Chi sono i veri nemici degli ebrei?

Redazione
www.confronti.net

La discussione sull’antisionismo può portare fuori strada, perché non esiste più il sionismo così come lo si intendeva alle origini. Quello che c’è oggi in Israele – sostiene l’attore, regista teatrale e scrittore Moni Ovadia – è un ultranazionalismo declinato anche nelle forme di fanatismo religioso, che utilizza in modo strumentale l’equazione antisionista=antisemita. L’«israelizzazione della Shoah», la chiusura in una logica identitaria fondata sull’uso autolegittimante di quell’«impensabile» – gli fa eco il filosofo Marramao – ha fatto della Shoah un «instrumentum regni»: contraddizione in termini, se si pensa alla cifra anti-identitaria e universalizzante dell’Orrore di Auschwitz, cui Theodor Adorno aveva attribuito la tragica rilevanza di margine estremo del Senso della Storia e di evento-limite del concetto filosofico.

Vi proponiamo i testi integrali (rivisti dagli autori) degli interventi di Ovadia e Marramao all’incontro del 6 dicembre scorso all’Università Roma Tre su «Antisemitismo/antisionismo: quando un termine stravolge una lotta», cui hanno preso parte anche Giovanni Franzoni e Francesca Koch (si veda anche Confronti di gennaio).

Moni Ovadia

Quello di cui dibattiamo oggi è diventato un tema particolarmente «scabroso», di cui si può discutere in un’aula universitaria, ma se si prova a passare in un ambito meno specialistico diventa impossibile parlarne. Io non sono uno specialista, ma un osservatore coinvolto. Ho scritto diverse riflessioni sul tema e ogni volta fra le reazioni si sono distinte per virulenza non poche mail di roventi insulti postate da persone o siti di quella parte del mondo ebraico che non è in grado di accettare critiche rivolte al governo e all’autorità militare di Israele. Gli insulti assai pittoreschi hanno questo tono: «nemico del popolo ebraico», «rinnegato», «sei come Eichmann»…

Pochissime questioni come questa sono gravate da un tale carico di ideologismo: perfino i fatti e la logica diventano ideologici… comunque è importante non perdere la testa, mantenere la lucidità e non lasciarsi intimidire. Il merito della questione è capire che cosa sia stato il sionismo e, se ancora esiste, che cosa sia.

L’«affaire Dreyfus» e il furore antisemita

Il sionismo politico, a mio parere, nasce sostanzialmente ex abrupto. Prima di esso, intorno agli ultimi decenni dell’Ottocento esiste un proto-sionismo culturale di alcuni interessanti personaggi dell’ebraismo di allora come per esempio Ahad Ha’am, ma il sionismo politico vero e proprio nasce nella testa del drammaturgo e giornalista Theodor Herzl. Ora, chi è Herzl? È un ebreo austriaco di origine ungherese, un commediografo di successo molto coccolato che vive benissimo nella sua Vienna del dorato crepuscolo dell’impero asburgico. Il futuro padre del sionismo è anche giornalista della Neue Freie Presse. Il suo giornale nel 1894 lo manda a Parigi come inviato a seguire il caso Dreyfus appena scoppiato. Di che si tratta? Un capitano ebreo, certo Alfred Dreyfus, è accusato ingiustamente di essere una spia a favore dei tedeschi. L’accusa è una montatura che verrà smascherata nel processo di appello. Ma la condanna in primo grado alla detenzione perpetua nell’Isola del Diavolo e la pubblica umiliazione dell’espulsione dall’esercito, con i gradi strappati e la sciabola spezzata, basta a scatenare un furore antisemita di un’isteria inimmaginabile. Il socialista Proudhon nei suoi taccuini annota espressioni raggelanti: bisogna togliere tutto agli ebrei (sinagoghe, lavoro…) e, se non ci si riesce, allora deportarli in Asia oppure «sterminare questa razza maledetta, nemica dell’umanità». Mille fra ufficiali dell’esercito, esponenti della burocrazia, e rappresentanti del clero lanciano una petizione affinché venga sperimentato un cannone di nuova fabbricazione contro un poligono dove concentrare centomila ebrei. Firmano anche alcuni intellettuali: Paul Valéry sottoscrive e manda tre franchi a sostegno della petizione accompagnati da queste parole: «Non sans réflection!». Tutto ciò accade nel clima sensuale, spensierato e rutilante della Belle Époque. Accade nel paese che ha dato all’umanità i diritti dell’uomo. Lo stesso paese che aveva ascoltato le memorabili orazioni di Robespierre contro l’antisemitismo e per l’emancipazione degli ebrei e aveva visto Napoleone, metterla in atto con forza di legge. Herzl di fronte alla barbarie della violenza antisemita rimane sconvolto. Un secondo shock inoltre lo colpisce come un brutale ceffone in faccia: il violento impatto con l’antisemitismo moderno. Non più l’anti-giudaismo di matrice cristiana, bensì un antisemitismo razziale e biologico fondato sulle teorie pseudoscientifiche dei Chamberlain e dei Gobineau, che implicitamente affermano: gli ebrei sono biologicamente estranei alle nazioni europee e lo sono irredimibilmente.

