Mi sembra che stiamo andando avanti tutti insieme… di R.LaValle

Raniero La Valle
Koinonia-Forum n.380 del 2 marzo 2014

Caro padre Alberto,

ti ringrazio per l’affetto e la costanza con cui segui quello che cerco di dire e di scrivere in questo tempo così decisivo per la Chiesa e per la società, e anche per la circolazione che procuri ai miei scritti. Mi sembra che stiamo andando avanti tutti insieme, leggendo con ansia i segni del tempo, che nella Chiesa inducono alla speranza, nella politica alla disperazione. In ogni caso c’è una comunione e un dialogo tra noi, e mi sembra che anch’io debba cercare di rispondere alle tue sollecitazioni: ci siamo trovati d’accordo nel dire che nella Chiesa c’è anche un ministero della risposta, e non vorrei io per primo sottrarmi ad esso.

Nel Forum 376 di Koinonia ci hai dato una bellissima lettura della Evangelii Gaudium che interpreti come una conferma della tua visione di una Chiesa dei Gentili che è poi una Chiesa dei poveri; una scelta che avevi argomentato e sviluppato con radicalità già nel Forum 145 del 2009, quando ti chiedevi se il Concilio e la Dei Verbum potessero essere messi dentro gli otri vecchi della Chiesa “preformata” qual era, o se non dovevano dar luogo a “un contesto nuovo di Chiesa”, e dicevi che a questa ipotesi era ormai sospeso tutto il lavoro da fare, “perché non possiamo aspettarci dal sistema che ripensi se stesso”. Mi pare che ora il sistema, grazie a Francesco (ma anche, appunto, grazie al lavoro dei cristiani) stia ripensando se stesso, anche se, come ora dici, ci sarà “qualche ombra da dissipare e qualche nodo da sciogliere”, ciò da cui derivano interrogativi e difficoltà che tu poni nel tuo commento (“Il vangelo norma e normalità della Chiesa”) alla stessa Evangelii Gaudium. Spinto da queste tue osservazioni problematiche vorrei provare a dire come vedo questa svolta impressa alla Chiesa da papa Francesco.Mi pare che i due punti cardine su cui va impostato il ragionamento siano l’affermazione che non si possono “lasciare le cose come stanno” (n. 25), e il fatto che c’è “un modo di intendere la Chiesa” (n. 111) proposto da papa Francesco, che evidentemente è uno dei possibili modi, e forse non è il modo che è stato prevalente fin qui. Dunque la domanda cruciale è questa: qual è il modo di intendere la Chiesa che permette di non lasciare le cose come stanno, e che sembra essere il modo di papa Francesco? Se dovessi anticipare la risposta, direi che Francesco cambia il punto di vista (e in ciò si unificano i due nomi, Ignazio e Francesco, che egli porta su di sé e di cui Scalfari ha enfatizzato la contraddizione): secondo questo punto di vista la Chiesa è l’umanità stessa e il creato custodito da lei; e in questa chiave tutte le cose di papa Francesco trovano la loro coerenza. Ma è meglio non precipitare la conclusione.

I modi di pensare la Chiesa

Ci sono diversi punti di vista da cui guardare la Chiesa. Uno è quello che mette la Chiesa al centro, e tutto il resto intorno a cerchi concentrici; la Chiesa come nel sogno di Giuseppe al centro dei covoni. Questo è il modo di Paolo VI, espresso nella Ecclesiam suam: la Chiesa al centro di tutto.Poi c’è il modo di Gregorio VII, di Innocenzo III e di Bonifacio VIII, la Chiesa al di sopra di tutto, la Chiesa del Dictatus papae, a cui tutti i principi dovevano baciare il piede, la Chiesa identificata col papa a cui doveva essere sottomessa ogni umana creatura, e che con le due spade era posto “super reges et regna”. Poi c’è la Chiesa di S. Ambrogio, assimilata alla casa di Raab, la “casta meretrix”, che è fuori della città ma nella quale unicamente c’è la salvezza, “extra Ecclesiam nulla salus”.

