Radha. Le radici della violenza sessuale in India

Piero Pagliani
http://megachip.globalist.it

 

Perciò da sola a mezzanotte
Radha va alla sua altalena,
un capo del sari legato a una ramo di dalim
l’altro capo attorno al suo collo
Radha
è sospesa.
Cigolando nella notte silente
Radha dondola

Namita Chaudhuri, “Radha swingsi

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Premessa

Calcutta è probabilmente la metropoli più sicura dell’India. In tanti anni che la frequento, gli unici consigli sulla sicurezza che mi hanno dato i miei amici kolkattiani sono stati di stare attento durante la Durga Puja alle bande di ragazzi che con la scusa di raccogliere denaro per la popolarissima festa cercano di spillare soldi, a volte in modo un po’ aggressivo, e ai furbacchioni che bazzicano il tempio di Kali e chiedono con insistenza non tanto gradevole cospicue donazioni per la dea (cioè per loro stessi). Un moderato “warning” anche per la visita agli slum, dove però è ben raro che vi succeda qualcosa.

Calcutta non è la metropoli più sicura dell’India per le donne. I casi di violenza sessuale, anche su bambine piccolissime, riportati sui media nazionali indiani o a volte solo locali sono troppi, benché “troppi” nasconda la semplice verità che anche un solo caso è troppo. Quando si parla di violenze, di ogni tipo, i dati numerici diventano rapidamente quantità astratte, formano uno schermo tra il concetto che ci formiamo e la realtà, nascondendo che rappresentano singoli esseri umani ognuno coi propri sogni, la propria vita, i propri affetti, la propria voglia di vivere. Quindi dire che un caso di stupro è troppo non è un’affermazione pateticamente idealistica. E’ invece quanto di più concreto si possa dire.

Anche i nostri media hanno recentemente dato risalto al caso di una ragazzina di dodici anni morta a Capodanno per le ustioni dopo essere stata violentata in gruppo e data alle fiamme nella municipalità di Madhyagram, un sobborgo della capitale bengalese. Era incinta, perché lo stesso gruppo l’aveva già stuprata tempo prima. L’atroce violenza che l’ha uccisa è stata una vendetta perché questa coraggiosa giovane studentessa aveva denunciato i suoi aggressori. Sono stati arrestati da quella Polizia che in precedenza si era rifiutata di proteggere la ragazza. Ora rischiano la pena capitale. E’ ben difficile che la evitino dopo la sentenza che ha condannato a morte gli assassini violentatori della studentessa universitaria a Delhi, proprio un anno fa. Può essere che scampino al capestro perché in India le esecuzioni sono rarissime, ma non ci giurerei: l’esasperazione dell’opinione pubblica indiana, di cui parleremo tra poco perché è un elemento chiave per capire cosa sta succedendo, sta creando forti pressioni sul governo centrale e quelli locali.

Essendo stato già denunciato, il branco di violentatori poteva essere certo quasi matematicamente che l’arresto e la probabile condanna a morte sarebbero stati la conclusione. Eppure l’hanno fatto lo stesso, cosa che conferma quanto avevano già rivelato le inchieste sui condannati a morte negli Stati Uniti: chi commette un crimine come questo non pensa in quel momento alle conseguenze. Per cui la vendetta di Stato è del tutto inutile come deterrente. E purtroppo la scorsa settimana un’altra ragazza è stata violentata a Calcutta da un gruppo di uomini che hanno circondato il bus su cui viaggiava dopo il lavoro. Si trova ora in gravissime condizioni all’ospedale.

Calcutta non è Delhi, considerata da alcuni la capitale mondiale degli stupri con il 17% di tutti i casi registrati in India. Ma i segnali che si è oltrepassato un limite ci sono tutti.

L’entità del fenomeno

Secondo alcune stime in India avviene uno stupro ogni 22 minuti e le statistiche, riguardanti solo i casi denunciati, dicono impietosamente che il trend è drammaticamente in crescita:

Non siamo ancora ai livelli statunitensi. I dati Onu affermano che negli Usa nel 2010 ci sono stati 84.767 stupri, cioè 27,3 casi ogni 100.000 abitanti, mentre in India sono 1,8ii. Tuttavia un sondaggio della Thomson Reuters definisce l’India il quarto Paese al mondo più pericoloso per le donne e il peggiore del G20. A qualificare l’India in questo modo così cupo non sono quindi solo gli stupri ma tutto un quadro di violente discriminazioni di genere che trovano le forze di polizia compartecipi e la magistratura troppo spesso tollerante. Basti pensare che in tutto il 2012 solo una persona è stata incarcerata per stupro a Delhi e con una ridicola sentenza di tre anni. Una situazione che ha obbligato il premier Manmohan Singh a dichiarare che l’atteggiamento della Polizia nei casi di stupro è da considerare “completely unacceptable” e a minacciare duri provvedimenti.

