La pietas

Francesco Bricolo
www.italialaica.it | 17.03.2014

Secondo la migliore tradizione multimediale i siti internet dei giornali hanno dato la notizia dell’approvazione in Belgio della legge sull’eutanasia per i minori rendendo disponibile il video del momento in cui il parlamento ha approvato la norma con la voce narrante del giornalista che racconta i fatti. E’ stata data così anche la notizia della morte della donna che con una riduzione giornalistica terribile viene chiamata la madre dell’eutanasia e che corrisponde ad Els Borst, il ministro belga che ha fortemente voluto la prima legge a favore dell’eutanasia. Difficile anche se possibile un delitto passionale di una donna di settant’anni, l’ipotesi che molti hanno fatto è che sia stata uccisa proprio da estremisti che contravano la sua battaglia a favore dell’eutanasia.

Ma appunto sono solo ipotesi e comunque il video con la polizia belga sulla scena del crimine a casa di Els Borst c’è e lo si può vedere. Ho pensato che valeva davvero la pena prendere al volo questa notizia e farci una riflessione che butto lì.

Secondo la legge italiana vigente la persona può rifiutare le cure, articolo 32 della nostra costituzione, ma non può essere aiutata a morire secondo l’articolo 579 del codice penale che condanna l’omicidio del consenziente.

Questa situazione normativa ha fatto sì che in Italia si sia accesa una vera e propria battaglia con tanto di schieramenti opposti e tutti e due troppo spesso sanno scontrarsi e non incontrarsi e questo impantana tutto.

Dobbiamo prendere atto che questo termine, eutanasia, ormai è portatore di un virus altamente contagioso che ha questo potere straordinario di confondere e demolire tutto, tanto che non si sa più bene che cosa voglia dire eutanasia.

Al netto di tutte le polemiche possibili la morte è il punto di arrivo di tre tipi di azioni. La prima e la più semplice è il rifiuto di una cura e l’esempio più recente e noto è Carlo Maria Martini che appunto ha rifiutato un trattamento per il suo tumore.

In teoria, non è sempre vero, i trattamenti anche palliativi allungano la vita e il loro rifiuto anticipa la morte ma su questo allungare e anticipare potremmo parlare per ore. Sta di fatto che qui intendiamo dire che il rifiuto di un trattamento porta alla morte perché la persona si lascia morire ed è questo il termine che potremmo usare, lasciare morire la persona.

Diversamente si può aiutare a morire la persona sedando il dolore di quella persona con dose sempre più alte di oppiacei sapendo che questi compromettono il centro del respiro. Quello che succede dunque è che aiutiamo a morire una persona usando un farmaco che sappiamo che fa morire anche se noi lo usiamo per sedare il dolore. Infine si può provocare il morire, per esempio somministrando un veleno e questo dei tre casi è l’unico in cui l’azione che si compie è finalizzata al procurare la morte.

Questa distinzione, lasciar morire, aiutare a morire e provocare il morire è fatta da Umberto Veronesi nel suo libro Il diritto di non soffrire: cure palliative, testamento biologico eutanasia, dove parte proprio da questo presupposto l’impossibilità di usare ancora questo termine, eutanasia, proprio perché troppo colmo di ideologia e schieramenti contrastanti. Le parole dell’ex ministro della sanità sono molto chiare: “Io penso che sia necessaria una nuova definizione del termine «eutanasia».

Non c’è una vera differenza tra il «lasciar morire» (interrompendo l’accanimento terapeutico), «aiutare a morire» (sedando il male e il dolore con dosi sempre più elevate di oppiacei) e il «provocare il morire» (somministrando un farmaco o un’iniezione letali). Tutti e tre questi percorsi sfociano infatti nella morte. Chiesta o cercata solo perché la sofferenza ha toccato limiti insopportabili che sviliscono ogni dignità umana.”

Chiunque abbia un minimo di sale in zucca e i piedi in terra sa bene che questa proposta di abbandonare questo termine è anacronistica e irrealistica almeno qui da noi. Certo è che se non ci proponiamo di farlo e se non lavoriamo in questa direzione tenendo viva questa prospettiva non ci arriveremmo mai.