Poi c’è la Chiesa ormai del tutto assorbita nel Cristo e Suo Corpo mistico, di cui Cristo e il papa costituiscono “un solo capo”, come già diceva la Unam Sanctam di Bonifacio VIII e ripete la Mystici corporis di Pio XII; è la Chiesa della Mystici corporis, “una società perfetta nel suo genere”, “certamente molto più eccellente di qualunque altra società umana”, come già diceva la Sapientiæ Christianæ di Leone XIII, “e le supera come la grazia supera la natura e come le cose immortali trascendono tutte le cose caduche”. Quella che arriva al Concilio è questa Chiesa “perfetta” da ultimo dottrinalmente definita da Pio XII, una Chiesa del tutto “altra” dal mondo, nella sua duplice natura umana e divina, è la Chiesa “santa cattolica apostolica romana”, costituita da un potere, la sacra gerarchia, da un ceto di ministri, il clero, da un esercito di riserva, religiosi e suore, e da un popolo di sudditi comprendente le donne viste come ausiliarie e tentatrici. La Chiesa che arriva al Concilio è inoltre una Chiesa che si sente vittima, scartata dal mondo, essendo lei stessa entrata in conflitto con l’età moderna, quando addirittura non si sente tradita dal mondo che voleva salvare, combattuta dalle culture illuministe ed atee, dall’anticlericalismo militante, nonché perseguitata e costretta al silenzio dai regimi statalisti atei e, naturalmente, dal comunismo.

In tutte queste figure o percezioni di Chiesa, il dato comune è che la Chiesa è vista e vissuta come del tutto eterogenea rispetto al mondo, distinta ed estranea; e a partire da questa reciproca estraneità si possono poi instaurare tutti i rapporti possibili, molto buoni o molto cattivi, di riconciliazione o di conflitto, di dominio o di servitù, di “aiuto” reciproco o di sfida (la stessa Gaudium et Spes del Concilio parla dell’ “aiuto che la Chiesa intende dare alla società umana” e dell’ “aiuto che la Chiesa riceve dal mondo contemporaneo” come se Chiesa e mondo abitassero su due pianeti diversi).

La Chiesa del Concilio

Al Concilio c’è un cambio d’identità della Chiesa. In modo sconvolgente gli dà l’avvio Giovanni XXIII, quando dice, un mese prima dell’inizio, che la Chiesa si deve presentare come la Chiesa di tutti e soprattutto dei poveri, e quando dice sul letto di morte al segretario di Stato, e riferirà mons. Capovilla, che “ora più che mai, più che nei secoli passati, siamo intesi a servire l’uomo in quanto tale e non solo i cattolici e a difendere ovunque e anzitutto i diritti della persona umana e non solo quelli della Chiesa cattolica”; e poi subito è il Concilio che si assume la responsabilità di questa nuova ricerca d’identità (certo, nella continuità dell’unico soggetto Chiesa, dirà poi Benedetto XVI), quando sparecchia il tavolo imbandito per il Concilio liberandolo da tutti gli schemi preparatori (a partire dalle “due fonti della Rivelazione) che erano stati concepiti e conformati a quel modo di intendere la Chiesa che c’era stato negli ultimi secoli fino al Vaticano II.

