La musica è cambiata. E le parole? Un dibattito sulla riforma della Chiesa

Claudia Fanti
Adista Documenti n. 11 del 22/03/2014

Se, con l’avvento di papa Francesco, il cambiamento di clima ecclesiale appare a tutti innegabile, il livello delle aspettative legate a una rifondazione della Chiesa varia invece notevolmente. Di certo, tutti o quasi hanno per il papa parole di grande, profondo e caldo apprezzamento, ad esclusione della destra più reazionaria, quella, per esempio, riunita nel Tea Party, a cui, come ha sottolineato John Cassidy sulla rivista New Yorker (4/12), quello che il papa dice nella Evangelii Gaudium deve sembrare «qualcosa di incendiario, specialmente in un Paese come gli Usa, dove gli attacchi morali all’economia di mercato risultano rari nel discorso ufficiale».

O ad eccezione di alcune voci sparse, a sinistra, specialmente in Argentina, dove c’è chi fa fatica a separare la figura dell’attuale papa da quella dell’allora cardinal Bergoglio, criticato all’epoca tanto per il suo ruolo di leader spirituale dell’opposizione al governo di Néstor Kirchner, quanto per le sue posizioni riguardo al passato regime militare. Ma anche negli Stati Uniti, dove il passaggio dell’intervista rilasciata dal papa a Ferruccio De Bortoli (sul Corriere della Sera del 5/3) relativo alla questione degli abusi sessuali ha destato in molti perplessità e delusione (v. Adista Notizie n. 10/14).

In America Latina, tuttavia, appare decisamente convinto il sostegno a papa Francesco da parte dei teologi della Liberazione, delle comunità ecclesiali di base, dei movimenti sociali (diversi dei quali hanno anche diffuso recentemente una nota di solidarietà al papa in risposta agli attacchi sferrati contro di lui dalla destra statunitense; v. Adista Documenti n. 1/14), come sta a indicare, tra innumerevoli altri esempi, il numero speciale di febbraio dell’agenzia Alai-America Latina en movimiento, dedicato al tema “Francesco e i segni dei tempi”.

«Le aspettative che ha risvegliato questo papa latinoamericano – scrive in apertura del numero il direttore della rivista Osvaldo León – lo hanno trasformato in un fenomeno non solo religioso, ma anche politico, con ripercussioni significative a livello mondiale»: non a caso la rivista Time lo ha designato come “persona dell’anno”, «per aver condotto il papato fuori dal palazzo, in strada» e spinto «la più grande Chiesa del mondo a confrontarsi con le sue più profonde necessità», bilanciando «il rigore con la misericordia». E così realizzando, in meno di un anno, «qualcosa di notevole: non ha cambiato le parole, ma ha cambiato la musica».

Un consenso, quello di cui gode papa Francesco, che si spiega, secondo León, con i suoi attacchi al neoliberismo, la sua insistenza sul primato dell’essere umano rispetto al capitale, i suoi appelli alla pace, come pure con «le sue critiche a una Chiesa autoreferenziale, il riconoscimento tacito della Teologia della Liberazione, la sua opzione per gli esclusi». E se la scelta, sul terreno della gerarchia, è stata quella «di mantenere un “equilibrio” calcolato», è chiara però la consapevolezza che «è necessario cambiare». Non per niente, come evidenzia Leonardo Boff, il papa «non è eurocentrico, né romanocentrico né tanto meno vaticanocentrico», ma «proviene da un cristianesimo nuovo che si è andato elaborando nel corso di 500 anni in America Latina con un volto proprio e una propria teologia».

Non tutti si attendono un «cambiamento rivoluzionario», a cominciare da François Houtart, che però riconosce al papa «una vicinanza affettiva ai movimenti e ai poveri», per quanto il suo approccio, sottolinea, sia più tipico della dottrina sociale della Chiesa, con i suoi richiami all’unione e alla collaborazione di tutti in vista del bene comune, che della Teologia della Liberazione, con la sua analisi in termini di opposizione strutturale delle sociali. Ma, prosegue, per quanto si condanni «il capitalismo più per i suoi effetti che per la sua logica», «bisogna essere felici che vi siano cambiamenti ed essere presenti negli spazi che si aprono, perché a volte questi spazi possono essere più importanti di quanto si pensi» (www.mst.org.br/node/15715).

