Quale democrazia? paritaria, di genere o rappresentativa? di L.Menapace

Lidia Menapace
www.womenews.net

Il confuso dibattito su legge elettorale e scarsa presenza di donne, manca proprio di fondamenta e perciò svolazza a caso su parole senza senso: che vuol dire democrazia paritaria? che vuol dire democrazia di genere? e perchè non usare il termine collaudato di Democrazia rappresentativa? Preferisco questa ultima locuzione e spiego perché. Quando le donne norvegesi -ben più di un secolo fa – ottennero (prime al mondo) il riconoscimento del loro diritto di voto attivo e passivo, la democrazia era già detta a suffragio universale, quando tutti i maschi avessero il voto e nemmeno mezza donna.

Per questo le norvegesi, ragionando sulla realtà e non su astratte definizioni di principio, si dissero che -se avessero lasciato fare alle cose così com’erano – verso il 3300 sarebbero arrivate al 4% circa, sicché si proposero di trovare uno strumento provvisorio, tale da agire sulla cultura che aveva prodotto una rappresentanza solo maschile o quasi, in modo che il mutamento (sarebbe più giusto dire la mutazione) diventasse alla fine culturale e irreversibile, senza innestare revanscismi e rappresaglie e vendette.

Fecero dunque approvare dal parlamento una “clausola di non sopraffazione sessuale” per la quale le liste debbono sempre essere confezionate in modo che nessun genere abbia più del 60% di candidature, nessuno meno del 40%. La norma rimane in vigore fino a che questa partizione non meccanica nè solo aritmetica, ma equilibata sia divenuta abituale: é ancora in vigore anche in Norvegia, tradotta in italiano da chi non capisce nè il norvegese, nè la logica “quote rosa”: invece essa impedisce sia la presentazione di liste solo maschili, sia di liste solo femminili, agendo su due generi e offrendo spazi modificabili e non burocratici, in altri termini è antipatriarcale, ma non intende avviare il matriarcato.

Troppo complicato per i nostri Soloni? ripassino un po’ la grammatica, per favore, e poi parlino: se no tacciano, che fa lo stesso.

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Il sessismo passa (anche) dalle quote rosa

Cecilia M. Calamani
www.cronachelaiche.it

In un suo post di qualche giorno fa, Giovanna Cosenza denunciava il sessismo del governo Renzi attraverso una lucida definizione: «Fare sessismo significa guardare una persona, e cioè valutarla, giudicarla, fotografarla, riprenderla in video, in una parola “definirla” (con parole e/o immagini), per il suo sesso, punto e basta. Non per ciò che sa, pensa, dice, sente. Non per quel che ha fatto o potrebbe fare. Non per la sua storia personale e/o professionale. Ma solo per il sesso che le si attribuisce, con tutti gli stereotipi che si porta dietro: vestiti, posture, comportamenti, tic vari. Ed è sessismo, attenzione, anche quando lo sguardo – il giudizio, la valorizzazione, la definizione – sono positivi, non solo quando sono negativi».

L’appello bipartisan delle nostre parlamentari per inserire nell’Italicum la parità di genere ha lo stesso sapore strumentale dello scegliere metà dei ministri donna (e sventolarlo come “progresso”). Parlare di necessità delle quote rosa nella rappresentanza politica è un boomerang che invece di favorire la parità dei sessi ne rimarca la disparità. Crea una specie protetta, da riserva indiana, che è propria del sessismo, non della parità. Che una donna valga in quanto “donna” e non in quanto “capace” cos’è se non sessismo?

In tutto ciò, poi, emerge un ulteriore controsenso. Con le liste bloccate dell’Italicum si costringono i cittadini a fidarsi delle scelte di partito senza poter esprimere le proprie preferenze. Le parlamentari promotrici dell’iniziativa, invece di battersi affinché gli elettori possano scegliere i loro rappresentanti (anche donne, s’intende), chiedono di aggiungere un’altra forzatura – ossia l’alternanza uomo-donna nelle liste e la parità numerica di genere dei capilista – a un sistema che già è antidemocratico. In questo modo non sarebbero discriminate le donne, ma lo sarebbero tutti gli elettori attraverso una doppia imposizione. Non solo non possono votare un candidato o una candidata, ma il loro voto andrà a un uomo piuttosto che a una donna seguendo una rigida regola numerica che prescinde dai meriti politici dei candidati, rosa o celesti che siano.

Curiosità. Tra le firmatarie dell’appello c’è l’ex ministro Stefania Prestigiacomo, che in un’intervista al Corriere dichiara che «a Berlusconi si deve riconoscere di avere avuto, nei confronti delle donne, in politica, un’apertura forte e concreta: nell’ultimo suo governo c’erano sei ministre». Ma ora, aggiunge Prestigiacomo, «lo dico con grandissimo dispiacere, però davvero Berlusconi deve fare i conti con un partito che su questi temi mostra ancora, dopo tanti anni, atteggiamenti gravemente retrogradi». Cioè colui che ha normalizzato la mercificazione femminile in politica sarebbe un cultore della parità tra i sessi. Chapeau.