In India il genere femminile è soggetto a un repertorio di violenze e di discriminazioni rabbrividente che lo accompagna dal concepimento alla morte con cifre per le quali si fa fatica a trovare l’aggettivo giusto. Si stima che più di due milioni di donne manchino alla conta ogni anno in India. Si inizia dall’utero con la piaga degli aborti selettivi, per continuare con l’infanticidio femminile, le discriminazioni nelle cure mediche e quelle nella dietaiii. Poi occorre considerare i matrimoni precoci e le gravidanze adolescenziali. Infine il quadro delle violenze non può dimenticare la subordinazione tradizionale della dignità della donna al suo essere moglie e soprattutto madre (specie se di maschi) e le aggressioni con l’acido. Sto solo sintetizzando report medici, economici e statisticiiv.

Gli stupri e il femminicidio si inseriscono in questo quadro di violenze di genere.

Le cause sociali

Il discorso sulle cause sociali è straordinariamente intricato. Scontando inevitabili approssimazioni, si può iniziare richiamando l’attenzione sul fatto che quando si parla di India si parla di una società complessissima scossa nelle fondamenta di un ordine arcaico, ingiusto, spesso feroce, ma che garantiva la coesione sociale. Non è una contraddizione. E’ sempre stato così, perché i vecchi ordini, pur nella loro iniquità, erano inclusivi, mentre è il capitalismo ad essere escludentev. Tuttavia la sovrastruttura culturale del vecchio ordine non è scomparsa nel nulla. Troppo alta la sua viscosità e troppo veloci i processi di cambiamento. Così si è scontrata-combinata con le nuove dinamiche e le nuove mentalità, dando vita a quel “doppio movimento” analizzato da Karl Polanyi, che oscilla tra gli opposti attrattori della libera espansione del mercato, da un lato, e delle sue limitazioni messe in atto dalla società, dall’altro, e che in India, in modo forse più chiaro che in altri posti, assume la forma di una sorta di andirivieni tra il futuro e il passato, tra il progresso e la tradizionevi. Ne è prova macroscopica quel periodico ritorno di consensi per il Bharatiya Janata Party (il partito nazionalista indù), che contraddistingue l’India a partire dalle “riforme” liberiste avviate all’inizio degli anni Novanta, quasi venisse espressa la necessità di rifugiarsi in fedeltà premoderne per sfuggire al continuo spiazzamento provocato da un sistema che progredisce tramite successive crisi di tutte le dimensioni socialivii.

In contrasto con la previsione di Marx, le caste non sono state soppiantate dalle classi (cosa che avrebbe semplificato gli schemi sociali), ma le differenze di classe si sono intrecciate con quelle di casta, coi comunalismi etnici e religiosi e quindi con le antiche discriminazioni di genere producendo una miscela esplosiva dalle mille sfaccettature, premoderne e moderne, che provoca devastazioni anche dove prima sarebbe stato quasi impensabile. L’India “troppo statica” denunciata da Jawaharlal Nehru è corsa dietro a quella qualità che lo stesso Nehru reputava che gli Inglesi, i suoi dominatori, avessero “persino in eccesso”: una mentalità dinamica. Lo ha fatto incurante dei moniti di Gandhi. E le antiche contraddizioni, non risolte, sono state trascinate da questa stessa dinamica oltre i propri tradizionali territori e confini.

La tradizionale violenza di genere si esprimeva lungo le storiche gerarchie e fratture sociali: gli uomini delle caste alte contro le donne delle caste basse, gli uomini indù contro le donne tribali e quelle musulmane, gli uomini musulmani contro le donne indù.

Questo tradizionale humus non è stato estirpato ma si è “evoluto” inglobando nuove contraddizioni e generando nuovi conflitti. Ad esempio in alcune regioni del Paese si ha l’impressione che i maschi delle caste alte siano quasi letteralmente prigionieri dei propri pregiudizi di modo che non hanno alcuna possibilità di rapportarsi, se non con rancore, alla mobilità sociale promossa dalla modernità e di cui fruiscono i Dalit, gli intoccabili. E questo rancore si sfoga non di rado in modo violentoviii.

I recenti stupri a Delhi di donne europee di diversa età sono altri indici che la violenza di genere sta rompendo i tradizionali schemi e diventando un’emergenza sociale di carattere generale. Poiché prima questo odioso tipo di crimine era inserito in schemi interpretabili che si riferivano a relazioni sociali o politiche specifiche, in linea di principio era pensabile che potesse essere contrastato con una logica opposta, anche se con difficoltà. Oggi schemi nuovi interagiscono con quelli antichi e il drammatico problema che ne nasce deve essere riconsiderato alla radice. La reazione dei governanti è stata invece quella classica di inasprire le pene, ma è sotto gli occhi di tutti che così non se ne esce. Occorre altro.