Per questo ho pensato e voluto cogliere l’occasione della cronaca per offrire un momento di pensamento partendo da questa contrazione, questo bisogno. Imparare tutti a usare un linguaggio diverso che ci permetta di cogliere il punto.

Proviamo allora a dire qual è questo punto senza usare il termine eutanasia e facciamoci aiutare proprio da Umberto Veronesi: “Forse è addirittura giusto ed opportuno che scompaia la parola «eutanasia» troppo carica di significati ideologici che non possono che confondere il discorso. È ora di porre fine agli schieramenti. Non si tratta di essere «pro vita» oppure al contrario di sostenere l’eutanasia.

Si tratta semmai di considerare lecita l’anticipazione della morte se questa è la libera decisione di un essere umano gravemente sofferente. Non occorre che una legge permetta l’eutanasia come in Olanda, Belgio e Lussemburgo. È necessario invece che l’azione pietosa di anticipare la fine della vita su richiesta del malato inguaribile venga considerata una cura dovuta e non un atto omicida da penalizzare”.

Immagino bene che i cattolici vedranno l’ideologia anche in queste parole, ma proviamo a vedere che ragioni ci sono qui dentro.

Ogni giorno in decine di ospedali italiani e nel mondo i medici fanno il loro lavoro aiutando a morire alcune persone utilizzando alti dosaggi di oppiacei. Certo non lo fanno per porre fine alla vita, ma sanno bene che è esattamente quello che accade. Dobbiamo dunque prendere atto che queste cose accadono ogni giorno e che avvengono senza clamori mediatici e dentro un rapporto di fiducia tra il medico e i famigliari.

È da qui che dobbiamo partire, dal rapporto di fiducia tra il medico, il paziente e i suoi famigliari. Dentro questo rapporto di fiducia è necessario accettare che in casi estremi, come dice bene Umberto Veronesi, anticipare la morte del malato è una forma di cura che va accettata e a poco serve obiettare che si da questo potere immenso ai medici. Questo potere i medici ce l’hanno già e lo esercitano ogni giorno.

Ma se è così allora lasciamo le cose così, si potrebbe dire.

Percorrendo questa strada si entra nelle polemiche e non voglio farlo. Quello che voglio fare è ribadire la necessità di fare posto a questa prospettiva tenendola viva come argomento di dibattito e argomentazione.

Ora non abbiamo tempo per entrare nella pietas e dobbiamo limitarci ad un cenno. Si tratta di un termine che al contrario di quello che può sembrare porta in sé una grandissima umanità e compassione e descrive non il rifiuto ma l’accoglienza.

È dentro la pietas che dobbiamo collocare e discutere questo tema pensando che si tratta di rispettare sia chi vuole andarsene i pace rifiutando i trattamenti, sia chi invece vuole rimanere accettando i trattamenti.

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Eutanasia non ti conosco

Francesco Bricolo

Quello che mi propongo di fare in queste poche righe, è di raccontarvi di una mia piccola, minuscola inchiesta sull’eutanasia che mi sono proposto di fare dopo aver scoperto che poco ne sapevo. Pur essendo medico, la mia pratica clinica non mi mette a diretto contatto con questo problema e quindi me ne ero fatto un’idea leggiucchiando qui e là.

Non si tratta di un lavoro scientifico e nemmeno di un’indagine giornalistica, diciamo che è un percorso che sto facendo con me stesso e di cui voglio rendere conto.

Eu bene e thanatos morte, dunque la buona morte, questo è il significato del termine greco. Come vedete non c’è alcun riferimento al dare la morte, nel senso di procurarla e, quindi, quando noi parliamo di eutanasia e intendiamo il dare la morte non ci riferiamo a quell’origine lontana. Per dirla più brutalmente il significato greco originale è privo di una parte attiva, non c’è un riferimento a qualcuno che da la morte ad un altro.