Herzl, considerando anche che lo zar Romanov non cessa di sterminare gli ebrei con i pogrom e le deportazioni e li perseguita con i domicili coatti e ogni sorta di vessazioni, giunge a questa conclusione: se l’odio per gli ebrei contamina la nazione dei lumi e nell’Europa orientale non si contrasta la loro persecuzione, significa che in Europa non c’è posto per noi. Herzl non trova altra soluzione alla «Questione ebraica» che quella di fondare uno Stato ebraico lontano dai territori contaminati e scrive la sua celebre opera Der Judenstaat, Lo Stato degli ebrei. Il gruppo di attivisti che sposerà in toto il progetto herzeliano dibatterà sul luogo in cui insediare l’entità nazionale ebraica: si faranno le proposte dell’Uganda, del Madagascar, del Suriname… ma alla fine si deciderà per la Palestina Mandataria, sulla scorta del fatto che duemila anni prima gli ebrei vi avevano vissuto in due regni ebraici come raccontato dalla Bibbia. È vero che gli ebrei per 2000 anni celebrando la Pasqua avevano, generazione dopo generazione, ripetuto il voto «l’anno prossimo a Gerusalemme». Ma si trattava di un anelito spirituale che non esprimeva certo l’idea di fondare uno Stato nel senso moderno del termine.

È mia opinione che se la Pandemia antisemita non si fosse impadronita dell’Europa e non fosse sfociata nella peste nera del nazismo, oggi non parleremmo di uno Stato di Israele. Il sionismo ai suoi esordi attrae molto poco gli ebrei dell’Occidente, e incontra molte opposizioni presso le comunità ebraiche, particolarmente fra gli haredim (gli ortodossi). Lo dimostra il fatto che nei primi due decenni del Novecento, mentre quasi tre milioni di ebrei per sfuggire alle persecuzioni e alla fame emigrano verso Stati Uniti, America Latina ed Europa Occidentale, solo 40.000 sono attratti dal sogno sionista. Il sionismo mi pare collocarsi sul crinale di una tardiva ed anomala vocazione risorgimentale; esso inoltre non nasce da una spinta autonoma interna ma dalla reazione disperata alla violenza altrui e cerca legittimazione con un mindset colonialista. Infatti i leader sionisti, in un momento in cui domina il colonialismo europeo, nel Medio Oriente e non solo, chiedono una legittimazione al potente impero britannico e nel 1917 ricevono la famosa Dichiarazione Balfour. Una quindicina d’anni fa ebbi l’occasione di intervistare un ex colonnello dei corpi speciali israeliani (divenuto in seguito preside di una scuola con studenti israeliani e una piccola percentuale di studenti palestinesi) che riflettendo sull’origine dello Stato d’Israele mi disse «Ho un 10% di allievi palestinesi e quando un giorno facevo lezione sul sionismo ho spiegato: “Noi abbiamo ricevuto la Dichiarazione Balfour”, uno di loro ha alzato la mano e quando gli ho dato la parola ha commentato seccamente: “noi no!”».