Ed è proprio sulla sua vicinanza ai poveri che fa leva il pastoralista Edgar R. Beltrán, colombiano ma residente negli Stati Uniti, per rivolgere al papa, in una lettera, un’originale richiesta: quella di prendersi una vacanza in un Paese africano, «dove stanno morendo migliaia di bambini ogni giorno per mancanza di pane, dove i loro padri e le loro madri stanno morendo di Aids», e dove la sua denuncia sullo scandalo della fame produrrebbe uno straordinario impatto, risuonando come «un “ruggito” irresistibile verso capi di Stato, legislatori e politici».

Come avvenuto a Lampedusa, scrive Beltrán, «seguiremmo in televisione la tua celebrazione in un quartiere povero, con la partecipazione dei poveri. Magari senza mitra, simbolo di potere, che dinanzi ai poveri è di troppo, ricordo del dio Mitra inventato dai generali persiani molto prima di Cristo». E rivelando così il volto di una «Chiesa samaritana che vede la vittima, si commuove e interviene».

Più che un papa

Ma, si chiede qualcuno, basterà davvero cambiare solo “la musica”? Basterà quell’«equilibrio calcolato» per riformare radicalmente la Chiesa? Insomma, basterà che il papa sia diverso, per rendere diversa la Chiesa? Scrive Bernardo Barranco (citato da Alai): «La “rivoluzione pastorale” di Francesco è in fin dei conti una provocazione rispetto alla capacità della Chiesa di dialogare con maggiore franchezza e profondità con la cultura contemporanea. Tuttavia, presenta un limite importante: si tratta di cambiamenti dall’alto verso il basso. (…). In altre parole, se le proposte di Francesco (…) non investono il terreno delle Chiese locali, non serviranno a nulla» (El País Internacional, 27/01).

In questo senso, se il papa è stato molto chiaro su quello che a suo giudizio deve essere il profilo dei candidati all’episcopato (pastori che siano «vicini alla gente», «miti, pazienti e misericordiosi»; che «amino la povertà», che «non abbiano una psicologia da “Principi”», che siano «capaci di “vegliare” per il gregge», come ha detto nel suo discorso alla riunione della Congregazione per i vescovi del 27 febbraio), tuttavia, come sottolinea Marcelo Barros, non sembra questo il profilo che ha prevalso nella designazione di 12 nuovi membri della potente Congregazione dei vescovi, «a cui spetta proporre al papa il nome dei candidati all’episcopato in tutto il mondo».

Soprattutto, in America Latina e non solo, si fa fatica a digerire la scelta del card. Oscar Rodríguez Maradiaga come coordinatore del gruppo di lavoro incaricato di studiare un progetto di riforma della Curia: se sulla stampa italiana nessuno fa più riferimento al ruolo da lui giocato in occasione del golpe che, il 28 giugno del 2009, ha messo brutalmente termine al processo di cambiamento avviato dal presidente honduregno Manuel Zelaya (v. Adista nn. 79, 83 e 105/09), il popolo latinoamericano non dimentica il sostegno prestato dall’arcivescovo di Tegucigalpa al golpista Roberto Micheletti, e poi al presidente illegittimo Porfirio Lobo e ancora all’attuale presidente Juan Orlando Hernández, diventato tale grazie ai brogli elettorali (v. Adista Notizie n. 43/13).

Se insomma, scrive il teologo Oscar Fortin nel suo blog (blogs.periodistadigital.com/humanismo-de-jesus.php), non ci sono dubbi sulla reale vicinanza di papa Francesco ai poveri, tuttavia, «osservando da vicino coloro che vengono nominati per consigliarlo e per guidare i diversi dicasteri della Chiesa, il papa ci dà l’impressione di qualcuno che voglia tenere la Chiesa istituzionale lì dov’è» (a cominciare dalle responsabilità affidate all’Opus Dei, la quale certo «non gode della reputazione di essere povera e con i poveri»). Cosicché il rischio, evidenziato da Marcelo Barros, è che «la simpatia di un papa carismatico» faccia «sembrare positiva una struttura che in sé è sbagliata e che deve cambiare (la struttura attuale del papato con la sua visione di Cristianità)».