Abbiamo tutti partecipato, nolenti o volenti, al dibattito mediatico che nell’ultimo decennio s’è svolto attorno a questa parola e, sinceramente, io stesso pensavo che sia Eluana Englaro che Piergiorgio Welby fossero stati casi di eutanasia, cioè di buona morte “procurata”, ma avevo capito pan per polenta.

Non è così. Ora lo posso dire perché mi sono informato e soprattutto ho capito, ma cosa ho capito?

Proviamo a mettere in fila i dati. Piergiorgio Welby muore nel 2006 e Eluana Englaro nel 2009 e, appunto, non s’è trattato di eutanasia, nessuno gli ha dato la morte. Ma come poteva essermi sfuggita una cosa del genere, tra l’altro sono medico. Come posso aver confuso dare la morte in forma attiva con non dare la morte?

Piergiorgio Welby muore grazie all’intervento di un medico che prima lo seda e poi spegne la macchina e Eluana Englaro invece muore tre giorni dopo che viene privata di acqua e cibo, questi sono i dati essenziali. Il medico che ha praticato l’intervento a Piergiorgio Welby viene processato e assolto mentre Beppino Englaro agisce con il nulla osta di un tribunale per cui non viene processato e nemmeno i medici che sospendono acqua e cibo.

Ma come fanno queste cose a non essere eutanasia? Questa è la domanda che mi sono fatto con non poco stupore ed è stata questa domanda che mi ha portato a leggere e informarmi.È stato così che ho scoperto che il medico che ha praticato l’intervento a Piergiorgio Welby è stato processato e assolto e che il ragionamento che è stato fatto è di questo tipo.

Il medico non ha fatto qualcosa, non ha compiuto un atto con l’intenzione di porre fine alla vita di Piergiorgio Welby. Quello che ha fatto il medico è stato sedare la persona con un farmaco e poi dare seguito alla volontà della persona che aveva più volte espresso il rifiuto del trattamento e così la macchina è stata spenta.Ora con tutta evidenza quest’azione alla fine porta alla morte, non c’è dubbio, ma con altrettanta evidenza non s’è trattato di un atto compiuto al fine di procurare la morte.

Come si fa togliere la vita ad una persona. Un veleno o comunque sostanze chimiche, armi di vario tipo dai coltelli alle armi da fuoco o anche scosse elettriche e altri metodi ancora. Queste azioni procurano direttamente a morte e sono messe in atto per far morire la persona e nel caso di Piergiorgio Welby queste azioni non sono state compiute. Vero.

È altrettanto vero che visto dall’esterno, senza entrare nei meandri della questione, spegnere il respiratore porta alla morte se non con assoluta certezza, con altissima probabilità e così una persona come me, che fino a poco fa aveva leggiucchiato qui e la qualcosa senza approfondire, colloca nell’ipocrisia e nei giochetti scemi la sola idea che quell’azione non sia stata dare la morte.

Quello che mi ha incuriosito a quel punto era quali erano gli arzigogoli legali che hanno permesso di dire che quelle azioni non portavano alla morte.Insomma davvero sembra uno di quei balletti da palazzo, lontani dalla vita delle persone che stanno male. Eluana Englaro e Piergiorgio Welby erano stati aiutati a morire, questo era quello che capivo io ma non era così.

E com’era allora? Da quello che ho capito con le mie sole forze, leggendo e chiedendo, noi siamo vincolati da una normativa che ha un nome preciso omicidio del consenziente, articolo 579 del codice penale e il medico che ha eseguito l’intervento su Piergiorgio Welby è stato indagato ed assolto per questo.

Questo dato da solo però non basta. L’assoluzione del medico è avvenuta grazie ad alcuni dettagli. Il primo è che la persona stessa ha espresso con chiarezza il suo rifiuto del trattamento, la seconda è che l’articolo 32 della sostituzione definisce con chiarezza questo nostro diritto e la terza la vediamo tra poco.