La Dichiarazione Balfour e il «focolare ebraico»

La Dichiarazione Balfour non è altro che la lettera di un ministro degli Esteri dell’impero britannico, colonialista e occupante – tra gli altri territori, anche la Palestina – compilata con Chaim Weizmann (leader sionista e celebre scienziato, che sarebbe diventato il primo presidente dello stato di Israele) e spedita a lord Rothschild, in quanto esponente della comunità ebraica inglese. Poi è stata allegata ad un codicillo del trattato di Sèvres che sanciva la fine della guerra tra inglesi e turchi, il predominio britannico e l’attribuzione del mandato sulla Palestina agli inglesi. Il sionismo basa quindi sulla Dichiarazione Balfour la rivendicazione del diritto a un «focolare ebraico». Mettetevi nei panni di un arabo: per lui la Balfour non ha nessuna legittimità, è carta straccia. È folle pensare che la lettera di un ministro di una potenza imperialista e colonialista debba automaticamente diventare legalità internazionale.

La dichiarazione Balfour porta con sé uno slogan basato su un presupposto falso che si rivelerà nefasto: «una terra senza popolo (la Palestina) per un popolo senza terra (gli ebrei)». La cancellazione virtuale del popolo palestinese diventerà una cancellazione de facto non solo ad opera dei governi israeliani, ma anche grazie agli errori e alla fattiva collaborazione dei regimi di molti paesi arabi. Il popolo palestinese ha vissuto e continua a vivere nella negazione della sua identità e della sua dignità. La politica israeliana al potere perpetua la negazione da sola e opprimendo i palestinesi avvelena il proprio futuro.

Non credo tuttavia che il sionismo sia stato un movimento di colonialismo classico. Gli ebrei non avevano una madrepatria che cercava un «posto al sole» per depredare materie prime e per scaricare come deiezioni i propri cittadini disagiati, ciò nondimeno la forma mentale del progetto fu ed è colonialista, anche se inizialmente ideologicamente camuffata dall’orientamento socialista della prevalenza del movimento e dalla buona fede di molti semplici militanti che credettero di partecipare alla edificazione di una nazione fondata sui principi del socialismo. I kibbutzim ne furono la punta di diamante col loro sogno di un collettivismo volontario e libero. In realtà essi svolsero una funzione strategica nell’edificazione dello Stato. È inoltre importante sapere che, ancorché contraddittoriamente e malgrado il suo mindset colonialista… Israele non nasce grazie al colonialismo, come piace pensare a posteriori ad una certa vulgata da super-sinistra male informata. I britannici, facendo un voltafaccia rispetto alla Dichiarazione Balfour, pubblicarono il Libro Bianco che contingentava pesantemente le quote di ebrei che potevano entrare nella Palestina del mandato e per loro interessi con le monarchie arabe, in particolare con la Giordania, armarono fino ai denti la Legione araba (il cui scopo era distruggere sul nascere il futuro stato ebraico) e imposero il blocco alla fornitura di armi ai combattenti ebrei con la connivenza degli Stati Uniti, in cui imperversava il maccartismo, che aveva fra i suoi stereotipi l’equazione ebreo=sionista=comunista. A quel punto il dominus internazionale della fondazione dello stato di Israele diventa Stalin. Già dall’istituzione del comitato antifascista ebraico nel 1944 il dittatore georgiano appoggia gli ebrei e il progetto sionista. Stalin ordina di aggirare il blocco inglese alla fornitura di armi agli ebrei «palestinesi» attraverso la Cecoslovacchia e fa inviare massicce forniture di armi pesanti e leggere ai sionisti. In seguito, sia Golda Meir che Abba Eban diranno a proposito della fondazione dello Stato d’Israele: «Senza i sovietici non ce l’avremmo mai fatta». L’Urss, oltre alle armi, dette alla nascente entità tutto il suo appoggio diplomatico e politico. Il primo sì allo Stato d’Israele all’Onu nel 1947 fu quello sovietico, seguito da quello dei paesi di tutto il blocco socialista. Tutto ciò allora impedì alle sinistre mondiali di vedere i palestinesi. Perché non furono solo i sionisti, a non vederli. Tutta la sinistra mondiale tripudiava per la nascita dello stato ebraico, «faro del socialismo» nel Medio Oriente delle monarchie reazionarie.