Certo è che al Concilio viene abbandonata la Chiesa costantiniana, nessuno più rivendica il potere terreno né la spada da brandire al posto dei principi “ratione peccati”, a causa del loro peccato; Paolo VI è tutto contento che i bersaglieri siano entrati a Porta Pia, togliendo alla Chiesa il potere temporale. Viene dimenticato il paragone tra la Chiesa e la casa di Raab, la prostituta, perché al posto della dottrina secondo la quale fuori della Chiesa (cattolica romana) non c’è salvezza, si affaccia la dottrina del “sussistere” della Chiesa di Cristo nella Chiesa cattolica ma non solo in essa, sono riconosciute altre comunità cristiane come vere Chiese, nulla è rigettato di quanto è vero e santo nelle altre religioni, i cui modi di agire e le cui dottrine “non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini” (Nostra aetate, n. 2) e si ammette che anche al di fuori dell’ organismo della Chiesa cattolica “si trovino parecchi elementi di santificazione e di verità, che, appartenendo propriamente per dono di Dio alla Chiesa di Cristo, spingono verso l’unità cattolica” (Lumen Gentium n. 8).

Al Concilio ci si riconcilia con la modernità e si rimette la Chiesa nel mondo di questo tempo, non più considerato come nemico; e la Chiesa non viene più descritta come società perfetta, ma come mistero; e siccome il mistero mal sopporta di essere definito in parole, il Concilio nella sua Costituzione dogmatica racconta piuttosto la storia della Chiesa, risalendo fino alla fondazione del mondo e al disegno del Padre, e si serve delle immagini bibliche in cui è stata adombrata la Chiesa per svelare la sua “intima natura”. E sono le immagini tratte, secondo la cultura in cui furono concepite, dalla vita pastorale ed agricola, dall’edilizia, dalla famiglia, dalle nozze: la Chiesa come ovile, come gregge condotto dal pastore, come podere, campo o vigna di Dio, come edificio o casa o famiglia di Dio, come tempio, come città santa o nuova Gerusalemme (Lumen Gentium n. 6). Però il Concilio non si sofferma su di esse, e subito dopo assume un’altra immagine, quella di popolo; non si tratta però, secondo il Concilio, semplicemente di una immagine che assomiglia o allude alla Chiesa, ma è la Chiesa, definita come popolo di Dio.

Anche questa, come le altre, è un’immagine prefigurata nell’Antico Testamento, dove il popolo peregrinante nel deserto e raccolto nell’accampamento viene chiamato “Chiesa di Dio” (Dt 23,1 ss.). Ma nella cultura contemporanea la nozione di popolo ha un ben altro spessore ed è portatrice di ben altri valori rispetto a quelli veicolati dalle immagini della vigna o del gregge. Infatti il popolo ha la parola, ha la libertà, ha una sua coscienza, una sua memoria, una storia, e nella sua più alta espressione politica è sovrano; sovrano, certo, nelle forme e nei limiti della Costituzione, come dice la nostra Carta, e nel caso della Chiesa questa Costituzione è la parola di Dio incarnata, il Verbo di Dio sussistente in Gesù di Nazaret. Inoltre il popolo non fa discriminazione di persone, è universale, ne fanno parte tutti i cittadini, senza differenze per essenza, ne fanno parte i giusti e gli ingiusti, gli innocenti e anche i colpevoli, che non per questo cessano di essere cittadini. La novità del Concilio è dunque che la Chiesa, nella sua dimensione divina è un mistero, nella sua dimensione umana è un popolo, è il popolo di Dio (Lumen Gentium, cap. II).

Un solo popolo o un popolo tra molti?

Ma qui nasce un grande problema. Questo è un popolo tra altri popoli, o è un solo popolo che abbraccia tutta la terra? Le vecchie immagini individuavano la Chiesa come una parte distinta dal resto della realtà, come una porzione separata dal tutto, come una entità singolare in un mondo plurale, perché non tutto è ovile, un gregge è uno tra molti altri greggi, i poderi e le vigne hanno cippi di confine, la casa è in mezzo ad altre case, il tempio non è uno solo e anche Gerusalemme è una città tra molte altre città. Questa singolarità nella pluralità vale anche per la nozione di popolo? Ossia la Chiesa è un popolo tra una moltitudine di popoli, un popolo rispetto al quale tutti gli altri sono stranieri, come lo erano i Gentili per il popolo d’Israele, oppure per “popolo di Dio” non si può che intendere la totalità degli uomini? Certo, se per Chiesa si intende strettamente la comunità dei battezzati che, come diceva la Mystici corporis “professando la vera Fede, né da se stessi disgraziatamente si separarono dalla compagine di questo Corpo, né per gravissime colpe commesse ne furono separati dalla legittima autorità”, non vi è dubbio che si tratta di un popolo formato da membri ben determinati, distinto e separato da ogni altro popolo. Ma non appena della Chiesa si affaccia una percezione più articolata, il discorso cambia, e forse cambia anche l’ecclesiologia, e ci si rende conto che se la si chiama popolo di Dio non si può imprigionare nei suoi confini la universale estensione dell’amore di Dio.