Dunque il medico, formalmente parlando, non ha aiutato Piergiorgio Welby a morire, nel senso che non ha compiuto un atto primariamente finalizzato alla morte della persona. Il medico ha solo dato seguito alla volontà espressa di rifiuto del trattamento.

A me da subito è sembrata una cosa molto ipocrita e falsa, ma devo dire che poi mi sono imposto di fare un altro ragionamento che è questo. È pur vero che oggi con questa situazione normativa non c’era un’altra maniera di venirne fuori e Piergiorgio Welby poteva trovare pace solo in quella maniera. Questo dato di realtà mi ha molto aiutato a rendermi conto che bisogna assolutamente non sputare sentenze su queste battaglie che sono troppo piene di dolore e vita per venire seppellite sotto scrollate di spalle e smorfie di disapprovazione.

Mi sono imposto di rispettare queste due storie e non lasciarmi prendere da quella sensazione di fastidio che mi porterebbe davvero a dire che se siamo a questo punto, se dobbiamo girare con i discorsi attorno alle cose, siamo davvero messi male.

Ma che siamo male è vero. Siamo messi male per vari motivi e uno di questi motivi è la legislazione, questo omicidio del consenziente che impedisce di fatto di aiutare le persone a morire anche se detta così è sbagliata. Non si tratta di aiutare le persone a morire, ma di lasciare che il medico lo possa fare quando e dove ritiene mentre oggi questo non è previsto dalla legge appunto. Tant’è che il medico è stato indagato.

Riguardo la terza cosa che prima ho saltato, si tratta di questo. Non è dimostrabile ovviamente, ma non occorre un genio per rendersi conto, che se la storia di Piergiorgio Welby è andata così è anche per l’aspetto mediatico. Assieme al caso di Eluana Englaro, la storia di Piergiorgio Welby ha sicuramente dominato i media e, almeno per i miei occhi, è chiaro che, se è prevalsa l’interpretazione dell’articolo 32 della costituzione, è anche per la pressione mediatica sulla vicenda. Ma è solo la mia opinione personale. Senza la pressione mediatica quelle due storie umane sarebbero state diverse con tutta probabilità.

Anche se l’espressione, i casi Englaro e Welby è brutta, resta il fatto che queste due storie hanno svolto una importante funzione proprio grazie al fatto che sono state cavalcate dai media e hanno permesso a tutti i noi di fare i conti con il problema. Il che non è poco.

Poi come vi dicevo io ho scoperto di aver capito pan per focaccia. Sono cresciuto e stato educato a pensare e credere che queste cose non si devono fare. Aiutare le persone a morire. La mia formazione cattolica non mi fa solo storcere il naso davanti alle due storie a cui ho fatto cenno. Mi corre un brivido lungo la schiena e si affollano pensieri nefasti e purulenti se ci penso. È omicidio cavolo?! Che schifo! Ma dove siamo arrivati? Ma come mai siamo ridotti così? Ma perché queste cose? Ma non si poteva fare meglio, di più?

Mentre la mia educazione cattolica mi porta a dire che Eluana Englaro e Piergiorgio Welby dovevano essere assistiti con amore e compassione, ma non aiutati ad andarsene, questo è quello che mi hanno insegnato a pensare e credere, i miei vent’anni come medico mi hanno insegnato che devo avere la forza e il coraggio di accompagnare le persone che aiuto nei loro percorsi accettando le loro scelte anche se non le condivido.

Non ho la minima idea di cosa avrei fatto allora se mi fossi trovato a gestire quei problemi. Quello che so è che se non avessi fatto un percorso personale e se non avessi imparato dalle persone che cerco di curare, la penserei esattamente come la pensavo allora. Penserei che l’eutanasia, cioè l’aiutare a morire le persone in determinate condizioni è un male assoluto.

Non so se la mia è stata una conversione, so solo quale pensiero è per me un faro che illumina le vita disperate che cerco di aiutare. Amore e verità. Questi sono i due principi che mi animano anche se so che detti così sembrano molto sesso degli angeli, parole campate in aria e senza riscontro.Eppure quelle due parole hanno molti riscontri e partire dal terribile titolo che Piergiorgio Welby ha voluto per il suo libro, Lasciatemi morire.

