Crisi. Non ci siamo solo noi di G.Codrignani

Giancarla Codrignani
www.viandanti.org

Anche chi non vuole essere eurocentrico deve fare i conti con il processo di omologazione dei sistemi che va verso una globalizzazione che non è mai stata culturale, ma solo finanziaria e oggi appare compulsivamente generalizzata.

Una crisi che non risparmia nessuno

In Cina e in Giappone persistono tutte le tracce sociali dei vecchi sistemi del mandarinato imperiale, ma le priorità sono, come ovunque (anche se, per ora, se la cavano meglio di noi occidentali ricattati dal dogma del 3 %), le previsioni di investimenti, produzione, consumi, fabbisogno energetico. A Pechino il cielo è sempre grigio di smog, non si respira e sono scomparsi i milioni delle mitiche biciclette; in compenso sono in corso prospezioni petrolifere nel Mar Cinese Meridionale. A Tokyo il disastro di Fukushima non ha impedito l’elezione di un sindaco nuclearista, proseguono le ricerche per nuovi usi dell’energia nucleare e gli interessi umani dipendono tutti dagli andamenti della Borsa.

Eppure questa crisi non è destinata a salvare nessuno a lungo termine. Se stiamo cambiando epoca, tutti sono liberi di coltivare localmente conflitti etnici o religiosi (sono sempre una riserva per guerre locali in cui impiegare armi predisposte dal mercato), ma a patto di sapere che lo “sviluppo” previsto o lo si corregge o è pieno di rischi. L’Occidente ha responsabilità specifiche per aver aperto tutti i tipi di giochi; forse ne ricaverà danni e spostamenti di baricentro, ma gli “interessi forti” stanno coinvolgendo il mondo portandolo all’estremo delle compatibilità. Occorre che chi ha responsabilità nel gestire la situazione o ne è semplicemente interessato non si limiti all’indignazione ma recuperi qualche analisi.

Sintomi allarmanti anche in Asia

Proprio l’Asia può essere un utile punto di partenza. Anche i modelli asiatici sono sotto pressione per il peso di contraddizioni non risolte. La massa della manodopera a basso costo in Cina può diventare in un tempo relativamente breve destabilizzante, perché questa crisi allarga tutte le forbici a danno dei livelli bassi e favorisce l’export delle merci di lusso, ma riduce quelle acquistate dal ceto medio in via di sparizione nella povertà globale; quindi, se i cinesi guadagnano meno di noi, i problemi interni dei lavoratori si alzano di livello. Tuttavia la Cina e l’India, che vanno sul miliardo e trecento milioni di abitanti ciascuna, percepiscono qualche sintomo allarmante, ma reggono; i giapponesi sono solo centotrenta milioni, ma se la cavano bene e meglio ancora i cinquanta milioni di sudcoreani. Non ci sono, però, solo i movimenti di denaro: il continente cinese registra un’immigrazione interna di quasi trecento milioni di lavoratori, quello indiano mantiene il sistema delle caste e i paria accettano la “naturalità” della discriminazione.

L’esigenza di un rinnovamento culturale

Tuttavia, né il socialismo (ormai di mercato) né quella che viene definita “la più affollata democrazia del mondo” possono durare senza rinnovare la propria cultura. Il diritto allo studio in Cina non sarà integralmente realizzato, ma la qualità della ricerca e delle università comporta che anche il contadino delle campagne o la ragazza poco alfabetizzata si siano formati una qualche idea di ciò che noi chiamiamo “i diritti”. Difficile, d’altra parte, per uno dei nostri ragazzi credere che in Giappone fino a vent’anni fa nelle grandi fabbriche i lavoratori entravano al mattino cantando l’inno aziendale. Difficile anche immaginare che lo shintoismo entri nella modernità solo per aver inserito fra gli shin – che sono le divinità della terra, del fuoco, dell’acqua – anche lo spirito dell’atomo e averne collocato l’immagine nella vetrinetta didattica all’ingresso della centrale nucleare di Tokyo.

La telefonia mobile e internet sono ormai comuni a fasce sempre più larghe di popolazione e soprattutto i giovani se ne avvalgono ovunque per determinare il proprio futuro. Per tutti gli abitanti del globo, infatti, in una generazione è cambiato il mondo.