La storia recente. Lo stupro come arma di repressione e la nuova coscienza femminile indiana

L’atrocità commessa sulla ragazzina di Madhyagram mi ha riportato alla mente un caso di cui mi ero occupato da vicino. Tapasi Malik era una ragazza sedicenne che si era distinta nella lotta che opponeva i contadini agli espropri dei loro terreni a Singur, decisi dall’allora governo del Fronte delle Sinistre a favore di una costruenda fabbrica di automobili della Tata Motors. Il 18 Dicembre del 2006, Tapasi fu rapita, violentata in gruppo e bruciata viva. La Polizia parlò senza pudore di “suicidio”, ma il Central Bureau of Investigation (l’Fbi indiana), chiamato a indagare dai contadini, arrestò per il crimine un militante del Partito Comunista Indiano (Marxista), o CPM, e il segretario zonale di questo partito, Suhrid Dutta. Entrambi furono condannati all’ergastolo nel 2008 ma Dutta fu rilasciato diciotto mesi dopo con un’ordinanza dell’Alta Corte di Calcutta.

Se quindi la vicenda rimane ancora aperta giuridicamente, tuttavia i motivi politici di quel crimine sono stati stabiliti oltre ogni ragionevole dubbio.

Una lotta ancor più drammatica oppose in quel periodo il CPM ai contadini di Nandigram, sempre a causa di politiche di esproprio, in questo caso a favore di una multinazionale chimica indonesiana. Tra il 14 e il 16 marzo del 2007, la Central Reserve Police Force (CRPF) fiancheggiata da militanti del CPM espugnò i villaggi di Nandigram utilizzando le armi da fuoco. Quattordici persone furono uccise. Durante l’attacco avvennero molti casi di stupro e di orribili torture di carattere sessuale anche ai danni di bambine (qui l’inchiesta indipendente e qui un documento filmato).

Queste violenze purtroppo si inseriscono in una ben radicata e orrenda tradizione politica che ha avuto modo si manifestarsi in tutta la sua crudezza durante la rivolta naxalita iniziata nel 1967 e finita all’incirca dieci anni dopo in un bagno di sangue; o meglio, finita nella sua forma classica, poiché è riemersa dopo alcuni anni sottoforma di una guerriglia maoista che attualmente investe circa il 40% dell’India.

Durante la rivolta naxalita la macchina repressiva dello Stato si macchiò di numerose nefandezze anche di carattere sessuale, come lo stupro di donne in custodia, di contadine povere, di donne delle caste inferiori, di musulmane e infine di donne tribaliix.

Ma la coscienza sociale e civile degli strati medi urbani della popolazione stava evolvendosi grazie anche all’influenza ideologica dei Naxaliti che forse per la prima volta era riuscita a tessere un legame politico e culturale tra i ceti urbani e quelli contadini e quindi a incrinare, se non proprio a rompere, lo schermo che separava quei due mondi.

Non è una novità che una stagione soggettivamente rivoluzionaria abbia come esito non la rivoluzione ma un radicale cambiamento di costumi e di mentalità. E’ avvenuto così anche col nostro Sessantotto, si parva licet. Questo cambiamento in India costituì un fatto decisivo, perché crimini che sarebbero rimasti invisibili e denunce che sarebbero state inascoltate furono affrontati da un ceto medio urbano in espansione, propenso a lasciarsi alle spalle le arretratezze di un mondo chiuso e statico e ciò che appariva essere il loro frutto avvelenato. Uno strato di popolazione determinato a non tollerare più le violenze sulle donne in sé e il loro utilizzo da parte di uno Stato percepito come liberticida.

Questa nuova mentalità non poteva che essere fortemente scossa dal caso Mathura.

Mathura era una tribale minorenne che era stata violentata da due poliziotti in una stazione di polizia nel 1972. Il suo caso era stato assunto da un avvocato dei diritti civili ma la sentenza, dopo tre gradi di giudizio compresa la Corte Suprema dell’India, fu che Mathura era una ragazza di costumi facili e che i rapporti sessuali erano stati consenzienti.

La sentenza indignò l’opinione pubblica progressista di un’India che si era da poco ripresa dall’Emergency Rule, che per 21 mesi, dal 26 giugno 1975 al 21 marzo 1977, aveva permesso un governo autoritario e la sospensione delle libertà civilix.

