feto, nella constatazione di situazioni socio-economiche sfavorevoli, nelle violenze all’origine del concepimento.

La 194, ad esempio, riconosce tutte queste ragioni e, in base all’articolo 4 – oggetto del ricorso presentato in Cassazione nel 2012 da un giudice del tribunale minorile di Spoleto, perché ritenuto incompatibile con la «tutela dell’embrione» sancita dalla Corte Europea, e poi di nuovo riconfermato dalla Consulta – stabilisce che nel corso delle prime 12 settimane sia permesso il ricorso all’IVG a chi “accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito”.

Che un aborto possa essere semplicemente il risultato di una decisione consapevole (quella di non diventare madre o di non diventarlo di nuovo) non è un’ipotesi contemplata. Ne La verità vi prego sull’aborto, Chiara Lalli nota come l’eccezionalità delle “circostanze” in cui viene ammessa l’interruzione di gravidanza non scardini la condanna morale dell’intervento, che nella peggiore delle ipotesi viene interpretato come un omicidio e nel migliore dei casi inesorabilmente come un trauma luttuoso. Mai, ad ogni modo, come un desiderio o come una scelta.

Per alcuni versi, perciò, è sorprendente che le restrizioni legali e pratiche che il diritto all’aborto subisce ovunque in Europa e nel mondo non vengano annoverate nella lista di ciò che viola la libertà delle donne. Per altri versi la retorica vittimistica di cui è intriso il discorso istituzionale e mainstream sulla violenza contro le donne condivide un presupposto essenziale con il backlash sul diritto all’aborto, e cioè l’intento di relegare le donne a uno stato perenne di minorità. «La mujer siempre es victima, y nunca cupable», ha dichiarato Gallardón di fronte al Senato alcune settimane fa. Per questo la possibilità di abortire, secondo la nuova normativa spagnola, dipenderà dalla valutazione di due referti clinici e non dalla volontà delle dirette interessate. I medici, d’altra parte, saranno passibili di essere processati per il reato di aborto illegale, rispondendo così della loro scelta sulle donne, alle quali invece non viene attribuita alcuna responsabilità.

Porque yo decido, lo slogan della manifestazione nazionale organizzata oggi in Spagna da centinaia di associazioni femministe e sostenuta da numerose adesioni internazionali in Italia, in Europa e altrove, ricolloca al centro del dibattito la questione dell’autodeterminazione. Il documento omonimo, che a mezzogiorno arriverà con una carovana di donne in parlamento e sarà consegnato direttamente al Ministro della Giustizia, esige la revoca della riforma e richiede il mantenimento della legge attuale. Ma qualunque siano gli esiti di questa giornata di mobilitazione, i network femministi hanno già deciso che l’8 marzo si tornerà a parlare di aborto.

La verità sull’aborto è che si tratta ancora di un tabù avvalorato da pregiudizi e falsi miti. La verità è che le leggi restrittive, come spiega The Lancet, non riducono il numero delle interruzioni di gravidanza, ma favoriscono gli interventi clandestini e danneggiano la salute delle donne. E forse, come ebbe a dire la dottoressa Jocelyn Elders, Surgeon General of the United States tra il 1993 e il 1994 – ovvero capo dell’Ufficio sanitario di Washington durante l’amministrazione Clinton – “We really need to get over this love affair with the fetus”.

Soprattutto, infatti, la verità sull’aborto è che è un diritto e non un delitto.

Che pro-life significa no-choice, e che la lotta per la difesa del diritto all’aborto non è una battaglia contro la vita, ma la rivendicazione di una possibilità di scelta contro chi la nega. E l’unica scelta che abbiamo a disposizione è quella di riprenderci l’aborto.