L’antisemitismo «di sinistra»

Ma anche Stalin nel 1949 fece un repentino voltafaccia, scatenando una violenta campagna antisemita travestita da lotta contro il cosmopolitismo che si concluse solo con la sua morte nel marzo del 1953. Non ritengo personalmente che Stalin fosse antisemita, ma che come sempre operasse per ragioni di consolidamento del proprio potere e che la ricerca individuale o collettiva di nuovi nemici facesse parte del suo modus dominandi. Fatto sta comunque che quella campagna fu spaventosa. Essa segnò il primo atto di rottura fra la «sinistra», Israele e il mondo istituzionale dell’ebraismo. Nel 1956, con la crisi di Suez, e la scelta da parte degli israeliani di schierarsi a fianco degli anglo-francesi in quella che fu un’aggressione colonialista di stampo classico, si approfondì il solco. Con la guerra dei sei giorni del ‘67 la rottura si consumerà definitivamente. Nel corso del conflitto ancora un parte significativa della sinistra era per Israele, paventava un nuovo «olocausto» di ebrei, influenzata anche da una martellante campagna di propaganda. Ma con l’occupazione dei «Territori» emerge la questione palestinese. Tutto cambia. Da quel momento la leadership israeliana stringe un rapporto organico di alleanza militare ed ideologica con gli Usa e lo stato di Israele entra definitivamente nel «salotto buono» dei vincitori occidentali. Il mondo del socialismo reale ci mette i suoi buoni uffici a screditare la «sinistra». La Polonia socialista di Gomulka nel 1968 dà l’avvio all’ultima campagna antisemita europea in grande stile e la traveste da lotta contro il sionismo, costringendo la quasi totalità degli ebrei a lasciare la Polonia: su per giù 343.000 dei 350.000 presenti allora nei confini della Reczpospolita. Tutto ciò dopo che il 90% della popolazione ebraica di quella nazione era stata sterminata dai nazisti.

C’è stato, c’è un antisemitismo di sinistra? Purtroppo sì. Già Lenin lo stigmatizzò con un’espressione presa in prestito dal marxista tedesco Bebel: «L’antisemitismo è il socialismo degli imbecilli». Nel 1918 il capo della rivoluzione d’ottobre fece rubricare l’antisemitismo come reato penale nella prima Costituzione sovietica e con l’occasione pronunciò contro di esso un vibrante discorso che anche oggi grazie ad una registrazione possiamo ascoltare dalla sua voce. Anche Stalin in quel tempo si espresse contro l’odio verso gli ebrei con perentoria durezza: «L’antisemitismo è la più pericolosa eredità del cannibalismo!».

Sionismo revisionista e destra israeliana

L’establishment israeliano, dal momento del suo ingresso nel «salotto dei vincitori» in avanti, gradualmente e progressivamente sceglie di operare nei confronti del popolo palestinese contro tutti i principi della legalità internazionale, estendendo e rendendo sempre più pervasive occupazione e colonizzazione. Tutti i governi israeliani, con la sola eccezione di Rabin (che dà la sua vita per la pace) lo fanno. Il sionismo classico e la sua illusione del resto si eclissano dopo la guerra del Kippur nel 1973. Già nel 1977 la destra di Herut e Likud prende il potere. Quelle formazioni provengono dal sionismo revisionista di Jabotinsky e di Begin e attraverso Shamir arrivano a Netanyahu, Sharon ne sposa la politica provenendo come transfuga dalle file del laburismo. L’ideologia revisionista, ultraconservatrice e reazionaria, in economia è iperliberista. Nei confronti degli arabi ha uno sguardo decisamente di impianto razzista e da sempre non contempla che nelle terre della Palestina mandataria vi sia posto per due stati, ma solo per la grande Israele terra degli ebrei. I politici che vi si ispirano, con la politica dei fatti compiuti e con provvedimenti di legge repressivi e liberticidi rendono la vita dei palestinesi grama come individui e impossibile come popolo. La gran parte dei governi laburisti che sempre più faticosamente si alternano con questa destra finiranno per appiattirsi sulle politiche della destra stessa.