Ne nacque una campagna contro la violenza sessuale che nel 1980 pretese la revisione della Rape Law e la riapertura del caso Mathura. Fu in quel periodo che il movimento per i diritti delle donne assunse un carattere nazionale. Nel 1983 il Lok Sabha (la Camera dei Deputati) approvò finalmente la revisione della legge con il Criminal Law Amendment.

Cosa cambiò in realtà?

I movimenti femminili avevano richiesto che nell’emendamento fossero compresi i casi di violenza domestica. Ma la richiesta non fu accolta perché il governo non voleva scontrarsi con la diffusa opinione che un marito aveva ogni diritto di pretendere rapporti sessuali dalla moglie. Non era un rifiuto secondario, perché così non si riconosceva l’esclusivo diritto della donna sul proprio corpo. In altri termini non veniva intaccata la mentalità dello stupro ma si operavano puri aggiustamenti legali, come avevano immediatamente denunciato le militanti dei diritti umani e civili.

Ancora recentemente Chidambaram Palaniappan, in qualità di ministro dell’Interno (ora è alle Finanze), ha ribadito che il concetto di “marital rape” è troppo controverso in una società conservatrice come l’India e richiede la costruzione di un più largo consenso. Come se non bastasse ha aggiunto che il governo non è pronto ad accogliere la richiesta di cancellazione dell’attuale impunità che grazie all’Armed Forces (Special Powers) Act (AFSPA) del 1958 è goduta dalle forze di sicurezza riguardo agli stupri e alle altre aggressioni sessuali che esse compiono nelle aree di conflitto. Un’affermazione contraria al codice penale indiano e che lascia di sasso perfino se pronunciata da colui che ha lanciato l’Operazione Green Hunt, cioè la repressione senza quartiere della guerriglia maoista.

Per certi versi c’è del vero, come si è visto, nel fatto che la società indiana nel suo complesso farebbe fatica ad accettare l’idea che una donna possa rifiutarsi di avere rapporti sessuali col marito. Le considerazioni da fare qui sono molteplici. La prima è che un governo sempre pronto ad assumere provvedimenti economici impopolari si blocca davanti alla vera o presunta impopolarità di un’iniziativa di vera emancipazione, quasi sicuramente per il timore di perdere la concorrenza con l’ultraconservatore BJP. La seconda è che, ancora una volta, “progresso” non si identifica con “emancipazione”. Molti osservatori si sono dichiarati sorpresi che la mentalità dello stupro operi non solo nella vecchia India rurale ma anche nei centri dell’high-tech e della vita cosmopolita. Ma che diavolo significa questa sorpresa? Si dimenticano le allarmanti statistiche riguardo gli Stati Uniti? Come abbiamo visto, la modernizzazione agisce addirittura da moltiplicatore, da estensore della mentalità dello stupro. La terza considerazione è apparentemente in diretto contrasto con quanto appena detto. Gli anticorpi contro questa situazione (in India come da noi) non sono ricercabili nel passato ma devono procedere dal presente. Il Medioevo non è certo preferibile alla modernità pur con tutte le ambiguità di quest’ultima. Il punto è proprio il disambiguamento, ovvero la capacità di lasciare l’idea di “progresso” alla modernità e usare quanto essa ci offre per evolverci verso un processo di emancipazione. Prima, ovviamente, dobbiamo fare i conti con la differenza tra i due concettixi. E’ un discorso lungo e per ora mi limiterò a illustrare perché in India questi problemi sono dilatati e quindi forse ancora più espliciti.

La modernità, la classe media e la lotta di emancipazione

Secondo Vipul Mudgal, studioso di mass-media del Centre for the Study of Developing Societies, il caso della studentessa di Delhi uccisa l’anno scorso «ha scosso la coscienza della classe media indiana come mai prima» dando ad essa la parola.

La classe media è composta da 270 milioni di persone e per la fine del decennio dovrebbe arrivare a poco meno di 400 milioni e i mass-media si sviluppano in parallelo e in connessione con essa. Attualmente in India ci sono 800 canali televisivi di cui 300 sono notiziari a tempo pieno. Si vendono quotidianamente 330 milioni di copie di giornali e ci sono 65 milioni di utenti Facebook e 35 milioni di account Twitter.

Tutto ciò sposta radicalmente i calcoli elettorali e fa della classe media, che comunque non è omogenea ma stratificata, un forte gruppo d’opinione e di pressionexii. Al di fuori di essa ci sono 800 milioni di persone che hanno bisogno di assistenza alimentarexiii.

