Stiamo sereni! …fino a che punto?

Roberto Davide Papini
www.riforma.it

Piccolo promemoria per i vertici delle nostre chiese: nel caso in cui incontriate (in occasioni ufficiali o no) il presidente del Consiglio Matteo Renzi e al momento dei saluti lui dovesse dire: «Evangelici, state sereni», riunite subito gli esecutivi, indite Sinodi e Assemblee straordinarie perché la situazione potrebbe precipitare da lì a poco. Lo sanno bene l’ex premier Enrico Letta (al quale Renzi disse a gennaio di stare «sereno», per poi sostituirlo a Palazzo Chigi) e il presidente del Consiglio comunale di Firenze, Eugenio Giani, che ha rinunciato a concorrere alle primarie per scegliere il candidato sindaco (lasciando via libera al renziano Dario Nardella) convinto di essere nominato sottosegretario, cosa puntualmente non accaduta.

Scherzi (fino a un certo punto…) a parte, in fondo un po’ di sana inquietudine nei confronti di qualsiasi governo e governante (senza pregiudizi, però) è sempre una buona cosa. Soprattutto nella prospettiva cristiana, visto che «è meglio rifugiarsi nel Signore che confidare nell’uomo; è meglio rifugiarsi nel Signore che confidare nei prìncipi» (Salmo 118, 8-9). Tuttavia, come è giusto, ogni cristiano singolarmente e ogni chiesa sono chiamati ad agire nel contesto sociale e politico e, quindi, a confrontarsi con governi e governanti. Per il bene della comunità, dobbiamo sperare e pregare che riescano ad avere successo nel fare le cose che servono al nostro Paese, non in astratto, ma alle persone, agli uomini e alle donne che vivono nel nostro Paese.

Su questo approccio sta una delle cose più interessanti dei discorsi programmatici di Renzi che non comunica con il «politichese» delle formule astratte, ma parla delle riforme che intende fare sempre riferendosi a situazioni e persone concrete, ai problemi della vita di tutti i giorni. Su questo (al di là di qualche eccesso demagogico) il fatto di essere stato sindaco e di aver sempre cercato un rapporto diretto con le persone può davvero aiutarlo ad avere una percezione più attenta dei problemi reali, cosa che riesce assai più difficile a chi da anni siede in Parlamento lontano dal Paese reale e dai suoi affanni, ma anche dalle sue aspirazioni e speranze.

Quando dice, al Senato, che in questi anni la politica ha ascoltato più i mercati finanziari dei mercati rionali o quando sottolinea che mettere i conti in ordine non va fatto perché l’Europa ce lo impone, ma va fatto perché le future generazioni ce lo chiedono, Renzi parla un linguaggio incomprensibile per la «politica politicante», ma molto concreto ed efficace.

Su questo terreno, quello della concretezza e del parlar chiaro (ma anche del mantenere ciò che si promette) si misurerà il governo Renzi, vedremo se davvero è cominciata un’altra fase, se finalmente l’Italia «cambia verso», per citare lo slogan con cui il neo-premier ha cominciato l’assalto alla segreteria del Pd e la successiva conquista di Palazzo Chigi. Su questo terreno, quello della «politica delle cose» che impatta direttamente (e a volte duramente) con la vita di uomini e donne, le nostre chiese possono trovare un confronto proficuo, ma anche incalzante, con il presidente del Consiglio.

Al di là dei vari proclami del passato anche recente (non sempre coerenti tra di loro, come nel caso della battaglia per l’amnistia prima sostenuta e poi avversata) ora davvero vedremo che cosa il governo Renzi saprà fare, o almeno cercherà di fare, sui diritti civili, l’accoglienza degli immigrati (incoraggianti le affermazioni programmatiche sullo jus soli), la lotta alla povertà e alla disoccupazione e la libertà religiosa.