Perciò c’è una continua oscillazione che dal Pentateuco al Vangelo, dagli Atti degli apostoli fino al Concilio Vaticano II, fa sì che il popolo di Dio che è la Chiesa a volte sia identificato con un solo popolo scelto o istituito da Dio e messo da parte come sacro, come stirpe eletta, nazione santa, popolo tratto in salvo (1 Pt 2,9-10), a volte sia identificato con l’umanità tutta intera.

Nell’Antico Testamento il popolo di Dio è Israele, è il popolo dei circoncisi salvato dalla Legge, assunto poi come figura della Chiesa. Ma appunto la Chiesa non è il popolo di Israele e la teologia della sostituzione della Chiesa ad Israele non è valida, perché non interpreta in modo esauriente la Chiesa e non è corretta ed è anzi irritante per Israele. Del resto nell’Antico Testamento la Chiesa non è prefigurata solo in Israele, ma anche in “tutti gli altri popoli” che, come dice Michea, cammineranno “ognuno nel nome del suo dio” e non alzeranno più la spada uno contro l’altro (Mich. 4, 3-5).

Il passaggio da un solo popolo all’umanità tutta è avvenuto sulla croce, dove Dio “inchiodò” il chirografo del Vecchio Testamento (cfr. Col. II, 14): la Mystici Corporis ricorda come sulla croce Gesù che non era stato “inviato se non alle pecorelle della casa d’Israele che erano perite (cfr. Matth. XV, 24)”, “meritò la potestà e il dominio sopra le genti (cfr. S. Thom. III, q. 42, a. 1)”; e per il Sangue sparso sulla Croce fece sì che “potessero scorrere dalle fonti del Salvatore per la salvezza degli uomini, e specialmente per i fedeli, tutti i doni celesti, soprattutto quelli spirituali, del Nuovo ed eterno Testamento”. I fedeli sono dunque un caso di specie rispetto alla estensione universale dei destinatari dei doni celesti sgorgati dalle fonti del Salvatore per la salvezza degli uomini. Il nuovo popolo è dunque sia specialmente la Chiesa dei fedeli, sia tutti gli uomini. E questa bipolarità tra specialità e totalità torna ancora nella Mystici corporis: Cristo, scrive Pio XII, «a buon diritto vien proclamato dai Samaritani “Salvatore del mondo” (Jo. IV, 42); anzi senza alcun dubbio dev’essere chiamato “Salvatore di tutti”, sebbene con Paolo bisogna aggiungere che lo è “specialmente dei fedeli” (cfr. I Tim. IV, 10), in quanto, a preferenza di tutti gli altri, conquistò col Suo sangue le membra che costituiscono la Chiesa (Act. XX, 28)»; e qui lo “specialmente” è ricondotto all’autorità di Paolo: “abbiamo posto la nostra speranza nel Dio vivente che è il salvatore di tutti gli uomini, ma soprattutto di quelli che credono” (I Tim. 4, 10).