La classe media ha espresso negli ultimi anni un crescente attivismo sociale specialmente contro la corruzione degli organi statali, compresa la Polizia. Un attivismo che comunque riflette le ambivalenze politiche e valoriali della classe media. Il recentissimo straordinario successo dell’Aam Aadmi Party (paragonabile al nostro Movimento 5 Stelle) a spese di partiti come il BJP e il Congress (paragonabili ai nostri centrodestra e centrosinistra anche se con fenomeni esasperati come conviene alle dimensioni di questo Paese) indica che oltre a quella sociale si sta “modernizzando” anche la configurazione politica dell’India. Questo cambiamento culturale – di cui uno dei più potenti motori è il notevole aumento di donne che lavorano e quindi sono consapevoli della propria autonomia – ha mutato il modo di percepire il fenomeno della violenza di genere.

Ma anche qui opera la dialettica progresso-emancipazione di cui si parlava prima.

Nonostante nel 1983 la Corte Suprema abbia decretato che la pena capitale debba essere applicata ai “più rari dei casi rari”, la reazione del governo alle pressioni seguite allo scempio di Delhi è stata quella di promulgare un nuovo Criminal Law (Amendment) Act che oltre ad altri provvedimenti per contrastare la violenza sulle donne (stalking, molestie, voyeurismo, aggressioni con l’acido), inserisce nel Codice Penale Indiano la sezione 376A che prevede fino alla pena di morte per gli stupri che hanno come esito una vita vegetativa permanente o la morte della vittima. L’emendamento è entrato in vigore il 2 aprile del 2013 ma era stato preceduto da un’ordinanza dal presidente indiano Pranab Mukherjee, promulgata proprio alla luce del fatto di Delhi.

Il governo è stato però accusato di avere evitato nuovamente la discussione sulla violenza domestica (riconosciuta solo come delitto civile e non penale, in base a una legge del Raj britannico del 1860) e di non avere emendato il famigerato AFSPA (vedi sopra).

Altri critici hanno fatto notare che qualcosa non va in una decisione che fa improvvisamente passare da una pena di sette anni a quella capitale.

Unendo i due tipi di critiche appare evidente che la decisione del governo non va nella direzione di sradicare una mentalità. Come potrebbe se continua a non riconoscere la potestà della donna sul proprio corpo e ad ammettere lo stupro come una forma di attività repressiva? Insomma, invece dell’emancipazione si è privilegiato il progresso formale, se così possiamo direxiv.

L’ambiguità del connubio classe media-mass media

La reazione della classe media al crimine di Delhi se da una parte è un fatto positivo perché scuote dal torpore o dalla complicità le istituzioni, obbliga a considerare un drammatico problema e testimonia la volontà di liberarsi di una mentalità nefasta, dall’altra costringe però a porre molta attenzione sulla frattura tra un’India in cui le gerarchie sociali sono in movimento e un’altra in cui rimangono ferme. Infatti mentre si svolgevano le manifestazioni anti-stupro di Delhi, un’altra India rimaneva nascosta e impermeabile a queste dinamiche e quindi alla possibilità di riscattoxv.

Appena tre mesi prima una sedicenne Dalit dell’Haryana, uno Stato molto conservatore proprio lì vicino, era stata stuprata da otto uomini di casta superiore che avevano filmato e postato l’aggressione. Per la vergogna il padre della ragazza si era suicidato. Era l’ultimo di una lista di casi di donne Dalit stuprate senza che si sollevasse nessuna protesta come quelle di Delhi. Mentre nella Capitale centinaia di persone manifestavano con candele accese, una bambina di dodici anni violentata nel Rajasthan attendeva in un ospedale della stessa Delhi la ventesima operazione di ricostruzione degli organi lesionati, senza che nessuno si fosse mai occupato di lei e con quattro dei suoi sei violentatori in libertà. Lo stesso sta avvenendo col recentissimo stupro di gruppo di una ventenne ordinato dal salishi sabha, il tribunale tradizionale, di un villaggio della tribù dei Santhal nel Bengala Occidentale, accusata di essersi fidanzata con un uomo estraneo alla comunità. Pur registrando il Bengala Occidentale un altissimo numero di stupri, questo fatto sconvolgente non ha precedenti. E stupisce che sia avvenuto tra i Santhal, una tribù famosa per le sue coraggiosissime lotte per la libertà e la giustizia sociale e le cui donne sono state da sempre vittime designate della violenza sessuale dei “diku“, gli estraneixvi. Per ora il caso è solo oggetto di accuse politiche e di conseguenti contromosse amministrative, come la rimozione del capo della polizia distrettuale da parte della Chief Minister, Mamata Banerjee, a seguito del rifiuto della polizia locale di prendere in custodia i 13 uomini del villaggio accusati di avere eseguito la “sentenza”.

Come qualcuno in India ha commentato, tutti questi misfatti sembrano fuoriuscire dal campo d’attenzione della vita globalizzata delle grandi città.