Vedremo anche che cosa farà sulla parità di genere, anche se l’inizio a dire il vero non è incoraggiante: farne una questione alfabetica mettendo al governo lo stesso numero di uomini e donne, ma puntando su figure femminili di secondo piano, magari più facili da gestire in caso di problemi (la sostituzione di Emma Bonino con Federica Mogherini in un ministero delicato come quello degli Esteri e in una fase internazionale delicatissima, è solo un esempio), non rafforza, ma rischia di affossare la già traballante parità di genere.

Per il resto, vedremo, bisogna aspettare. Perché finora Renzi ha delineato una bella cornice, un programma cadenzato di riforme e di incentivi alla crescita senza indicare come e con quali risorse fare il tutto. Insomma, aspettiamo e speriamo. Sereni? Fino a un certo punto.

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È troppo presto per un giudizio su Renzi? Ma no, Sbilanciamoci!

Adriano Gizzi
www.confronti.net

Al di là delle simpatie o antipatie per il personaggio, ma anche al di là del giudizio sui modi e lo stile, dopo la manovra politica che ha portato Renzi a sostituire Letta alla presidenza del Consiglio tutti si sono posti la stessa domanda: perché? Cosa lo ha spinto? Cosa gli dà tanta sicurezza? Se Letta si fosse dimesso per altri motivi e il presidente della Repubblica – magari dopo lunghe e faticose consultazioni – avesse nominato il segretario del Partito democratico, nessuno avrebbe potuto accusarlo di «brama di potere». In caso di fallimento, avrebbe sempre potuto giustificarsi dicendo che la sfida era difficile e che comunque non se l’era cercata. Ma adesso – come del resto Renzi stesso ha riconosciuto – se fallirà non ci saranno scuse. Anzi: gli verrà rinfacciata l’aggravante di aver armato tutto questo macello (in senso politico, facendo cioè scorrere il sangue all’interno del proprio partito) per niente, lasciando il paese nei guai come e più di prima. Il film che tutti gli italiani hanno visto è questo: Renzi che ferma il treno di Letta, lo fa scendere con l’accusa di andare troppo piano e poi prende il suo posto promettendo a tutti che adesso finalmente il treno comincerà a correre. E non si è neanche risparmiato nelle promesse, garantendo che procederà a tamburo battente, al ritmo di una riforma al mese. Dopo una scena del genere, davvero non ci sono scuse in caso di fallimento.

Tra i motivi che hanno spinto Renzi ad accelerare le cose in modo così brusco, ci sarebbe il timore delle elezioni europee di fine maggio: con un governo Letta visto come debole e immobile, il Pd sarebbe andato senz’altro incontro a un disastro elettorale. Tanto valeva quindi provare a dare almeno un’idea di movimento, di dinamismo, anche pagando il prezzo – in termini di immagine – di una «coltellata alla schiena» fratricida. La fretta poi è stata dettata da due motivi: a luglio comincia il semestre di presidenza italiana dell’Unione europea e far cadere Letta in quel periodo sarebbe stato impossibile. Sicuramente Napolitano non l’avrebbe consentito. Ma, soprattutto, a maggio si vota anche in molti Comuni, tra cui Firenze, e Renzi aveva più volte annunciato di volersi ricandidare. Farsi rieleggere sindaco e poi lasciare la carica dopo pochi mesi per andare a Palazzo Chigi avrebbe dato davvero una pessima immagine, insopportabile anche per i metodi spregiudicati del rottamatore. Occorreva quindi accelerare, bruciare le tappe.

Il 26 febbraio scorso si è tenuto alla Fondazione Basso di Roma un incontro organizzato da Lunaria e Sbilanciamoci.info su «L’alba del renzismo». L’occasione è stata fornita dall’uscita di un inserto speciale de il manifesto (il quarto di una serie intitolata «Sbilanciamo l’Europa») dedicato al «Renzismo in arrivo». È interessante notare che il dibattito – a cui hanno preso parte gli autori del dossier, in gran parte economisti e giornalisti – si è svolto il giorno dopo la fiducia alla Camera, ma due giorni prima della nomina dei sottosegretari che poi ha scatenato polemiche durissime, aggravando il giudizio di tanti che inizialmente erano disposti a dare un minimo di credito al nuovo governo. I giudizi degli oratori, già molto duri, sarebbero stati sicuramente ancora più aspri se si fosse tenuto due giorni dopo.