Sindacalizzazione, welfare, informazione

Ormai non è più facile sopportare che – a prescindere dagli impossibili confronti sul costo della vita – il precario in India accetti di lavorare per 90 euro al mese quando il livello medio è di 200, a meno che non si viva in villaggi lontani da città grandi o piccole, tipo Shanghai (37 milioni di abitanti), o Bangalore (quasi 9), o Busan (quasi 4).
A Manesar lo stabilimento Maruti-Suzuki è stato sede di scioperi, di chiusure e di richiesta di ingresso di un sindacato autonomo perché quello interno era “giallo” e padronale. Ormai ci sono agitazioni pubbliche anche quando gli investimenti per la sanità sono inadeguati: in India le carenze sono notevoli, in Cina sotto il regime comunista l’assistenza copriva un 40% più di oggi; la Corea investe bene nell’assistenza, mentre il Giappone spende poco, suscita malcontento, ma resta il paese più longevo. Analoghe le reazioni per l’istruzione: soprattutto nei paesi centro-orientali anche nelle campagne il diritto dei figli alla scolarizzazione è fonte di malcontento se l’offerta è carente. Crescono quindi le pretese nei confronti dei governi, che si trovano a dover negoziare; la Cina ha perfino allentato i divieti procreativi concedendo un secondo figlio.

Tuttavia proprio in quell’Estremo Oriente in cui le nuove tecnologie hanno maggior impulso produttivo, nascono i problemi del controllo sull’informazione perché non alimenti le contestazioni; la Cina più di tutti limita la libertà di comunicazione e persegue gli autori di programmi troppo trasgressivi, giusta risposta alle bugie del governo. D’altra parte le autorità cinesi sanno che non sarà facile mantenere la dimensione unitaria del pianeta Cina – non solo iperpopolato, ma composto da una cinquantina di etnie, ricco di parlate locali, perfino di gruppi islamici – e non possono permettersi il sorgere di rivendicazioni nazionaliste. D’altra parte la libertà di comunicazione intriga ovunque, come ci insegna la più vicina Turchia.

La centralità dell’economia e della finanza

Diciamo di possedere tutte le informazioni in tempo reale; ma, in primo luogo, più veloci di tutto in rete sono i trasferimenti di denaro, poi la rete fa circolare di tutto, anche le bugie dei regimi. Inoltre è vero che guardiamo a India, Cina e Giappone, ma i paesi occultati non è detto che non contino: il Pakistan, autonomo dal 1947, islamico è fornito di armi nucleari come la confinante India, nemica di sempre; i diritti del popolo tibetano sono sempre una questione cinese e il recente voto in Thailandia resta sospeso per i disordini e i morti e che ne sono derivati. Poi c’è sempre l’impresentabile Corea del Nord i cui crimini attivano le preoccupazioni internazionali a orologeria.

Anche se i paesi meno importanti per il Fondo monetario non contano, i paesi leader sorprendono per la diversa impostazione delle più recenti strategie economiche. Lasciamo da parte l’India e Sonia Gandhi che, alla vigilia di elezioni non facili, debbono rassicurare un terzo della popolazione, quella povera, mentre l’agenzia di rating Fitch trae auspici infausti per l’economia indiana. Il Giappone ha raddoppiato gli incentivi alle banche per facilitare il credito e rafforzare i consumi senza alcuna preoccupazione per la liquidità in circolazione. Al contrario la Cina drena il liquido e stringe i freni al credito, mentre i cinesi portano i soldi all’estero. La globalizzazione prevede, forse, il gioco dell’oca finanziario?

L’ impossibilità di prevedere

Il denominatore comune è pur sempre il fattore economico. Si tratta di paesi che per ora sembrano non avere grandi difficoltà. Tuttavia, proprio ritenendo centrale internazionalmente la situazione asiatica e ben sapendo in quale ottica parliamo di Asia (escludendo Afganistan, Nepal, Mongolia, Vietnam ecc.), non mancano fenomeni che fanno la spia di immaginabili conseguenze sullo scenario mondiale “che conta”. Il conflitto latente delle monete (l’euro è un contrappeso al dollaro e in Asia lo sanno bene), la politica dei crediti, il controllo della liquidità, l’espatrio dei capitali, l’emigrazione dei piccoli produttori (il da noi ben conosciuto “modello-Prato”), la collusione tra le mafie orientali e le nostre e perfino il land grabbing (l’acquisto delle terre coltivabili che si configura come un furto) – soprattutto in Africa – sono tutte questioni interconnesse le cui conseguenze anche a brevissimo termine nessuno ha la capacità di prevedere.