Nei testi del Concilio c’è un’ambivalenza, se non un’ambiguità: il popolo di Dio ora è particolare, e identificato con la Chiesa, ora è universale e identificato con gli uomini tutti. La Lumen Gentium al n. 13 dice perentoriamente: “la Chiesa, cioè il popolo di Dio”, ma dice anche che “l’unico popolo di Dio è universale”, e che “tutti gli uomini sono chiamati a formare il popolo di Dio. Perciò questo popolo, pur restando uno e unico, si deve estendere a tutto il mondo e a tutti i secoli, affinché si adempia l’intenzione della volontà di Dio, il quale in principio creò la natura umana una e volle infine radunare insieme i suoi figli dispersi (cfr. Gv. 11, 52”, mandando a questo scopo il Figlio suo “perché fosse maestro, re e sacerdote di tutti, capo del nuovo e universale popolo dei figli di Dio”. Il popolo universale e la Chiesa hanno lo stesso capo, Cristo, e se del popolo universale si può dire che lo è solo in potenza, o addirittura lo è in senso escatologico, è anche vero che lo stesso Concilio dice che “la Chiesa cattolica tende a ricapitolare tutta l’umanità, con tutti i suoi beni, in Cristo capo, nell’unità dello Spirito di lui”; “a questa cattolica unità del popolo di Dio – conclude il n. 13 della Lumen Gentium – in vario modo appartengono o sono ordinati sia i fedeli cattolici, sia gli altri credenti in Cristo, sia infine tutti gli uomini senza eccezione, che la grazia di Dio chiama alla salvezza”.

Di quale Chiesa parla papa Francesco

In questa oscillazione tra il particolare e l’universale, in quale direzione si muove papa Francesco, di quale Chiesa si sente vescovo a Roma? Si potrebbe rispondere, con il Concilio, e con San Giovanni Crisostomo, «chi sta in Roma sa che gli Indi sono sue membra». Certo è stato impressionante vedere con quale passione, tra i primissimi impegni del suo pontificato, Francesco abbia difeso la causa della Siria, dove di “popolo di Dio” nel senso dell’appartenenza alla Chiesa cattolica ce n’è molto poco. Si può dire che la causa in gioco era quella della pace, e questo è verissimo, però con la veglia, i discorsi, l’azione diplomatica, la lettera a Putin e al G8, l’intervento alla conferenza di Ginevra, papa Francesco ha mostrato una sollecitudine per questo Paese musulmano che forse non ci si sarebbe aspettato nemmeno per la Francia, la figlia primogenita della Chiesa.

Ed è stato anche impressionante vedere la veemenza con cui un papa evangelizzatore e missionario quale Francesco vuol essere, abbia escluso il proselitismo, bollandolo nella conversazione con Scalfari come “una solenne sciocchezza”. Si può dire che il proselitismo sia nocivo alla convivenza e irrispettoso della libertà religiosa, ma perché una sciocchezza? Forse perché il proselitismo implica un passaggio da un Dio a un altro, da un popolo di Dio a un altro popolo di Dio; ma se il popolo è uno solo ciò è privo di senso; nell’ambito dello stesso popolo si può dare missione, evangelizzazione, nel senso di una trasmissione di valori, di verità o di esperienze di fede dagli uni agli altri, si può dare “attrazione”, non trasmigrazione o cambio di cittadinanza.

Nella sua lettera Evangelii gaudium il punto di vista di papa Bergoglio sulla Chiesa emerge con la maggiore chiarezza. Per Francesco la Chiesa è “la comunità evangelizzatrice”, che non può nemmeno essere pensata se non in rapporto con l’umanità intera: “La comunità evangelizzatrice si mette mediante opere e gesti nella vita quotidiana degli altri, accorcia le distanze, si abbassa fino all’umiliazione se è necessario, e assume la vita umana, toccando la carne sofferente del Cristo nel popolo”. Essa “accompagna l’umanità in tutti i suoi processi, per quanto duri e prolungati possano essere” (n.24). La comunità evangelizzatrice non si identifica con l’istituzione organica e gerarchica, è ben più di questo, “poiché anzitutto è un popolo in cammino verso Dio” (n.111). E’, sì, un popolo tra gli altri popoli, ma “un popolo pellegrino ed evangelizzatore che trascende sempre ogni pur necessaria espressione istituzionale”; ed è “questo modo d’intendere la Chiesa” che papa Francesco propone, che illustra in questo documento programmatico del suo pontificato e che ha cominciato a realizzare nell’esercizio del suo ministero petrino.