Secondo l’analisi di Sbilanciamoci.info, l’ascesa di Renzi a Palazzo Chigi «inaugura una nuova fase della politica italiana», che cambia la natura della democrazia e del rapporto cittadini-politica. Il blocco di interessi che questo «uomo solo al comando» rappresenta – spiega l’economista Mario Pianta – è costituito da ceto medio conservatore dell’Italia profonda, mondo delle imprese protette dallo Stato, rendita immobiliare e finanza internazionale della City. A credere in Renzi – aggiunge Pianta – sono molti giovani, esasperati dall’immobilità del paese, ma anche imprese e banche, che potrebbero tornare a investire regalandogli una mini-ripresa dell’economia. Alla fine però, nonostante le promesse strepitose, Renzi riuscirà a rassicurare la finanza, proteggendo i privilegi del 10% più ricco. Corregge leggermente il tiro il sociologo Carlo Donolo: «Al momento non si può ancora dire che Renzi rappresenti un blocco sociale: gli hanno dato una piccola licenza di uccidere, ma deve ancora conquistarsi il consenso di quei poteri».

Insomma: nessuna cambiale in bianco. Per ora i poteri che contano hanno deciso che fosse necessario cambiare cavallo, ma devono ancora valutare i risultati. E qui si arriva alle cause della caduta del governo Letta: secondo Paolo Pini, vicepresidente della Società italiana degli economisti, sono da ricercare nell’insoddisfazione delle piccole e medie imprese, ma ancor di più di Confindustria, che non hanno ricevuto le risposte che attendevano. Alla fine dell’estate scorsa il presidente Squinzi aveva lanciato dei chiari avvertimenti a Letta, che però non ha voluto (o potuto) coglierli. A fine anno Confindustria torna all’attacco, riuscendo ad ottenere da Letta la promessa di un taglio del cuneo fiscale per 10 miliardi di euro. Ma le promesse non si concretizzano e Roberto Napoletano, direttore del Sole 24 Ore, scrive che «il tempo è scaduto». «Il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan è sicuramente una persona degna – sostiene sempre Pini – ma è in linea con la Banca centrale europea: riforme strutturali sul mercato del lavoro e rispetto del patto fiscale. Il problema non è tanto il 3% sul Pil, quanto il pareggio di bilancio in Costituzione e i 40-50 miliardi che dovremo trovare ogni anno per rispettare i vincoli di riduzione del deficit previsti dal fiscal compact».

Nel suo intervento, l’ex vicedirettore del manifesto Angelo Mastrandrea si domanda se non abbiamo tutti commesso l’errore di sopravvalutare il consenso di Renzi, che ormai nei sondaggi non è più così forte come sembrava in un primo momento. E ricorda la «profezia» estorta nel famoso scherzo telefonico di Radio 24 a Fabrizio Barca: «Con questo sovraccarico di aspettative, quando fra un mese si capirà che non c’è niente… il paese darà di testa».

Il giurista Luigi Ferrajoli ha allargato il dibattito sul renzismo ai danni che il leader del Pd aveva cominciato a fare prima ancora di diventare presidente del Consiglio. In particolare la legge elettorale concordata assieme a Berlusconi, che oltre a rimettere in campo il leader di Forza Italia (non a caso prodigo di elogi per il nuovo premier, quasi gli dispiacesse di non potergli votare la fiducia), lo ha rafforzato nel ruolo di leader incontrastato di una coalizione di centro-destra che al momento alcuni sondaggi danno addirittura per vincente. Secondo Ferrajoli, dietro al quorum dell’8% previsto dalla legge elettorale che Renzi e Berlusconi vorrebbero far approvare dal Parlamento si manifesta una concezione profondamente anti-parlamentare. Tra l’altro, si dice di voler porre quello sbarramento per favorire la stabilità, ma in realtà si finisce paradossalmente per contribuire a minarla, perché si forzano i partiti a coalizzarsi pur di salvarsi e quindi si mettono assieme in modo forzato realtà molto differenti che poi, una volta al governo, finiranno per scontrarsi.

