Non mi accontento di M.Lanfranco

Monica Lanfranco
www.womenews.net

Non mi accontento, lo so. E’ sbagliato, so anche questo. Provo, davvero, ma è difficile, per me.

Per esempio: fanno un governo 50 e 50 e io lì subito a dire che non c’è il Ministero per le Pari Opportunità, (che vuol dire, tra l’altro, che non si sa come potranno andare avanti i progetti contro la violenza della maggioranza delle strutture sul territorio). Mi ostino a non festeggiare, e mi risento anche perché la Ministra della difesa viene da un filone di pensiero non certo pacifista. Alcune trenta/quarantenni stigmatizzano sul blog di Lorella Zanardo, (che gentilmente rilancia la mia riflessione sul nuovo governo), questo mio disappunto: insomma non avevamo detto che la parità di genere era l’obbiettivo? Basta con queste veterofemministe brontolone.

Io, per la verità, sono decenni che dico che non è un obiettivo finale, perché è la qualità che conta, è l’essere portatrici di cambiamento e di visioni femministe, ma insomma, siamo sempre lì: non mi accontento, lo so, ed è sbagliato. Mi invitano in un ricco comune del nord ovest, dove una assessora attivissima e gentilissima organizza nella sua città un ‘talk’ con donne del mondo del lavoro e della società civile, condotto da una collega televisiva, brava e impegnata. Mi domando perché sia sempre necessario il personaggio tv per organizzare un momento di parola e di discussione, e perché bisogna chiamarlo talk. Anche le letture del libri: se non le chiami reading non sei cool.

E’ che non mi accontento, lo so: dopo oltre 20 anni di tempi, modi, linguaggi tv che hanno permeato le nostre vite (e dico davvero, dal modo di vestire, parlare, fare l’amore, organizzare le feste di compleanno, i matrimoni, i funerali, il parto, tutto secondo i dettami della tv) come si fa ad avvicinare il pubblico e pretendere di riempire la sala se indici ‘soltanto’ un ‘incontro’ o un ‘dibattito’? Ovvio. E’ che non mi accontento.

Eppure dovrei essere contenta che il teatro si riempia, che le donne che salgono sul palco possano dire che sul lavoro ora sì che c’è la parità, (nella loro azienda di famiglia), che la giovane carabiniera possa fieramente dire che ama la sua divisa, che la responsabile di un centro contro la violenza dica che non è certo femminista, e che si discuta tra il serio e il faceto sul multitasking, stabilendo che siccome gli uomini delle caverne avevano da stare focalizzati sulle prede non han potuto sviluppare la visione laterale e globale, mentre le cavernicole invece sì, occupandosi di agricoltura e cuccioli, e per questo imparando così a vedere anche dietro alla nuca.

Insomma, amiamo gli uomini ma non possiamo pretendere da loro che facciamo più di una cosa per volta, è così e basta.

Ci sarebbero dei video da vedere (per esempio quello di Eve Ensler, La preghiera di un uomo, che dura tre minuti, o quello di un minuti che riassume la campagna One billion raising) ma si sa, i tempi tv son tiranni, (anche se non siamo in tv), e la gente potrebbe annoiarsi.

E’ che non mi accontento, lo so.

Al mattino, nella strada del ritorno, sulle dolci colline baciate dall’incipiente primavera conto 25 giovani nigeriane che aspettano i clienti, statisticamente distinti padri di famiglia di ogni età del dolce e ridente nord ovest. Mentre passo in auto una di loro, particolarmente attiva e quasi nuda, fa ampi gesti per segnalarsi, e solo quando vede che al volante c’è una donna smette di sbracciarsi, fa un gesto di scusa, e si prepara per la vettura successiva.

Per un vasto filone di pensiero anche questa è una possibilità, nel vasto mondo libero che andiamo costruendo, no? Mica saremo moraliste.

E’ che non riesco, proprio non mi accontento. Ma, ovviamente, sbaglio.

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Tremate, tremate, abbiam ministre armate!