Alla fine ce l’ha fatta, è vero. Alla fine se ne è andato in pace, grazie ad un medico coraggioso e a tante persone che con lui hanno combattuto. Alla fine perfino la legge s’è mossa verso di lui perché nessuno mi toglie dalla testa che quell’assoluzione, quel far prevalere l’articolo 32 della Costituzione viene anche dalla volontà di dare un segno di dialogo e non so se anche di riconciliazione.

Tutti e due, Piergiorgio Welby e Eluana Englaro sono stati aiutati a morire, questo è quello che penso, credo e vedo anche se non lo possiamo dire perchè la legge in Italia non prevede che si possa farlo. Diciamo che è stato fatto nell’unica maniera possibile in Italia in quel momento e accettiamo che sia così. Certo un compromesso.

A me spaventa, se devo essere sincero, anche solo pensare che il nostro Parlamento possa normare l’eutanasia. Mi spaventa perché ho visto quello che hanno fatto sulla legge 40, fecondazione assistita ed è una cosa terribile, abominevole ma sempre e ancora l’unico compromesso possibile in quel momento.È stato esattamente a questo punto che mi sono trovato con una domanda in mano. Ma che cosa voglio io? E ho scoperto che appunto le idee chiare non sono di casa nemmeno in casa mia.

Non so quanti di voi hanno fatto l’esperienza di compilare il proprio testamento biologico o le dichiarazioni anticipate di trattamento. Io mi ci sono messo proprio per fare i conti con me stesso e sono miseramente crollato. Non so cosa rispondere. Roba da pazzi. Che cosa voglio che sia fatto di me se andrò in coma? Se avesse un arresto cardiaco vorrei essere rianimato?

Se cercare su Google Il bruco e la farfalla, trovate i moduli dei DAT, dichiarazione anticipata di trattamento. Ho provato a compilarli lì. Ma senza riuscirci appunto ed è stata questa esperienza che mi ha convinto che era il caso di mettere per scritto questa storia e condividerla.

Bruciato da questa terribile esperienza che è trovarsi davanti a queste domande, ho cercato rifugio nei miei riferimenti i miei porti sicuri per scoprire che uno dopo l’altro crollavano e ne rimaneva solo uno. Ho pensato ad Umberto Galimberti. Voi direte e che c’entra?

Non so quanti di voi abbiamo letto qualcosa di lui, tantissimi libri e tutti complicati, tutti per poche persone. Non sono certo il romanzi da ombrellone, anzi sono botte da orbi e una di queste sberle è la morte come rimozione. Secondo Umberto Galimberti abbiamo rimosso la morte. Intendiamoci non abbiamo un tasto delete, non siamo dei computer. La psicoanalisi del ‘900 ci ha insegnato che abbiamo dei meccanismi di difesa e la rimozione è uno di questi.

Abbiamo rimosso la morte perché ci da fastidio, perché è un elemento spiacevole e in distonia rispetto al coro unanime che vede la tecnologia come in grado di farci vivere più a lungo. È proprio questo il dettaglio che mi ha fatto riflettere. Non è un caso che siamo proprio noi a rimuovere la morte, non è un caso che lo faccia la società che ha per le mani la più grande tecnologia mai esistita e così la morte viene rimossa da quella società che salta a piè pari la riflessione sull’uso della tecnica.

Posso far restare una persona in coma per vent’anni? Ottimo. Posso dirti se tuo figlio avrà delle malattie genetiche? Ottimo. Posso dirti che la vita media si allunga? Ottimo. E via dicendo, la tecnologica ci permette di fare cose prima non possibili e noi le facciamo senza molto riflettere. Ecco io voglio riflettere, io voglio pensare a queste cose, io voglio dire con chiarezza che essere pro o contro l’eutanasia non significa nulla se non ci diciamo che cosa è l’eutanasia e non ce lo stiamo dicendo, non ne stiamo parlando.