Io ho l’impressione che tra le altre cose nelle grandi città si stia sviluppando uno scontro non più in relazione a stati inalterabili ma proprio alle dinamiche sociali permesse dalla modernizzazione indiana. Queste dinamiche, palpabili con mano ad esempio nella composizione sociale degli studenti universitari, o addirittura codificata nel controverso Reservation System (un sistema di quote che sulla carta servirebbe a promuovere i settori sociali più svantaggiati), queste dinamiche visibili a occhio nudo sembrano trasformare la tradizionale violenza di genere in una lotta che, ribaltando i vecchi termini del discorso, può seguire a ritroso la frattura tra chi si sente socialmente escluso (i sadici violentatori di Delhi) e chi persegue l’inclusione sociale (la loro vittima)xvii.

E’ necessario un maggiore approfondimento su questo punto, ma sembra succedere quanto segue. A) Le dinamiche che lo sviluppo impone alla società indiana hanno fatto rompere gli argini alla mentalità dello stupro facendole invadere nuovi territori, specialmente quelli urbani, e facendole seguire logiche non più riconducibili univocamente alle vecchie gerarchie sociali. Anzi, come abbiamo notato, lo scempio di Delhi riflette semmai una direzione gerarchica inversa. B) La classe media, protagonista (benché numericamente minoritaria) della nuova India, con l’appoggio dei mass-media riesce a sviluppare dei meccanismi di resistenza e a mettere in campo richieste di emancipazione riguardanti l’universo femminile. C) Ma questo movimento non riesce a retroagire su quel mondo tradizionale da cui quell’invasione scaturisce e in cui questi tipi di crimini hanno proporzioni vastissime.

Se nel caso Mathura agiva ancora un collegamento tra campagna e città dovuto, direttamente o indirettamente, all’ideologia naxalita e alle forze ideali e personali che essa aveva mobilitato, ora questo collegamento sembra ristretto ad alcuni intellettuali e militanti ancora legati in qualche modo a un’idea di “rivoluzione”, sebbene non necessariamente – anzi raramente – quella che fa agire i maoisti indiani. Tra questi intellettuali e la classe media esiste non una consonanza ma solo una contiguità socialexviii.

A questo punto devo confessare una cosa che riguarda questo articolo. Appena scritta la sezione precedente mi sono chiesto fino a che punto fosse corretta. Allora sono andato a cercare le reazioni allo stupro di Delhi di quelli che conosco essere intellettuali militanti di caratura e mi sono imbattuto nelle dichiarazioni di Arundathi Roy. Lascio a voi giudicare, ma credo che con la franchezza e il coraggio di andare controcorrente che la contraddistinguono, Arundathi abbia detto cose che corroborano quanto ho appena illustrato. Le trovate qui in video con un commento dialogico intelligentexix.

Ancora una volta, quindi, non è possibile venire a capo della cultura dello stupro se non si considerano contemporaneamente le sue radici culturali, storiche e sociali. Perché se non lo si fa si finirà per accontentarsi dell’aggiustamento di tiro amministrativo, magari pensando che un passo è meglio di niente e che è difficile un intervento “olistico”.

E così si rischia di abbandonare senza accorgersene le richieste di emancipazione per cadere, per l’appunto, nella trappola del “progresso”, del “meno peggio”, del “male minore”, dei “piccoli passi”, mentre il peggio e il male maggiore procedono con passi da gigante, a volte anche col nostro inconsapevole aiuto.

 

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NOTE

i Radha è la pastorella innamorata devota a Krishna e rappresentante l’energia divina femminile. La coppia Radha-Krishna simboleggia popolarmente l’unione amorosa. “Radha swing” è contenuta nella raccolta “A mermaid in a stream of moonlight” (Nandimukh Samsad, 2011). Namita Chaudhuri è una poetessa bengalese.

ii Le organizzazioni femministe statunitensi stimano fino a 1.270.000 casi reali ogni anno. Per l’Italia i dati Onu fanno riferimento al 2006 e parlano di 7,6 casi denunciati ogni 100.000 abitanti. Cifre disperanti.

iii Ancora oggi in caso di ridotte possibilità di nutrirsi è una soluzione molto praticata privilegiare il capofamiglia e poi i figli maschi.