La chiave è che Gesù non ha detto agli Apostoli “di formare un gruppo esclusivo, un gruppo di élite”, ma di fare “discepoli tutti i popoli”; la salvezza “che Dio realizza e che la Chiesa gioiosamente annuncia è per tutti e Dio ha dato origine a una via per unirsi a ciascuno degli esseri umani di tutti i tempi” (113). L’accento torna sempre su “tutti”; questo è l’orizzonte imprescindibile. “Tutti” è una parola che ricorre 135 volte nella Evangelii Gaudium, e la cosa colpisce quando siamo reduci da una discussione se nel canone si dovesse tradurre che Gesù aveva dato il suo sangue “per molti” o “per tutti”. Dio ha dunque convocato tutti come popolo, e questo popolo è la Chiesa. Essere Chiesa significa essere popolo di Dio, scrive papa Francesco, “implica essere il fermento di Dio in mezzo all’umanità” (114).

“Questo popolo di Dio si incarna nei popoli della terra” e perciò nella cultura di ciascuno, poiché “la cultura comprende la totalità della vita di un popolo“; di questo ha preso coscienza la Chiesa in America Latina nel documento di Puebla, sicché ora il papa può dire che “la grazia suppone la cultura” (e non solamente la natura come ci era stato insegnato fin qui), (115). Questa è la ragione per cui “il cristianesimo non dispone di un unico modello culturale”, ma porta “il volto delle tante culture e dei tanti popoli in cui è accolto e radicato” (come già diceva Giovanni Paolo II); di conseguenza la Chiesa ha un volto pluriforme e molteplici ricchezze, come “sponsa ornata monilibus suis” (n.116); essa tradirebbe la “logica dell’incarnazione” se pensasse a “un cristianesimo monoculturale e monocorde”, non deve imporre “una determinata forma culturale” né cadere nella “vanitosa sacralizzazione della propria cultura”. Il rapporto tra popolo di Dio e Chiesa in definitiva è “un mistero che affonda le sue radici nella Trinità”. Di questo popolo “lo stesso Spirito Santo è l’armonia, così come è il vincolo d’amore tra il Padre e il Figlio”. In tal modo si chiude il cerchio: se nel Deuteronomio era Chiesa il popolo raccolto nell’accampamento, ora è Chiesa la moltitudine dei popoli in cui lo Spirito Santo “suscita una molteplice e varia ricchezza di doni e al tempo stesso costruisce un’unità che non è mai uniformità ma multiforme armonia che attrae” (n.117).

Questo punto di vista di papa Francesco relativizza la Chiesa, rispetto alla visione sacrale dell’ Unam Sanctam o della Mystici corporis, non ne fa il Sostituto di Cristo e non la identifica col regno di Dio, ma la definisce “segno e strumento” in accordo con il Vaticano II, la riconduce interamente alla sua funzione missionaria ed evangelizzatrice e nello stesso tempo la secolarizza rendendola coestensiva con la stessa umanità.

Ciò permette al papa sia di avviare una vera riforma della Chiesa, fino a dettagli molto umani (tenere aperte le porte degli edifici di culto), sia di porre la questione dello stato del mondo, che giace oggi sotto la signoria del denaro, è dominato da un sistema di oppressione e di esclusione e rischia di sprofondare, nell’indifferenza, verso la sovversione dello stesso creato. E noi, come tu dici, “che cosa aspettiamo?”

Un caro abbraccio.