Pertanto, se, come sottolinea il teologo Xavier Pikaza, le cose che dice e che fa papa Francesco non possono non sorprendere positivamente, la Chiesa ha bisogno, però, di qualcosa di «più di un papa (per quanto un papa come Francesco sia necessario)», esattamente come ha bisogno di qualcosa di più di un Concilio.

Di seguito, in una nostra traduzione dallo spagnolo, l’articolo di Marcelo Barros apparso sul numero speciale di Alai e l’intervento scritto da Xavier Pikaza nel suo blog (blogs.periodistadigital.com/xpikaza.php).

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Papa Francesco e la Teologia della Liberazione

Marcelo Barros

Da quando Francesco è stato scelto come vescovo di Roma, è tornato a riaffacciarsi il tema della Teologia della Liberazione, in relazione al Vaticano e alle posizioni del papa. Nel settembre del 2013, il papa ha ricevuto Gustavo Gutiérrez e in Italia è uscito il libro scritto da quest’ultimo insieme al card. Müller, attuale presidente della Congregazione per la Dottrina della Fede.

Di fatto, quanti si richiamano alla Teologia della Liberazione hanno affermato che la cosa più importante non è la teologia in sé, ma il processo sociale e politico della liberazione, sempre più necessario e urgente in tutti i continenti. Pertanto, non si tratta di sapere se il papa abbia aderito o meno alla Teologia della Liberazione. L’importante è che sia sensibile e attento ai problemi segnalati e denunciati da questa teologia in tutto il mondo. Ed è proprio questo che il papa ha dimostrato, tanto nei suoi discorsi e nelle interviste da lui rilasciate quanto nel suo viaggio a Lampedusa in solidarietà con i migranti perseguitati o nella sua Esortazione apostolica Evangelii Gaudium (n. 53- 60).

Senza contare che il 5 dicembre scorso, su richiesta di papa Francesco, l’Accademia delle Scienze del Vaticano ha invitato rappresentanti dei movimenti sociali di tutto il mondo per analizzare la sfida di un’economia di esclusione e del modo in cui si può contrastarla.

L’ATTUALITÀ DEL VANGELO

La semplicità e la gradevolezza che caratterizzano la presenza di papa Francesco e le posizioni da lui adottate mi fanno tornare alla mente un episodio che ho vissuto poco meno di 50 anni fa in qualità di segretario e consigliere di mons. Hélder Câmara, allora arcivescovo di Olinda e Recife. Negli archivi dell’arcivescovo c’è una lettera personale da lui inviata nel 1966 al suo amico di lunga data, papa Paolo VI, nella quale il vescovo profeta gli chiedeva di compiere un gesto profetico: rinunciare ad essere un capo di Stato per tornare ad essere soltanto vescovo di Roma e, come tale, pastore dell’unità delle Chiese. Ed è in tal senso che, secondo la lettera, il papa avrebbe dovuto cedere il Vaticano alle Nazioni Unite e trasferirsi a San Giovanni in Laterano, prima residenza dei vescovi di Roma.

Poche settimane più tardi, l’arcivescovo di Recife ricevette una lettera dal Vaticano. In essa il cardinal Villot, segretario di Stato, affermava: «Il Santo Padre ringrazia per la sua lettera, ma le ricorda che questi non sono più i tempi del Vangelo». Mons. Hélder rimase addolorato da questa risposta.