iv Ma le cifre possono essere molto più alte. Secondo l’Indian Medical Association il 42% dei feti di sesso femminile verrebbe abortito ogni anno contro il 25% dei feti di sesso maschile per un numero complessivo di 5.000.000 di feti di sesso femminile. Il rapporto maschi/femmine è pari a 0,93, ancora più basso che nel 2001. I matrimoni infantili sono stimati essere il 47% (dati Unicef, con stime sensibilmente più alte in Stati come il Rajasthan), nonostante il Child Marriage Act del 2006 li vieti. Le autorità locali chiudono un occhio per rispetto alla tradizione e forse perché spesso, per fortuna, non vengono consumati subito o per lo meno prima della pubertà. Il tasso di gravidanza adolescenziale è del 62 per 1.000, quello di mortalità post-parto del 200 per 100.000 nati vivi, la violenza domestica (su cui ritorneremo) si stima sia presente nella metà delle famiglie. I casi riportati di aggressioni con acido contro le donne nel 2010 sono stati 153.

v Come notava Marx, il capitalismo non garantisce la vita dei propri schiavi, al contrario di quanto succedeva nelle società precapitalistiche. In India, l’imperatore Moghul era personalmente garante della vita dei suoi contadini. Se i raccolti erano scarsi le tasse venivano diminuite fino ad essere sostituite da lavori socialmente utili (come la costruzione di nuovi pozzi). Al contrario, le tasse monetarie implacabilmente riscosse dal Raj britannico e la sua logica liberista indussero spaventose carestie che mieterono decine di milioni di morti, un fatto inedito nella storia millenaria dell’India.

vi Karl Polanyi “La grande trasformazione” (Einaudi, 2000).

vii Si noti che il BJP e il Congress Party non hanno politiche economiche sostanzialmente differenti. Così come avviene col centrodestra e il centrosinistra italiani, la differenza è di ordine culturale e benché questa stessa differenza sia “inquinata” da politiche convergenti o sovrapponibili, è su di essa e su una presunta maggiore moralità pubblica di uno schieramento rispetto all’altro, che si svolge lo scontro politico.

viii Si veda ad esempio il mio “Naxalbari India: l’insurrezione nella futura terza potenza mondiale” (Mimesis Edizioni, 2007), specialmente al capitolo 8.3.

ix Non ne furono protagonisti solo le forze di sicurezza indiane, ma anche quadri del CPM e del Congress. Tristemente famoso è il massacro della zona di Cassipore-Baranagore a Calcutta, costellato di stupri e durante il quale spicca per efferatezza l’uccisione della dirigente naxalita Karuna Sarkar avvenuta scarnificandole il seno con ferite che riproducevano la sigla del suo partito, cioè il CPI(ML) costituito dai rivoluzionari fuoriusciti dal CPM.

x Lo Stato di Emergenza fu dichiarato in base all’articolo 352 della Costituzione indiana da Indira Gandhi che così riuscì a sbarazzarsi dell’opposizione interna al Congress Party, a parare i colpi che la Magistratura le stava infliggendo e a reprimere con ferocia le lotte popolari.

xi Per esemplificare, un conto è la conquista di diritti da parte degli omosessuali (emancipazione) e un altro è l’utilizzo ideologico-culturale di questi diritti da parte di Obama come arma geopolitica contro la Russia (cosa che pertiene alla modernità). Non bisogna lasciarsi travisare dalle discutibili contromosse russe come la recente legge, che seguono una logica di segno opposto ma dello stesso tipo, né dal modo irritante con cui i conservatori denunciano l’ingerenza statunitense. Succede sempre e la medesima polarità la possiamo vedere riguardo all’Euro, alle guerre imperiali e ai diritti umani. In fondo sono espressioni del doppio movimento di cui abbiamo parlato. L’utilizzo di diritti e di condivisibili istanze generali per fini di potere specifici è paragonabile a chi si finge in difficoltà per poter rapinare il soccorritore: un danno non da poco per chi ha veramente bisogno. In altre parole la modernità si può presentare come un’aggressiva concorrente dell’emancipazione sugli stessi temi. Il “progresso” a tratti può essere d’ausilio all’emancipazione, tuttavia i due processi non coincidono e possono entrare in serio contrasto. Se così non fosse il movimento comunista sarebbe stato solo un di cui della sinistra.

xii Paradigmatico il caso della diciannovenne Sambhavi Saxena arrestata durante una protesta contro la violenza sessuale. Riuscì a twittare il seguente messaggio: “Illegalmente trattenuta qui alla Stazione di Polizia di Parliament St. a Delhi, con altre 15 donne. Terrorizzate. Per favore RT (cioè “retweet“)”. La società di analisi mediatica Favstar stima che questo tweet si sia propagato in poche ore a 200.000 persone.

xiii In India 841 milioni di persone vivono con meno di 2 dollari al giorno.

xiv Nella stessa direzione i provvedimenti degli anni Ottanta per cui le donne possono essere arrestate e detenute solo da poliziotte. Si risolve amministrativamente qualcosa ma non la sostanza della logica dello stupro come attività punitiva e repressiva, se è vero, come è vero, che ci sono stati casi di commissarie che hanno incitato i loro sottoposti maschi a torturare e violentare le detenute.

