Per un dibattito serio sulle finanze della Chiesa di V.Bellavite

Vittorio Bellavite
Adista n. 4 del 01/02/2014

Sono quasi 25 anni che il sistema dell’8 per mille è a pieno regime. Ormai è conosciuto e collaudato, problemi, fino ad ora, ne ha creati soprattutto o solo all’area “conciliare” che ha continuato a riflettere sul rapporto tra sfera civile e sfera religiosa, su una Chiesa povera, o almeno sobria, e su una gestione non efficientista ed autoritaria delle strutture della Chiesa.

Ciò premesso, vale la pena di “ripassare” la materia, anche alla luce delle novità che potrebbero determinarsi con il nuovo corso di papa Francesco. I cosidetti “benefizi”, cioè i beni patrimoniali delle parrocchie e delle diocesi, erano destinati al clero solo in quanto povero e che quindi necessitava del minimo per il sostentamento. Per il resto erano patrimonium pauperum, risorse che dovevano essere distribuite ai bisognosi, come diceva anche il codice di diritto canonico del 1917. Con la legge n. 222 del 1985, di applicazione del nuovo Concordato Craxi-Casaroli, i beni sono stati sottratti d’autorità per legge alle parrocchie e concentrati negli Istituti diocesani per il sostentamento del clero, appositamente costituiti e a gestione rigorosamente clericale.

I “poveri” sono stati ignorati, nessuno li ha rappresentati al tavolo delle trattative tra il governo e il Vaticano!

L’8 per mille, regolamentato nella stessa legge, ha completato il nuovo sistema. Col ben noto meccanismo che prevede che siano distribuite anche le quote dei contribuenti che non hanno fatto nessuna opzione (la maggioranza) la Cei raddoppia il gettito a suo favore: nel 2012 ha ricevuto 1.148 milioni, nel 2013 1.032. La consistenza delle opzioni in favore della Chiesa cattolica è anche la conseguenza della debolezza dell’alternativa che potrebbe essere costituita dalla scelta a favore dello Stato. I motivi sono noti: questa scelta è poco conosciuta e le destinazioni dei fondi statali (circa 100 milioni) sono stati usati quasi sempre per finalità discutibili e addirittura non previste dalla legge. Non rimane che la possibilità di firmare per le altre Chiese che hanno l’Intesa con lo Stato.

Il gettito è salito negli anni a circa cinque volte quanto la Cei riceveva nel 1990, ovvero 210 milioni di euro (benché allora fossero in lire) e che costituiva l’ammontare degli assegni cosidetti di “congrua” che lo Stato versava ai preti diocesani a indenizzo degli espropri risorgimentali dopo il 1870.

La percentuale dell’8 per mille potrebbe scendere (o salire) sulla base dell’analisi della situazione concreta, ma l’apposita commissione incaricata di questa verifica, prevista dalla legge, non ha mai fatto niente.

Questo afflusso di risorse ha permesso alla Cei guidata dal card. Ruini di creare una grande struttura centrale di intervento in tanti settori, compreso quello della comunicazione. Per il 2013 il fondo 8 per mille è stato suddiviso in 420 milioni per culto e pastorale, 240 per interventi caritativi (di cui 85 al Terzo mondo) e 382 per il sostentamento del clero. La retribuzione dei preti proviene per il 63% dall’8 per mille, per il 19% da stipendi per l’insegnamento della religione, per le cappellanie di vario tipo (caserme, ospedali), per l’8% dalle parrocchie, per il 7% dal reddito degli Istituti diocesani per il sostentamento e solo per il 3% dalle libere offerte che ammontano ora a 14 milioni annui e che sono in continua diminuzione nonostante ogni azione promozionale. Complessivamente la retribuzione del clero è per l’82% a carico dello Stato.

Partendo dall’esistente, e prescindendo dalla più che legittima contestazione di tutto il sistema, una riflessione critica può essere facilmente fatta sulla ripartizione centro-periferia, un’altra sulla trasparenza e la pubblicità delle scelte di spesa, una terza sulla gestione tutta interna alle strutture senza alcuna forma di discussione reale, in nessuna diocesi – tantomeno alla Cei –, con la partecipazione della base del popolo cristiano.

Per una nuova riflessione sulla gestione dei beni nella Chiesa e sulla povertà mi sembra che si potrebbero sostenere alcuni punti fermi. Provo ad elencarli: la Chiesa italiana è, complessivamente parlando, ricca (solo quella tedesca lo è di più); bisogna che nella Chiesa si cominci da subito a parlare e ad agire nella direzione di una maggiore sobrietà di strutture e di comportamenti; bisogna ottenere sulla gestione delle risorse informazioni complete e comprensibili, nonché conquistare il diritto a discuterle; bisogna porre come oggetto di discussione la questione del superamento del sistema, anche con ogni gradualità (tempo fa proposi una riduzione del 10% all’anno della dipendenza dallo Stato fino all’azzeramento). Purtroppo, fino ad ora, una discussione pubblica, seria, sulle finanze della Chiesa anche da parte “laica” e nei media è sembrata impossibile.