Ultranazionalismo e fanatismo religioso

Oggi ritengo improprio parlare di sionismo e di anti-sionismo, perché il primo è solo un simulacro e di conseguenza il secondo si contrappone al simulacro di un’ideologia estinta. Il sionismo si fondava su due promesse: la prima proponeva di riportare tutti gli ebrei in Palestina, la seconda era quella di garantire che in quella terra, la «terra promessa», tutti gli uomini, a prescindere da etnia, origine, sesso, convinzioni religiose, avrebbero vissuto nell’uguaglianza e nella dignità. Invece oggi in Israele assistiamo al dominio di un ultranazionalismo declinato spesso nelle forme del fanatismo religioso. Esso ha creato un «apartheid de facto» che discrimina fra i cittadini e che nei territori occupati segrega, opprime ed espropria la vita di un altro popolo. Come può una persona per bene, un democratico sincero non essere contro questo nazionalismo furioso, che per sovra mercato pretende di tappare la bocca a chiunque non ne condivida principi ed azioni? Esso minaccia chi vi si oppone con l’equazione strumentale antisionista=antisemita: l’accusa di antisemitismo, intimidatoria, viene usata come efficace arma per mettere a tacere chiunque critichi. In Italia i partiti della sinistra, anche una rilevante parte di quella radicale, hanno subito il ricatto. Non si riesce più neppure a parlare liberamente di questo problema senza essere insultati o – peggio – minacciati. Ad aggravare questa mancanza di libertà di espressione ha contribuito non poco il pavido atteggiamento dell’Unione europea, appiattita finora al rimorchio degli Usa sulle «ragioni» di Israele. Le dirigenze europee hanno probabilmente cercato di silenziare così il complesso di colpa ereditato dai loro predecessori per aver lasciato perseguitare, deportare e sterminare i loro cittadini ebrei, quando ancora si poteva fermare tutto questo. Due piccoli popoli lo fecero: i bulgari e i danesi, dimostrando che si poteva fare. Scelsero di difendere gli ebrei come propri cittadini e li salvarono tutti. Dopo la guerra, l’Europa si comportò come sempre in modo vile ed opportunista, trovò comodo sgravarsi dalla pesante eredità che avrebbero costituito gli ebrei sopravvissuti se avessero deciso di ritornare tutti nei rispettivi paesi europei scaricando il problema sui palestinesi.

Anche approfittando del latente ed ambiguo complesso di colpa europeo negli ultimi lustri, l’establishment politico israeliano ha assunto in misura sempre più esclusiva l’eredità della Shoà come propria, con l’intento di farne uno strumento di pressione politica. L’israelianizzazione della Shoà è stata graditissima a molti politici della destra europei, e italiani in particolare, felici di potersi conquistare verginità e credibilità con una visita retorica nei luoghi dello sterminio e con la dichiarazione «mi sento israeliano». Questa sceneggiata ipocrita è vergognosa. Nessuno ha sterminato israeliani, fino a prova contraria, ma ebrei dell’esilio. Israele ha indubitabilmente titolo ad una parte di quella tragedia e alla sua memoria, ma non a monopolizzarla in esclusiva. La Diaspora ebraica è ancora maggioritaria e non si può cancellarla con artifici retorici. Inoltre è mia convinzione profonda che, se gli ebrei di allora fossero stati come gli israeliani di oggi, Hitler non avrebbe neppure scritto il Mein Kampf. Il criminale genocida odiava l’ebreo ubiquo, l’ebreo apatride, l’ebreo che riusciva ad essere simultaneamente il più tedesco dei tedeschi e il più ebreo fra gli ebrei mantenendosi fedele alle due identità. La destra israeliana revisionista e i loro sostenitori stanno uccidendo l’ebraismo, che nasce dall’amore per il pensiero e dal confronto dialettico anche asperrimo tra i maestri. Dove è finita questa grande sapienza? Dov’è oggi in Israele la luminosa e sublime conoscenza che ha fatto grande il contributo ebraico al mondo occidentale: da Marx a Freud ad Einstein?

|

Giacomo Marramao

docente di Filosofia teoretica e Filosofia politica all’Università Roma Tre e direttore della Fondazione Basso

Mi sento non solo solidale, ma in totale sintonia con Moni Ovadia, che ringrazio per le parole di apprezzamento che ha voluto dedicarmi. Le sue critiche sono dettate da passione: dall’intento di riscattare il potenziale energetico, liberatorio e dirompente, dell’ebraismo dalla pesante e dannosa ipoteca rappresentata dalla politica israeliana. Dire tutto ciò con franchezza pare a me un fatto importante da parte di un grande artista e intellettuale che ha contribuito in maniera straordinaria a far conoscere e valorizzare il meglio della grande cultura ebraica europea.