xv Un discorso parallelo riguarda il modo in cui viene affrontato il sesso nella società indiana. Io ho l’impressione che la possibilità di parlare di sesso segua le stesse dinamiche sociali che ho cercato di illustrare. Una mia amica di Calcutta, già mio amico, parla apertamente del suo cambiamento di sesso, della femminilità e dei rapporti tra generi nel suo blog dedicato alla Matematica. Ma stiamo parlando di una ricercatrice universitaria in una grande metropoli, forse quella più aperta culturalmente dell’India. A Calcutta si iniziano a vedere nei parchi coppie che si baciano, però sotto lo sguardo sconcertato e a volte un po’ morboso dei passanti. Perché l’India è un Paese dove alla televisione non potete vedere due labbra che si toccano. In compenso, come hanno denunciato le femministe indiane, i film sono pieni di stupri. Di sesso e riproduzione non si parla ai ragazzini a scuola, ma nemmeno nelle famiglie. Uno degli obiettivi degli interventi in campo sanitario, anche del volontariato, è proprio l’educazione sessuale. E Internet è lì in agguato a permettere overdosi di pornografia. Sovraesposizione da una parte e tabù dall’altra. Un disastro.

xvi Le fortissime pressioni di ogni tipo sulle popolazioni tribali le ha condotte a una violenta chiusura verso l’esterno esasperando tra le altre cose l’ossessione per l’endogamia, che comunque è sempre esistita (si veda la storia della guerrigliera Shanti Munda raccontata nel saggio “Attraverso la lente del genere” di Mallarika Sinha Roy contenuto nel mio “Naxalbari-India” già citato). Le società tribali sono spesso mitizzate nella letteratura democratica ed ecologista mentre soffrono invece di notevoli contraddizioni esacerbate anch’esse dalla modernizzazione. Questa mitizzazione è stata contestata anche da sinistra (su ciò in Italiano si veda il capitolo V.3 del mio libro on-line “Al cuore della Terra e ritorno“). Ad ogni modo questo episodio è inaudito.

xvii Jyoti Singh era figlia di un facchino emigrato dall’Uttar Pradesh e lavorava a un call centre per pagarsi gli studi da fisioterapista a Dehradun, nello stato di Uttarakhand, a nord di Delhi. Il lavoro da fisioterapista le sarebbe servito per promuovere la mobilità verso l’alto dei suoi due fratelli minori. Non è dunque difficile capire perché la classe media di Delhi si sia identificata con le aspirazioni di Jyoti.

xviii L’ambiguità del connubio classe media-massmedia si riscontra anche in Occidente. Alzi la mano chi ha saputo, si è commosso e si è indignato per i contadini ammazzati a Nandigram nel 2007. Bene. Adesso alzi la mano chi ha saputo, si è commosso e si è indignato per la repressione nel 2009 delle manifestazioni della classe media di Teheran Nord (“dove l’alcol scorre a fiumi“, come ci viene detto per farcela sentire vicino a noi e farci capire quanto dobbiamo essere lontani dagli ayatollah). Pur scontando le modalità per cui un fatto “fa notizia”, il cortocircuito tra la coppia “classe media-massmedia” indiana e quella italiana salta agli occhi quando si mettono a confronto il rapporto tra l’entità del fenomeno negli Usa e in India e la totale mancanza di notizie focalizzate sugli Stati Uniti. In termini assoluti le violenze sessuali negli Usa sono 3,6 volte quelle indiane e in relazione alla popolazione sono ben 15 volte di più. Perché si parla solo di India? Perché si da per scontato che i maschi occidentali sono degli stupratori senza possibilità di redenzione? Io, da maschio italiano, spero di no.

xix L’India è anche la terra delle grandi attiviste sociali, come Aruna Roy, Medha Patkar, Vandana Shiva e Mahasweta Devi, che ho avuto la fortuna di incontrare personalmente. Arundathi Roy è una di esse, oltre ad essere una scrittrice in grado di vincere il Booker Prize. Si legga il suo magnifico romanzo “Il dio delle piccole cose” (Guanda, 1997) per capire i molteplici ingredienti della miscela, a volte reazionaria, a volte progressista, che blocca la possibilità di emancipazione. Anche Mahasweta Devi è una grande scrittrice. Ha dedicato la sua penna alle lotte sociali. Nei racconti raccolti nella “Trilogia del seno” (Filema, 2005) e ne “La preda” (Einaudi, 2004) è narrato con precisione cosa significa “violenza sociale e politica sulle donne in India”. Perché Mahasweta inventa «molto poco», come mi disse qualche anno fa a Calcutta.