Se fosse ancora vivo, oggi sarebbe certamente felice: finalmente, direbbe, abbiamo in Vaticano, dopo Giovanni XXIII, un cristiano che crede nell’attualità del Vangelo di Gesù e la esprime pubblicamente. Viviamo in tempi di Vangelo. Anche se, per il momento, il papa non può trasferirsi a San Giovanni in Laterano o ritiene di non dover rinunciare ad essere un capo di Stato, i segnali che egli invia indicano che lui coglie le contraddizioni esistenti nella realtà attuale, rivelando una libertà interiore in direzione di ciò che chiede il Vangelo.

IL VESCOVO DI ROMA

Durante l’ultimo Conclave, un giornalista brasiliano mi chiese cosa pensavo della possibilità di un papa brasiliano. Gli risposi che non lo volevo. Preferivo un papa italiano che facesse il vescovo di Roma e rispettasse l’autonomia e l’ecclesialità delle Chiese locali. Quando si seppe che la scelta era caduta su Bergoglio, mi resi conto che, nell’attuale realtà ecclesiale, l’elezione di Francesco era stata una benedizione divina. Io non speravo in un papa della Teologia della Liberazione, ma in uno che accettasse di convivere con il pluralismo del mondo e delle Chiese. Un buon segnale che, fin dall’inizio, l’attuale papa ha mandato al mondo.

In generale, i giornalisti hanno richiamato l’attenzione sulla semplicità con cui egli si presenta e sulla sincerità con cui affronta le complesse questioni morali e istituzionali. Penso che la decisione più coraggiosa che abbia preso sia quella di presentarsi, fin dal primo momento della sua elezione, come “vescovo di Roma”. Teologicamente, questo mi sembra più importante e innovativo delle sue posizioni etiche e teologiche, perché consente alla Chiesa di tornare a rispettare la diversità di discipline, di liturgie e anche di teologie nei diversi continenti e nelle diverse realtà locali.

Come vescovo di Roma e primate dell’unità delle Chiese, il papa riprende l’ecclesiologia del Concilio Vaticano II nel suo proposito di valorizzare le Chiese locali (particulares). E, insistendo sulla necessità che i sacerdoti e i vescovi tornino alla base e cerchino di servire le periferie, Francesco recupera la dottrina della II Assemblea dei vescovi latinoamericani a Medellín (1968), la quale proponeva «una Chiesa di servizio e pasquale, impegnata a favore della liberazione di ogni essere umano e di ogni persona nella sua integrità» (Med. 5, 15). È qui che si incontra quel fondamento della Teologia della Liberazione che si estende anche al di fuori della stessa teologia. Per me, l’importante è che Francesco abbia avviato un dialogo con tutta la teologia, qualunque essa sia, dal momento che i due papi precedenti accettavano solo teologi di corte e nella Chiesa non c’era più spazio per una teologia che non fosse una mera ripetizione di encicliche e documenti ufficiali.

Nel protagonismo di papa Francesco c’è però un problema. Se la simpatia di un papa carismatico fa sembrare positiva una struttura che in sé è sbagliata e che deve cambiare (la struttura attuale del papato con la sua visione di Cristianità), egli non rende un buon servizio all’insieme della Chiesa.

Anche in questo pontificato, la selezione dei vescovi in alcune diocesi del mondo è stata assai poco democratica e pastorale. In Vaticano, papa Ratzinger aveva rafforzato due settori tra i cardinali di Curia: i membri e i sostenitori dell’Opus Dei e i membri e i sostenitori dell’ordine semi-segreto dei Cavalieri di Colombo, fondato negli Stati Uniti, nel 1882, come “braccio destro della Chiesa”, alle cui opere sociali destina ogni anno milioni di dollari. Un ordine che sembra una massoneria e che gode di molto potere in Vaticano, contendendo posti all’Opus Dei nella Curia romana. Recentemente, papa Francesco ha nominato 12 membri per la potente Congregazione dei vescovi, a cui spetta proporre al papa il nome dei candidati all’episcopato in tutto il mondo. Il responsabile di questo organismo della Curia, nonché uomo di fiducia di papa Francesco, è il cardinale canadese Marc Ouellet, molto legato ai Cavalieri. L’arcivescovo di Washington, Donald Williams Wuerl, è membro dei Cavalieri. E così anche il cardinal William Levada. Il cardinale svizzero Kurt Koch, attuale presidente del Pontificio Consiglio per l’Unità dei Cristiani, è dell’Opus Dei. E lo stesso si potrebbe dire di molti altri membri della Curia e consiglieri del papa da lui nominati o confermati. Cosa ci si può aspettare dalle proposte di rinnovamento di papa Francesco se è questo il quadro della Curia romana?