La chiusura di Israele all’interno di una logica identitaria, già individuata a suo tempo da Hannah Arendt, è oggi al centro della campagna critica portata avanti dalla mia amica e collega Judith Butler: filosofa nota internazionalmente e docente a Berkeley. Ero ospite di quell’università proprio quando, nell’ottobre del 2012, Judith, figlia di due ebrei ortodossi, è stata fatta oggetto di attacchi feroci da parte di settori oltranzisti delle comunità ebraiche, dopo essere stata insignita del prestigioso Premio Adorno. E posso testimoniare che il trauma indotto dalla violenza di quegli attacchi ha suscitato in lei una crisi depressiva che le ha impedito di muoversi di casa per diversi giorni: al punto da impossibilitarla a partecipare alla presentazione di un mio libro, che lei stessa aveva generosamente contribuito a organizzare. Si trattava di attacchi, per tono e contenuto, identici a quelli che vengono oggi scagliati contro Moni Ovadia: rinnegato, traditore, nemico della tua stessa cultura… Anche Walter Benjamin, che pure aveva manifestato dei seri dubbi sul progetto di «farsi stato» dell’ebraismo, ha dovuto, prima della tragica morte, subire analoghe polemiche e incomprensioni.

L’«israelizzazione della Shoah», come diceva prima Ovadia, la chiusura in una logica identitaria fondata sull’uso autolegittimante di quell’«impensabile», ha fatto della Shoah un instrumentum regni: contraddizione in termini, se si pensa alla cifra anti-identitaria e universalizzante dell’Orrore di Auschwitz, cui Theodor Adorno aveva attribuito la tragica rilevanza di margine estremo del Senso della Storia e di evento-limite del concetto filosofico. Con la messa in atto del dispositivo della «israelizzazione della Shoah» finiscono per essere delegittimati ed estromessi dal campo della discussione molti intellettuali ebrei della diaspora. Ma con la medesima logica identitaria e colpevolizzante vengono censurati gli argomenti degli stessi intellettuali e scrittori ebrei israeliani che si rifiutano di abdicare al dovere della verità e della critica. Ha ragione Moni ad insistere sulla gravità della ferita inferta all’ebraismo dal solco che così si apre tra politica israeliana e ebraismo della diaspora. Gli ebrei della diaspora hanno reso vitale la civiltà dell’Occidente con la pratica dei confini, degli incroci, della coabitazione fra lingue diverse… Questo era l’ebraismo: un’identità in viaggio. Lo straniero è stato sempre la figura-chiave della cultura ebraica. Ho avuto la fortuna di essere amico di Edmond Jabès, grande poeta ebreo di lingua francese, che mi trasmise un motivo che aveva sviluppato in uno dei suoi splendidi aforismi: ebreo è colui che sa di essere lo straniero dello straniero. La relazione all’altro è costitutiva dell’identità ebraica. Non è solo un fatto di tolleranza o di rispetto dell’altro: è la stessa identità ebraica a costituirsi a partire dal vertice ottico dell’alterità.

D’altra parte, come tutti sapete, anche don Primo Mazzolari diceva che la libertà religiosa – ma, aggiungerei, la libertà in generale e la stessa democrazia – è il diritto di dire alla gente ciò che la gente non vuole sentirsi dire: non si ha libertà autenticamente democratica, se non si ha il diritto di dire cose scomode. Israele, che afferma con orgoglio di essere l’unica democrazia del Medioriente, dovrebbe praticare in primis questa virtù: ascoltare le cose scomode.

Oggi assistiamo a uno schiacciamento dell’intero popolo ebraico su Israele. I tre monoteismi (ebraismo, cristianesimo, islam) nascono da un padre, Abramo, che si definisce pellegrino della terra in cui abita e, nel dichiarare ciò, pone la condizione ebraica a epitome dell’esperienza dell’universale sradicamento: ogni residenza è instabile. Qui la differenza radicale fra Atene e Gerusalemme. Gerusalemme non è un altro nome per un’altra patria, ma l’emblema della ricerca incessante di un’identità che peregrina di luogo in luogo, senza mai poter dire «quel luogo è mio»: neanche il padre Abramo, capostipite delle tre grandi religioni di redenzione, può dirlo. Questa semplice ma decisiva verità andrebbe oggi ricordata sia agli ebrei sia agli islamisti ortodossi: nessuno può dire «quel luogo è mio». Studiosi attenti, profondamente radicati nella tradizione ebraica, ci hanno rammentato che una significativa corrente del sionismo culturale e filosofico, che va da Martin Buber a Emmanuel Lévinas, ha visto nel «ritorno a Sion» non un’ennesima figura del Wille zum Staat, della volontà di instaurare una patria nazionale, ma «l’apertura di un nuovo ordine del mondo», capace di sovvertire l’orizzonte statocentrico della politica di potenza.

