Il governo e la scuola: rivoluzione o restaurazione?

Adriano Prosperi
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Una rivoluzione culturale, annuncia la ministra dell’Istruzione: ma non si tratta di un ritorno d’attualità del compagno Mao e delle sue guardie rosse. La ministra Giannini non sembra affatto una seguace del grande timoniere. E’ decisa o almeno decisionista (che non significa la stessa cosa) e perciò non ha guardato per il sottile nella scelta della sigla per l’azione da svolgere nella scuola. Un settore che gode di una grande attenzione in questo governo: mentre il premier Renzi compie una tournée negli istituti scolastici e promette ai bambini di rifare il tetto agli edifici, la sua ministra si occupa delle fondamenta e promette di rovesciare nientemeno che il paradigma culturale dell’istruzione tutta.

Già nel corso dell’ultima campagna elettorale che la elesse al Senato promise una sua “rivoluzione per l’istruzione”: e oggi è tornata a esibire quel tipo di linguaggio. E’ un piccolo indizio, se ce ne fosse bisogno, di un ricorrente (e non solo suo) uso aggressivo delle parole: che vengono ripescate dal loro contesto specifico e ributtate sulla piazza mediatica senza nessun avvertimento per l’uso.

Alla aggressività ci siamo assuefatti: anche se ci vorrà del tempo perché sparisca dalle menti lo slogan orrendo della “rottamazione”. Ma il linguaggio, come ben sa o dovrebbe sapere una ministra di formazione glottologa, è rivelatore di contenuti e desideri nascosti. Parlare di rivoluzione significa chiedere un consenso all’azione personale mettendo sul piatto tutto il peso di un carisma individuale fatto di energia e di risolutezza: è uno stile inaugurato nell’800 da Luigi Napoleone e per questo porta il nome che gli fu dato da Karl Marx: bonapartismo, cesarismo.

Nacque allora un modello che doveva trovare lungo successo di imitatori nelle strategie di presa individuale del potere nell’età delle masse. Fare appello all’appoggio popolare per sbaraccare regimi parlamentari lenti e litigiosi chiedendo fiducia in bianco al popolo in nome di doti personali speciali e nel pieno disprezzo delle regole formali, divenne da allora lo stile imitato da tanti protagonisti nel bene e soprattutto nel male della storia del potere politico: incluso il compagno Mao e la sua “rivoluzione culturale”.

Ma vediamo quale sia la rivoluzione promessa dalla ministra Giannini e che cosa ci si possa aspettare dall’azione pervasiva e dall’attivismo scolastico suo e del suo premier.

La scuola è così importante per tutti noi ed è così presente nella comunicazione pubblica del governo Renzi che bisognerà guardare meglio a quel che si prepara dietro il velo del decisionismo verbale. La ministra ha parlato spesso di scuola, promettendo molto senza scendere nel concreto. Leggendola sembrava di capire che si andasse finalmente verso un cambiamento della rotta seguita fino ad oggi nel corso del ventennio berlusconiano: privatizzazioni, riduzione alla fame delle scuole pubbliche e degli insegnanti, patto scellerato con la Chiesa italiana.

Poi sono arrivati messaggi più chiari: ha detto giorni fa che il contratto degli insegnanti italiani è “mortificante e da rivedere”. Parole sante. Ma c’è di santo anche qualcos’altro: in pari data vennero sbloccati 223 milioni per le scuole private. Si aggiungono ai 260 già previsti. Piovono benedetti su di un settore in grave difficoltà da anni, per l’emorragia di iscritti. Questione di soldi: l’impoverimento progressivo delle famiglie ha riconvertito la domanda verso le scuole statali. Qui la Gelmini, cioè la ministra che continua ancor oggi a dominare la vita della scuola coi suoi provvedimenti, aveva risolto il problema alzando il numero degli allievi per classe oltre ogni ragionevole limite. Ma la crisi inarrestabile del paese riporta di nuovo la questione all’attenzione del governo e impone alla ministra di scendere nel concreto e spiegare meglio che cosa intende per rivoluzione.

Ebbene quello che viene fatto con lo sblocco dei finanziamenti ha trovato una chiave di interpretazione in quel che è stato detto. Parlando a Radio 1 giorni fa, la ministra ha detto che “la libertà di scelta educativa è un principio di grande civiltà”. Fin qui, niente da obbiettare. Lo dice anche la Costituzione italiana all’art.33 terzo comma: Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato. Ma la ministra ha aggiunto che scuole statali e paritarie “devono avere uguali diritti”. Espressione diversa da quella usata dai padri costituenti. Si va verso l’affermazione di un diritto oggettivo delle scuole private di godere degli stessi finanziamenti: o no? Sarà bene che si faccia chiarezza su questo punto.

Alla ministra di un governo nato avventurosamente dall’energia vera o presunta di un leader, si deve chiedere se dobbiamo tornare ai tempi di quella ministra Moratti che nel 2004 invitò i dirigenti scolastici a far sì che in tutte le scuole si spiegasse bene il significato del Natale quale rappresentato dalla tradizione italica del presepe. C’è da chiedersi se il fatto che al pluricondannato Berlusconi questo governo abbia reso diritto di presenza pubblica (con l’effetto di spaventare gli investitori finanziari internazionali), porti con sé la messa in crisi del principio della laicità dello stato: un principio che la Corte costituzionale, nella decisione dell’11 aprile 1989 ha definito “supremo”.

Oggi la rivoluzione culturale promessa dalla ministra Giannini, nell’affrontare col metodo dell’energia fattiva i problemi della scuola, sembra far prevalere ancora una volta il fatto sul diritto, la quantità (delle scuole private cattoliche) sulla qualità della scuola pubblica: una qualità che resiste ma che aspetta da tempo di essere rafforzata e tutelata.