In ogni caso, la figura di questo papa semplice e comunicativo serve ora a creare un altro clima e a rendere possibili i cambiamenti nelle Chiese locali, ma è fondamentale che egli non resti centrato sul Vaticano.

LE SFIDE POSTE ALLA TEOLOGIA DELLA LIBERAZIONE

Se è possibile cogliere nelle parole e nei gesti del papa segni di approvazione nei confronti della Teologia della Liberazione, la cosa più urgente è discernere ciò che può servire a una rivitalizzazione della Teologia della Liberazione.

Senza dubbio, i suoi richiami affinché la Chiesa gerarchica non perda il contatto con la base e, al contrario, viva un nuovo radicamento, sono molto importanti e utili per tutti e tutte coloro che sono impegnati/e con una teologia militante a partire dalla prassi. Purtroppo, negli ultimi decenni, la tentazione dell’accademismo ha minacciato settori un tempo assai impegnati a fianco dei movimenti di base. È necessario rilanciare tale impegno, sia per appoggiare la riforma ecclesiale proposta dal papa, sia per dare nuova vitalità alla nostra teologia.

Negli anni ‘70 e agli inizi degli anni ‘80, alcuni compagni e compagne cercarono di assicurare la loro presenza nei settori sociali impegnati a cambiare il mondo. Oggi, dall’inizio di questo secolo, l’America Latina assiste a un innovativo processo sociale e politico in diversi Paesi del continente. In una delle sue udienze, il papa ha fatto cenno all’integrazione latinoamericana. Senza dubbio, è un campo in cui la Teologia della Liberazione dovrebbe coinvolgersi maggiormente.

Il processo bolivariano non è unicamente una questione di governi come quelli di Nicolás Maduro, Rafael Correa ed Evo Morales. È più di questo. È un processo promosso e sostenuto dai movimenti popolari e da molti cristiani di base. È urgente che la Teologia della Liberazione partecipi a tale processo. Era questa la convinzione del mio maestro, padre José Comblin, il quale, come teologo, si recò varie volte in Venezuela, accettando anche di accompagnare come osservatore internazionale un’elezione presidenziale. Tale intuizione a favore del bolivarismo da parte di Comblin si aggiunge a quella di pionieri come Hélder Câmara. Già nel 1965, in una delle sue lettere dal Concilio, l’allora arcivescovo di Olinda e Recife evidenziava la necessità del bolivarismo come decolonizzazione dei nostri Paesi rispetto all’impero e come integrazione dei nostri popoli in un’unica Patria Grande. Oggi, ancora più che in quell’epoca, questo radicamento è necessario e urgente.

Penso che, per i fratelli e le sorelle che fanno Teologia della Liberazione, le parole e i gesti di papa Francesco possano andare oltre il significato che rivestono in sé e risuonare come la parola dell’Angelo dell’Apocalisse alla Chiesa di Efeso: «Torna al tuo primo amore» (At 2,5). Per la Bibbia, il primo amore richiama l’Esodo e il tempo della lotta per la terra nel deserto (cfr Ger 2,1-2; Os 2,16- 21). Per la Chiesa latinoamericana, che incontrò la propria identità a Medellín, questo primo amore non può avere altro significato che quello di tornare alla mistica del regno di Dio, nel radicamento concreto tra il popolo in lotta per la sua liberazione.

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Più di un papa, più di un Concilio

Xavier Pikaza

Molti sono (siamo) sorpresi per le cose che dice e che fa papa Francesco, in linea con il Vangelo. Ci pare che sia una cosa assai buona, ma riteniamo che la Chiesa abbia bisogno di qualcosa di più di un papa (per quanto un papa come Francesco sia necessario).