«I nodi verranno al pettine molto presto – dice Andrea Baranes, che assieme a Grazia Naletto è coordinatore di Sbilanciamoci – perché Renzi dovrà chiarire dove prende i soldi per realizzare tutte le promesse. E comunque Olli Rehn, commissario europeo per gli Affari economici e monetari, ha già detto che “il ministro dell’Economia Padoan sa benissimo cosa deve fare”. E lo stesso ha detto il governatore della Banca d’Italia Visco». Non è un caso se il settimanale left ha definito Pier Carlo Padoan «l’uomo che insegnò il liberismo a D’Alema».

È intervenuto nel dibattito anche Giorgio Airaudo (sindacalista della Fiom, ora deputato di Sel), secondo cui dietro Renzi non ci sarebbe un blocco sociale che ha ordito un piano. Piuttosto, è Renzi – spiega Airaudo – che sta mettendo in campo un elemento di ricatto, dicendo implicitamente «dopo di me il diluvio. Se fallisco io, andate tutti a casa: il Pd, le Camere… dopo di me c’è la troika!». Agli imprenditori Renzi fa capire che può concedere qualcosa, ma devono accontentarsi, perché se cade il governo le cose non possono che peggiorare per tutti.

Per lo scrittore Christian Raimo, in realtà Renzi non è così geniale come comunicatore, ma vince soltanto perché la sinistra critica è ancora meno brava di lui a comunicare. Per Raimo, bisognerebbe quindi provare a contrastare ciò che dice e fa Renzi in modo più efficace dal punto di vista comunicativo. Altro giudizio «controcorrente» – rispetto al luogo comune che vorrebbe il nuovo presidente del Consiglio vincente e grande comunicatore – viene da Raniero La Valle (già parlamentare della Sinistra indipendente e promotore del Manifesto per una sinistra cristiana), secondo cui Renzi in realtà sarebbe «un perdente» e la cosa più grave – aggiunge La Valle – è che la nuova legge elettorale «rischia di consegnare il potere a uno dei tre populismi in campo: quello di Grillo, quello di Berlusconi e quello di Renzi stesso». Un giudizio, quello sul populismo dilagante in tutti i settori politici, condiviso da molti altri intervenuti. Tra questi Luciana Castellina, che però ha voluto richiamare l’importanza di interrogarsi anche sulle gravi responsabilità dei partiti nel non essere stati in grado di prevenire questa deriva populista. Insomma: ricercare le cause, oltre che denunciare il fenomeno.

Nel corso del dibattito, è stato più volte ricordato il recente articolo di Rossana Rossanda su sbilanciamoci.info, dove si commenta l’introduzione che proprio Renzi (sic!) ha scritto per la nuova edizione di Destra e sinistra di Norberto Bobbio (pubblicata a vent’anni dall’uscita del libro e a dieci anni esatti dalla morte del filosofo). Rossanda definisce «l’ultimo giro di boa del Partito democratico» l’affermazione del suo segretario secondo cui il Pd non intende più collocarsi a sinistra. Un giro di boa simbolico, «perché nelle scelte concrete era già consumato da un pezzo». L’unica discriminante culturale e sociale riconosciuta da Renzi è «il nuovo e il vecchio». La fondatrice del manifesto (giornale che però ha abbandonato polemicamente poco più di un anno fa) sottolinea poi come anche la minoranza del Pd non abbia avuto la capacità e il coraggio di opporsi alle manovre del suo segretario.

È chiaro che la «fiducia sfiduciata» di Pippo Civati e i mugugni educati di qualche altro parlamentare del Pd non sono sembrati sufficientemente intransigenti: la prossima volta dovranno trovare altre forme più dure di opposizione, tipo turarsi platealmente il naso o fare di no con la testa mentre votano l’ennesima fiducia.