Abramo è, dunque, straniero anche della terra in cui è giunto e in cui, secondo lui stesso, instabilmente risiede: questo, piaccia o no, dicono le Scritture ebraiche. L’essenza dell’ebraismo consiste nella rottura del mito dell’autoctonia: siamo tutti stranieri sulla terra. Sulla Terra in generale, intesa come globo, come su ciascuna delle terre in cui ci accade di «risiedere». Un nesso intimo e profondo intercorre, allora, tra l’effrazione del mito dell’identità e la demistificazione dell’ideologia «proprietaria» del Blut und Boden («sangue e terra»). Ma vi è di più. L’ebraismo ha rivoluzionato anche il concetto di popolo, incardinato dai greci nella synghéneia, nella purezza etnica della polis, e dai tedeschi nelle radici terranee del Volk. L’ha rivoluzionato con l’idea di esodo, sostituendo alla terra il viaggio, alla mitologia delle radici la storia. Ha posto in intima connessione verità ed esilio: un motivo che riecheggia anche in Gesù di Nazareth, quando dice «Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14, 1-6). La verità è sempre una via, non una casa o una dimora stabile. E il solo modo che abbiamo di abitare la terra è serbando la memoria della nostra estraneità: nella lucida consapevolezza che nessuna terra ci appartiene. Vero è che Israele è il solo Stato che, con lo Yad Vashem, abbia eletto a simbolo della propria fondazione un’immagine che è l’esatto rovescio dei monumenti di vittoria e di gloria: un’immagine che parte dalla Shoah come esperienza della derelizione. Ma, appunto per questo, la memoria di quell’esperienza di male radicale, di incommensurabile dolore e di assoluto svuotamento, dovrebbe rendere più sensibili, non più indifferenti, alla sofferenza altrui. Hannah Arendt, in un articolo del 1952, fa l’elogio del rabbino riformista Judah Magnes, che aveva parlato della necessità di una convivenza tra arabi ed ebrei in Palestina, evitando la soluzione – che oggi appare a molti inevitabile – di due stati nazionali. Sarebbe splendida la soluzione di uno stato non-nazionale o postnazionale, che ospitasse ebrei e palestinesi affratellati, accogliendo i due popoli, oggetto di inaudite discriminazioni e di violenze nel corso della loro storia, come entrambi stranieri in una terra d’asilo.

I have a dream, verrebbe da dire. Ma spesso i sogni alimentati dalla passione del presente sono in grado di cogliere i segni dei tempi assai più della Realpolitik spartitoria delle superpotenze globali. L’alibi imperniato sulla sindrome dell’assedio, su cui Israele ha costruito il mito della fortezza, rappresenta oggi uno degli ostacoli maggiori alla ricerca di una soluzione all’altezza dei tempi. Ma la storia insegna – e andrebbe ricordato anche all’Europa di oggi, in primis alla cancelliera Merkel – che ogni volta che uno Stato o una civiltà si chiude in una fortezza, prepara la propria rovina.

Concludo con una frase di Judith Butler, che in Vite precarie giunge al cuore della questione: «Diremo ancora che gli ebrei, o meglio, gli israeliani che sono critici verso la politica di Israele, o che addirittura mettono in discussione la struttura e le pratiche di autolegittimazione dello Stato d’Israele sono ebrei afflitti dall’odio di sé, insensibili al fatto che queste critiche possono alimentare le fiamme dell’antisemitismo? Non potrebbe invece essere che questi critici sostengano una diversa via per lo stato di Israele, e che la loro politica, di fatto, derivi da visioni politiche altre, alcune evidentemente ebraiche, rispetto a quelle che sono attualmente codificate come sionismo?».

Aggiungo: non potrebbe essere che proprio da queste critiche si dischiuda la sola via in grado di accomunare ebrei e palestinesi nel medesimo destino e di proiettarli nel futuro della nostra era globale?