Molti siamo convinti che il Concilio Vaticano II (1962-1965) sia stato un dono per la Chiesa e che la sua visione generale e i suoi documenti debbano essere attualizzati e portati a compimento. Pensiamo, però, che non basti più un Concilio, perché forse l’era dei Concilii episcopali della Chiesa, iniziata nel palazzo imperiale di Nicea, è giunta al suo termine. Abbiamo bisogno di qualcosa di più, più di un papa, più di un Concilio…

PIÙ DI UN MERO CONCILIO

Risulta comprensibile che alcuni, in questo momento di cambiamento, auspichino la celebrazione di un nuovo Concilio, il quale definisca come debba essere la Chiesa e, all’interno di essa, la struttura gerarchica, seguendo il modello medievale del Concilio di Costanza (1414-1418) (quello che affermava la superiorità del Concilio sul papa, ndt). Piacerebbe loro che si definissero subito nuove strutture per la Chiesa, risolvendo dall’alto temi come il celibato, l’ordinazione delle donne, il potere dei vescovi, la funzione del papa…

‒ Non è il momento. Oggi, nel 2014, con una maggioranza di vescovi nominati in base a una linea decisamente sacrale e persino fondamentalista, un Vaticano III a cui assisterebbero solo questi risulterebbe poco rappresentativo dell’insieme della Chiesa e della dinamica del Vangelo. Un Concilio cristiano appare oggi impossibile senza la partecipazione dell’insieme delle Chiese impegnate nel servizio dei poveri a partire da Gesù.

‒ Cominciare dalla vita. Più che un Concilio che decida dall’alto cosa sono o devono fare i credenti, vogliamo Chiese che esplorino e percorrano cammini di Vangelo, dal basso, nel servizio ai poveri, in comunione mutua, senza attendere soluzioni esterne. Per questo, sembra necessario vivere ancora un tempo di “caos”, per imparare a condividere la sofferenza di quanti sono stati espulsi dalla vita e per aprire con loro un cammino di libertà (…). Nessuno (né dentro né fuori della Chiesa) deve dare ai cristiani l’autorità per pensare e celebrare, per organizzarsi e decidere della propria vita, poiché quell’autorità la possiedono già (cfr Mt 18,15-20), essendo loro stessi Concilio permanente.

‒ Contro l’endogamia. Un Concilio chiuso su se stesso, impegnato solo su temi interni alla Chiesa, sarebbe un segno di egoismo. Quello che importa sono i poveri, non un Concilio centrale. D’altra parte, nella misura in cui è comunione e servizio di amore, tutta la vita cristiana è Concilio, cioè riunione permanente di quanti sono convocati dallo Spirito di Cristo per annunciare il Vangelo della libertà e della vita. In base a questo, il Concilio non deve essere un atto separato, ma espressione della vita delle Chiese, bazar permanente di molteplici contatti in cui uomini e donne donano e condividono la propria vita (cfr 1Cor 13). (…).

L’autentico Concilio delle Chiese è la loro vita quotidiana, nella quale si vanno creando forme concrete e impegnate di presenza e di servizio ai poveri (…).

In questo senso, essere cristiani è “vivere in Concilio”, coltivando l’unità che sorge dalla parola e dalla vita condivisa, a partire dai più poveri. Solo in questo contesto si potrà parlare di vescovi e papi, con altri ministri ugualmente importanti. Il cristianesimo è Concilio o rete di relazioni che non si possono delegare, di modo che non possa mai sorgere una persona (un papa) o un comitato (un’autorità collegiale) che costringa al silenzio gli altri e parli a loro nome senza averli ascoltati. Questo cristianesimo conciliare a cui alludo non deve fare grandi cose (edificare cattedrali, creare commissioni, vincere guerre), ma essere semplicemente un ponte in cui tutti possano incontrarsi. (…).