Vi racconto la mia esperienza con i DAT. Per curiosità, interesse e sfida sono andato su Google e ho cercato Il bruco e la farfalla. Ci sono i moduli dei DAT, dichiarazione anticipata di trattamento e ne ho compilato uno o meglio, ci ho provato. Angoscia pura! Mamma mia che domande! Ma come si fa a rispondere?!

Sono andato a parlare con i colleghi della rianimazione per sentire la loro e mi sono rinfrescato le idee sul coma, ammutolito davanti alle storie che mi venivano raccontate. Ho visto lo stupore sui loro volti quando gli ho chiesto se sapevano cos’era il DAT o il testamento biologico e anche se mal comune non è mezzo gaudio, mi son detto che davvero navighiamo nell’ignoranza.

I loro racconti sono che i genitori, insomma i parenti, chiedono sempre che il loro caro viva ovviamente e anche quando loro provano a spiegare che intubandolo e trattandolo in un certo modo resterà per esempio stato vegetativo, preferiscono così.

Una mia amica mi raccontava delle sue visite ad una ragazza in stato vegetativo. La coccolano, cantano, insomma la amano a loro modo e con i loro pensieri ed è giusto che queste cose ci siano, sono belle, sono amore e verità. Queste stesse persone però faticano molto o proprio non riescono ad accettare il contrario e cioè di dare seguito alla volontà di una persona espressa in una DAT per esempio e aiutarla a morire o come facciamo noi in Italia, dare seguito alla sua volontà di rifiutare un trattamento.

In questo momento la situazione è davvero tragica. Noi stiamo obbligando persone che vivono in condizione estreme a continuare a vivere in quella condizione nonostante la loro volontà di non vivere più. Questa è la situazione attuale tagliata con l’accetta. Comunque siamo arrivati alla conclusione di questo breve racconto e l’ultimo argomento che vorrei toccare riguarda un aspetto a cui tengo e che non mi farà raccogliere applausi e men che meno consensi.

Proprio perché so per averlo sperimentato cosa significa redigere, scrivere una dichiarazione anticipata di trattamento o un testamento biologico, dico che bisogna che assieme ad una campagna informativa venga fatta anche un’azione culturale più forte.

I gruppi, le associazioni che portano avanti queste battaglie di civiltà si tengono sempre lontani dalla parola religione che vene fatta equivalere a Vaticano e tenuta distante come si fa con un cane in chiesa. Io invece penso e credo che dovremmo trovare il coraggio di dire che al di sotto di tutti questi discorsi c’è la domanda di senso della vita e della morte e che dobbiamo dare spazio anche a questo argomento.

Non dobbiamo infatti dimenticare un fatto importante che come medico io ho ben presente. Quando ci si trova a comunicare una diagnosi maligna alle persone, sappiamo per esperienza che uno degli elementi fondamentali è l’accoglienza che la comunità fa di queste persone in queste condizioni. Il punto dunque non è morire o non morire, avere una diagnosi maligna o non averla, ma far parte di una comunità che accoglie e aiuta o di una comunità che rifiuta e non aiuta.

Chi ha fatto gli studi alti come me in questi casi usa la parola cifra, per dire che l’accoglienza e il sostengo alla persona gravemente malata e in fin di vita è il segno, la cifra di quella comunità. Accogliere il diverso, accogliere l’estremo della comunità è la cifra, il segno di una comunità che sa porsi la domanda di senso della vita e della morte e sa anche cercare una risposta. Voi sarete d’accordo con me sul fatto che sono le singole persone a fare la differenza e se questa considerazione ci unisce proviamo a fare un ragionamento conclusivo.

Molti gruppi, anche singole persone sono impegnati in questo grandissimo e meraviglioso lavoro che è diffondere gli strumenti che permettono ad ognuno di esercitare i loro diritti. È possibile lavorare assieme per portare avanti in parallelo un lavoro culturale di fondo creando occasioni per discutere come comunità del senso della vita e della morte e il motivo di questa scelta deve essere la consapevolezza che così davvero si aiutano le persone nella verità e nell’amore.