Annamaria Rivera
www.ilmanifesto.it

E’ con enfasi, perfino con una certa euforia, che alcuni media mainstrem italiani hanno commentato la parità di genere nella composizione del governo Renzi e, più tardi, la riunione nel quartiere generale della Nato delle cinque ministre della Difesa, tra le quali l’italiana Roberta Pinotti. “La foto di tante signore in un ambiente maschile per eccellenza – ha scritto La Repubblica – è un altro simbolo della marcia verso la parità”. Una moderata soddisfazione si coglie anche presso alcune femministe, per le quali finalmente va affermandosi ciò che dovrebbe essere la normalità nelle relazioni di genere. Io sono più scettica, per orientamento antimilitarista e non solo.

Da sottosegretaria alla Difesa, Pinotti niente aveva fatto per convincerci che le donne sono tutte pacifiste per natura, come vuole certa vulgata differenzialista. Quella che enfatizza l’essenza della femminilità individuandola, fra l’altro, nella propensione al pacifismo, appunto, e alla cura. La prima dichiarazione di Pinotti dopo la nomina è stata esattamente quella che –se non fosse per il lessico melenso- ci saremmo aspettate da un uomo al suo stesso posto: il primo impegno è portare a casa i marò, che “sono nel mio cuore e nel cuore di tutti gli italiani”.

Date le premesse, c’è forse da sperare che, da ministra, la signora abbandoni, che so, il progetto dei caccia F35? Che riformi il ruolo delle forze armate, almeno nel senso di una minore sudditanza alla Nato? Che operi affinché sia rispettato pienamente l’art.11 della Costituzione?

Ovviamente, le domande sono retoriche. Il mito della natura pacifista delle donne avrebbe dovuto infrangersi da lungo tempo. Almeno dal tempo delle immagini abominevoli di Abu Ghraib, con la soldatessa statunitense Lynndie England ripresa mentre calpesta un groviglio di corpi nudi di prigionieri iracheni, ne trascina uno al guinzaglio, posa accanto al cadavere di un torturato sfoggiando un sorriso pubblicitario imbellettato.

Quanto al mito dell’innata e universale inclinazione femminile alla cura, se mai si fosse continuato a coltivarlo, per metterlo in dubbio sarebbe bastata la prova dell’impietosa ministra Fornero, incurante di vecchi e giovani (fece bene a denunciarla, il padre di uno dei tanti choosy, Norman Zarcone, dottorando palermitano suicida per disperazione da vuoto di prospettive di lavoro).

Per loro e nostra fortuna, non è con degli Abu Ghraib che avranno da misurarsi le nuove ministre. Ma nel loro piccolo, di ancelle e puntelli di un governo patrialcal-giovanilista-neoliberista, oltre tutto privo di legittimità elettorale, non calpesteranno, certo, corpi nudi di prigionieri, ma contribuiranno a calpestare principi basilari della Costituzione, i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici, la dignità di chi del lavoro è privato, la priorità della scuola pubblica, lo stato sociale…

Quanto alle deputate che protestano, non senza ragione, affinché l’Italicum (grottesco già nel nome) includa le “quote rosa”, non potrebbero, più coerentemente, indignarsi per una “riforma” elettorale anticostituzionale, insensata, irrispettosa della sentenza della Consulta, per di più concordata con un machista, un pregiudicato interdetto dai pubblici uffici?

In definitiva, questo è il senso di ciò che le femministe della mia generazione bollarono come emancipazionismo: pur d’essere fra le salvate, non importa quali masse di sommerse ci si lasci alle spalle.

Altro che “simbolo della marcia verso la parità”! Intorno a loro ci sono le macerie provocate dal neoliberismo, dalle privatizzazioni, dalla crisi economica, soprattutto dalle politiche di austerità, che per le donne hanno comportato arretramento in molti campi, rispetto a una condizione che era già tra le peggiori in Europa. L’ultimo rapporto sul Gender Gap del World Economic Forum ci dice che, per partecipazione femminile alla vita economica, l’Italia occupa un indegno 97° posto, su 136 paesi di tutti i continenti.

Per non dire dell’incremento di stupri e femminicidi, dell’assenza di una legge che riconosca a tutte/i il diritto al matrimonio e all’adozione, degli attacchi alla 194, sempre meno applicabile per colpa del 70 per cento di medici pubblici che si dichiarano obiettori di coscienza.

E allora non sarebbe il caso di tornare a parlare di liberazione e a invadere le piazze per rivendicare il pane e le rose?