PIÙ DI UN PAPA, UNA GRANDE UTOPIA

Finora ha trionfato un tipo di globalizzazione economico-politica che ha assunto forme elleniste o, ancor meglio, platoniche, con una separazione di livelli (sopra lo spirituale, sotto il materiale) e con una struttura gerarchica in cui i nobili (i saggi-degni-superiori) dominano i plebei (ignoranti-indegni-inferiori). In questi ultimi secoli, tale sistema è sfociato in un tipo di capitalismo neoliberista, introducendo un nuovo e più forte modello di separazione sul piano economico e tecnico, militare e amministrativo. Ebbene, a questa tendenza opponiamo la cattolicità cristiana, partendo dalla grazia di Dio che si esprime nei poveri.

Per questo, per coerenza storica e spirito evangelico, quelli che si dicono successori di Pietro e capi delle Chiese devono tornare nel luogo in cui è stato Gesù (e i primi cristiani: Maddalena, Pietro, Paolo…), tra gli affamati e gli emarginati dell’antico impero, per riscoprire e ricreare la cattolicità del Vangelo, senza con ciò assumere il potere, in quanto, se lo facessero, smetterebbero di essere segno del Vangelo. (…).

Quello che unisce la Chiesa non sono dei dogmi proposti in modo più o meno ellenista (secondo i Concilii), né leggi fissate in un Codice di Diritto Canonico, né l’alta gerarchia, ma la mutazione evangelica di Cristo, che si esprime nell’amore reciproco e nel pane condiviso, in un perdono che non è offerto dall’alto (come effetto di una misericordia ma dagli stessi peccatori perdonati. In questo contesto si situa la dichiarazione fondativa della prima assemblea o Concilio di Gerusalemme, dove i rappresentanti delle comunità (che non erano vescovi), discussero, dialogarono e finirono per mettersi d’accordo sull’essenziale, dichiarando: «Abbiamo deciso, lo Spirito Santo e noi…» (At 15,28). Quell’«abbiamo deciso…» significa che i cristiani si scoprono mossi dallo Spirito di Cristo e in questo modo è apparso loro come un bene che le comunità di linea paolina (accettate da Pietro) potessero aprirsi ai gentili, chiedendo loro solo che si ricordassero dei poveri (cfr Gal 2,9-10).

Certamente, all’interno della comunione condivisa dallo Spirito, possono e devono esserci funzioni differenti (cfr 1 Cor 12-14), come quella che il Gesù pasquale affidò a Pietro dicendogli: «Simone, Simone, ecco satana vi ha cercato per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede; e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli» (Lc 22,31-32). Pietro svolse un compito molto importante agli inizi della Chiesa, ma con lui dobbiamo ricordare Maddalena e Maria, la madre di Gesù, con Giacomo e con Paolo e con molti altri. Il Dio di Gesù parla a ciascuno, nella sua intimità, ma in comunione con altri.

Senza dubbio, è importante che i credenti ascoltino in modo personale la Parola (attraverso la Scrittura o per ispirazione interiore), come hanno posto in rilievo i cristiani evangelici. Ma bisogna anche potenziare la vita delle comunità, che esplorano e procedono per tentativi, che aprono e offrono cammini di esperienza condivisa (di Vangelo), in questo tempo in cui molti di noi si sentono minacciati dal sistema, condannati all’individualismo o dominati da gruppi di pressione che vogliono imporci la loro volontà.

In tale contesto, bisogna rimarcare che tutti i cristiani sono sacerdoti, perché il sacerdozio comune dei fedeli (fondato sulla fede e sul battesimo, cioè sul radicamento ecclesiale) è la prima cosa. Per questo, la celebrazione del battesimo e dell’eucaristia non è un diritto che i vescovi o il papa concedono ai fedeli, ma un elemento essenziale delle comunità che possono ricevere nuovi credenti e celebrare la memoria di Gesù. Per questo, non è la gerarchia a rendere possibile l’eucaristia, ma il contrario: la stessa eucaristia, celebrata dall’insieme della comunità, riunita nel nome di Gesù, rende possibile la nascita di una comunità in cui i credenti possiedono e condividono doni diversi, ma tutti al servizio dello stesso corpo ecclesiale (cfr 1Cor 12-14).