Iran, il negoziato appeso a un filo

Michele Paris
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La ripresa dei colloqui questa settimana tra l’Iran e il gruppo dei cosiddetti P5+1 (USA, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania) sul nucleare di Teheran era stata anticipata da un inasprimento dei toni da parte del governo americano e dal conseguente pessimismo manifestato dai vertici della Repubblica Islamica per un esito positivo. L’incontro di tre giorni a Vienna, concluso nella giornata di giovedì, è stato il primo tentativo di trovare un accordo di ampio respiro dopo quello temporaneo della durata di sei mesi andato in porto lo scorso mese di novembre.

Iniziato martedì, il vertice ha visto nel corso del primo giorno di colloqui un faccia a faccia di quasi un’ora e mezza tra il vice-capo della delegazione dell’Iran e la numero uno di quella degli Stati Uniti, rispettivamente il vice-ministro degli Esteri, Abbas Araghchi, e la sottosegretaria di Stato, Wendy Sherman. Nei giorni successivi, invece, nuove sessioni sono state condotte con i rappresentanti delle altre potenze coinvolte, senza che alla fine siano stati annunciati significativi passi avanti.

Secondo i partecipanti all’incontro nella capitale austriaca, questa prima fase del negoziato è servita a creare la struttura all’interno della quale verranno negoziate le questioni più delicate alla base di un eventuale accordo. A Vienna è stata decisa anche la data del prossimo incontro e la cadenza per quelli successivi. I rappresentanti dell’Iran e dei P5+1 si incontreranno nuovamente in Austria tra il 17 e il 20 di marzo e in seguito verrà organizzato un vertice ogni mese per provare a definire i contorni dell’accordo.

I principi che guideranno i negoziatori per superare le sostanziali differenze che caratterizzano le posizioni delle due parti non sono stati resi noti, anche se i delegati hanno annunciato per venerdì mattina una conferenza stampa congiunta tra il ministro degli Esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif, e la numero uno della diplomazia UE, Catherine Ashton, nella quale dovrebbe essere rivelato qualche dettaglio in più dei primi risultati dei colloqui appena terminati.

Il punto di partenza dei negoziati è comunque l’intesa provvisoria raggiunta a novembre ed entrata in vigore a gennaio, che prevede una certa limitazione dell’attività di arricchimento dell’uranio da parte dell’Iran in cambio di un modesto alleggerimento di alcune sanzioni economiche, grazie al quale il governo di Teheran potrà recuperare, tra l’altro, 4,2 miliardi di dollari degli oltre 100 che gli appartengono e che sono congelati su conti esteri.

L’atmosfera generale registrata a Vienna, nonostante l’apparente cordialità, è apparsa all’insegna di una certa diffidenza, sottolineata dalla conferma da parte di Araghchi di come lo smantellamento delle installazioni nucleari e dell’intero programma creato in questi anni non sia sull’agenda dei colloqui, come invece auspicherebbero alcuni governi occidentali o, ad esempio, il Congresso di Washington.

Il ministro degli Esteri Zarif ha comunque affermato che i colloqui sono “iniziati nel modo giusto” e che uno degli obiettivi condivisi è stato quello di consentire al suo paese di sviluppare un programma nucleare “esclusivamente pacifico”. Zarif ha però rimproverato gli Stati Uniti per avere discusso nelle scorse settimane la possibilità di approvare nuove sanzioni contro Teheran, creando “molta preoccupazione in Iran”.

Decisamente meno ottimista era apparso lunedì la guida suprema della Repubblica Islamica, ayatollah Ali Khamenei, il quale aveva affermato che i colloqui “non andranno da nessuna parte”, ribadendo tuttavia la sua intenzione di non ostacolarli, coerentemente con la volontà manifestata da tempo di raggiungere un accomodamento con gli Stati Uniti e l’Occidente. Khamenei ha anche riassunto correttamente l’approccio americano alla questione del nucleare iraniano, utilizzato cioè da Washington come una “scusa per intimidire e destabilizzare” il suo paese.

D’altra parte, nelle settimane trascorse tra il raggiungimento dell’accordo temporaneo e l’inizio della nuova fase dei negoziati, svariati membri dell’amministrazione Obama – a cominciare dallo stesso presidente – avevano, tra l’altro, prospettato un attacco militare contro l’Iran, ribadito la validità delle sanzioni economiche in essere, penalizzato alcune compagnie accusate di averle violate e minacciato altre che avevano sondato il terreno per tornare a fare affari a Teheran, nonché aumentato l’impegno a favore dei “ribelli” siriani che si battono contro il regime di Bashar al-Assad, vale a dire il principale alleato della Repubblica Islamica.

A rendere sufficientemente chiare le intenzioni americane era stata poi la stessa Sherman in una recente apparizione al Senato di Washington. Durante la sua testimonianza di fronte a molti “falchi” del Congresso, la diplomatica statunitense aveva assicurato che la delegazione da lei guidata avrebbe chiesto il pressoché totale smantellamento del programma nucleare iraniano e di sottoporre quanto dovrebbe rimanere in attività ad un regime ispettivo estremamente invasivo.

Non solo, la lista delle richieste USA all’Iran potrebbe includere anche molto altro, come la fine del sostegno alla Siria, a Hezbollah in Libano e ad alcune formazioni palestinesi come la Jihad Islamica, ma anche la soppressione del programma domestico di difesa missilistica in fase di sperimentazione.

Questo atteggiamento dell’amministrazione Obama conferma perciò come gli Stati Uniti intendano utilizzare gli sforzi diplomatici non per raggiungere un accordo basato sul riconoscimento delle legittime aspirazioni iraniane, bensì come strumento solo momentaneamente alternativo alla minaccia militare.

La strada diplomatica, cioè, per gli USA resterà percorribile solo se l’Iran dovesse piegarsi interamente alle loro richieste e integrarsi in un sistema strategico mediorientale allineato agli interessi di Washington. In caso contrario, tornerà a prevalere l’opzione militare e la campagna per il cambio di regime a Teheran.

Questa impressione è stata rafforzata proprio in questi giorni, quando un portavoce della Casa Bianca ha ammesso che gli USA chiederanno all’Iran di affrontare anche la questione dei missili balistici nel corso dei negoziati. Ufficialmente, le preoccupazioni occidentali sarebbero legate alla possibile installazione di testate nucleari su missili a lungo raggio, mentre questo programma ha per l’Iran una funzione puramente difensiva di fronte alle minacce di aggressione lanciate regolarmente dai propri nemici, a cominciare da Israele.

Teheran, da parte sua, sempre attraverso il vice-capo della delegazione inviata questa settimana a Vienna, ha già dichiarato chiaramente che “le questioni difensive non sono negoziabili né soggette a compromesso”, così che l’Iran “non discuterà di argomenti diversi dal dossier nucleare durante i colloqui”.

Che quest’ultima questione possa diventare un’altra arma per fare pressioni sull’Iran, minacciando di far naufragare i negoziati, è confermato infine anche dal fatto che alcuni senatori americani hanno già presentato una bozza di legge per spingere la Casa Bianca ad includere nell’accordo finale sul nucleare di Teheran la rinuncia al proprio programma missilistico di difesa, come previsto peraltro da una più che discutibile risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

A dare forza agli argomenti americani aveva contribuito proprio settimana scorsa l’annuncio da parte della Repubblica Islamica di avere testato con successo due missili balistici – costruiti in Iran dopo lo stop alla fornitura dei sofisticati S-300 da parte della Russia – con una portata stimata di almeno 1.500 km.