Le (ridicole) sceneggiate di Renzi nelle scuole

Marina Boscaino
www.micromega.net

Qualcuno dotato di buon senso, se non addirittura di senso civico, suggerirà prima o poi a Matteo Renzi di rinunciare al giro pastorale nelle scuole. Potrebbe essere il giornalista filorenziano, che recuperi miracolosamente l’inusuale posizione verticale della propria colonna vertebrale. Potrebbe essere il senatore (renziano in extremis), che reinterpreti con un guizzo di dignità la memoria dell’eredità di un partito che aveva improntato al rigore morale e alla sobrietà dei comportamenti personali e della pratica politica e istituzionale il proprio percorso. Potrebbe, infine, addirittura essere il ministro dell’Istruzione, che voci autorevoli sostengono essere davvero in carica, anche se la sua zona del palcoscenico viene una volta alla settimana oscurata dalle estemporanee sortite del giovane capo, che nel resto dei giorni non fa che sconfessare (con dichiarazioni spesso contrarie) quanto il ministro stesso afferma con logorroica imprudenza sui media.

Ci dovremmo essere abituati, dalle poesie di Bondi alle esecuzioni dei testi di Apicella; eppure il remake da coro dell’Antoniano, organizzato a Siracusa dal maestro prof. Genovese (temiamo in perfetta buona fede) ed eseguito dal medesimo – forse non per caso – nella trasmissione radiofonica Un giorno da pecora, in un’indimenticabile prova da solista, è riuscito a scuotere anche il più cinico e rassegnato spettatore di ciò a cui ha ridotto la politica lo showman fiorentino.

Passiamo alle cose serie.

È accaduto che in una scuola primaria di Siracusa, la Raiti, le inconsapevoli vittime (i bambini) di una pagliacciata sul modello della peggiore tv spazzatura (dov’erano – e dove sono? – gli insegnanti? Come hanno reagito i genitori? Come il dirigente ha potuto consentire un abominio del genere?), hanno intonato una versione- riveduta e corretta – di Clap and Jump. La rivisitazione è quanto di più lontano dalla “spontaneità” alla quale si è appellata la dirigente, Angela Cucinotta. Leggete (o ascoltate, la Rete è piena dei filmati) per credere: “Ti salutiamo tutti insieme presidente Renzi. Siamo felici e ti gridiamo… da oggi in poi, ovunque vai, tu non scordarti di noi, dei nostri sogni, delle speranze, che ti affidiamo con fiducia oggi al ritmo di blues”. “Le ragazze, i ragazzi, tutti insieme alle tue idee e al tuo lavoro affidiamo il futuro. E poi di nuovo, ancora insieme noi camminiamo, ci avviciniamo e un girotondo noi formiamo sempre a tempo di blues”. Tutto mentre la sorella del carabiniere assassinato da Cosa Nostra, cui la scuola è intitolata, aspettava fuori, nonostante avesse ricevuto l’invito a partecipare: il cerimoniale del presidente non prevedeva la presenza di persone esterne.

Il bavaglino No Tav di una neonata sulla foto postata in Facebook dai suoi genitori ha fatto gridare all’orrore e allo scandalo. Ammaestrare bambini della scuola primaria, mettendogli in bocca parole di cui non possono certamente comprendere significato e valenza (ma certamente il tono!), nel luogo del pluralismo e della nascita e crescita della cittadinanza attiva, della costruzione della consapevolezza e del senso critico, è qualcosa che non avevamo ancora mai visto (persino Berlusconi non è arrivato a tanto), se non in tempi che preferiamo non ricordare. E che preferiremmo non vedere mai più.

A pochi giorni dalla morte dell’amato Mario Lodi, l’uomo che sapeva parlare con i bambini – silenzio e meditazione, il suo motto – ispirato alla pedagogia di Freinet e

dalla convinzione che occorra dare ai più piccoli gli strumenti per imparare ad osservare il mondo con i propri occhi, la parata della Raiti sembra ancora più patetica e inquietante.

Qualcuno, per favore, gli consigli di smettere. Il ridicolo è quasi superiore alla gravità di questa sceneggiata.

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Quei soldi pubblici alle scuole private

Nadia Urbinati
Repubblica, 2 marzo 2014

Cambiano i governi non la politica scolastica, che promette di andare verso la graduale eguaglianza delle scuole private a quelle pubbliche. Alcuni governi sono più energici di altri; questo parte con una straordinaria determinazione. Le prime dichiarazioni della nuova ministra della Pubblica istruzione, Stefania Giannini, sono improntate al merito e al bisogno, per usare una fortunata coppia di valori, molto frequentati negli anni ’80. Il merito dovrebbe guidare la diversificazione remunerativa degli insegnati delle scuole pubbliche: coloro che producono di più dovrebbero essere meglio retribuiti, come i dipendenti di una qualunque azienda.

Il criterio per stabilire il merito nell’insegnamento medio e superiore non sarà facile da individuare, a meno che non si adottino criteri discutibili come il numero dei promossi, le ore di servizio alla scuola, o il buon gradimento da parte dei genitori o del dirigente scolastico. Ma è doveroso attendere le proposte prima di giudicare, riservandoci un angolino di scetticismo per le pratiche che vogliono applicare la logica degli incentivi economici a tutte le funzioni indifferentemente, non tenendo conto che ci sono beni di cittadinanza (come la scuola) che non possono essere giudicati con gli stessi criteri della produzione di beni destinati al mercato.

Le dichiarazioni di Stefania Giannini sono invece più esplicite nella parte relativa ai rapporti dello Stato con le scuole private paritarie. Qui la ministra invoca il bisogno. E le posizioni che emergono sono molto preoccupanti benché non nuove. Nuovo è l’armamentario argomentativo, perché pensato non per convincere che le scuole private parificate meritino più finanziamenti, ma per sostenere che esse hanno bisogno dei soldi pubblici e, infine, che il sollievo dal bisogno sarà garantito dal percorso del governo che va verso l’affermazione dell’eguaglianza piena, non più della parità, delle scuole private con quelle pubbliche. Il fine è far cadere ogni barriera che distingue i due ordini di scuola allo scopo di non dover più giustificare i finanziamenti pubblici, che a quel punto sarebbero dovuti. In questa cornice si iscrive la proposta della ministra di rilanciare le scuole private paritarie.

Veniamo alla giustificazione di questa marcia accelerata verso la scuola privata, che come si è detto è basata sul bisogno: in pochi anni le scuole private hanno perso studenti (in cinque anni uno su cinque), e per fermare questa emorragia lo Stato dovrebbe intervenire. E così è. I soldi pubblici sono infatti già stati accreditati alle Regioni, come ha comunicato la Compagnia delle opere (ben rappresentata nel governo): 223 milioni di euro stanziati per l’anno scolastico 2013/2014, in aggiunta a 260 milioni già previsti per lo stesso anno. In tutto, 483 milioni che tengono in piedi un settore in estrema difficoltà. Il pubblico, dunque, “tiene in piedi” la scuola privata in difficoltà. I vescovi e la ministra Giannini all’unisono chiamano questa una politica di «libertà effettiva di scelta educativa dei genitori».

Ma se c’è emorragia di studenti dalle private alle pubbliche, logica vorrebbe che si diano più risorse alle pubbliche, sia perché ne hanno presumibilmente più bisogno sia perché se lo meritano, avendo attratto più studenti, nonostante le “classi pollaio” esito della riforma Gelmini. Se è solo per bisogno che le scuole private devono ricevere i soldi pubblici, ciò significa che lo Stato fa dell’assistenza vera e propria. Non è dunque chiaro con quale logica la ministra applica la coppia merito/ bisogno, perché qui sembra di capire che le pubbliche siano punite proprio per ricevere gli studenti che abbandonano le private, le quali per non saper trattenere gli studenti ricevono invece i finanziamenti. È chiaro che i soldi pubblici servono a tenere queste scuole in vita, non a premiare il merito o il buon rendimento.

Tenerle in vita, si sostiene, perché sono il luogo dove si concretizza la «libertà educativa dei genitori». Ma perché i genitori scelgono di iscrivere i figli alla scuola pubblica? Presumibilmente questa loro scelta libera è dettata da ragioni di merito: la scuola pubblica è, nonostante tutto, migliore e vince sul mercato della libertà educativa. Ma a seguire le parole del ministro sembra di capire che lo Stato interverrebbe quando la scelta è già stata fatta, ovvero per finanziarne il residuo (cioè il risultato di quella scelta) non per garantirla. Qui vediamo in azione l’opposto del criterio del merito e del bisogno legato al merito, e inoltre una stridente contraddizione con il principio della libera scelta.

Un argomento insidioso per giustificare il tampone di emorragia con i soldi pubblici è che un alunno delle scuole private costa meno di un alunno delle scuole pubbliche. Nel contesto di razionalizzazione mercatista della spesa pubblica nella quale ci troviamo, non si fatica a intuire quale sarà il passo successivo: meglio finanziare le scuole private che quelle pubbliche perché costano meno all’erario. Questo sarebbe un epilogo fatale per la scuola pubblica. A giudicare da queste prime dichiarazioni della ministra Giannini, nel settore dell’istruzione il governo promette di essere un governo della restaurazione, ovvero di voler chiudere la disputa tenuta aperta dalla nostra Costituzione, decretando che tutte le scuole sono pubbliche, quelle dello Stato e quelle private parificate, che tutte devono essere “eguali”. La maggioranza parlamentare ha il potere di farlo. Ma l’opinione pubblica e politica ha il dovere di criticare questa scelta e di operare per fermarla o cambiarla.