BASTA!

Elisabetta Ribet
www.riforma.it

Basta. Nemmeno gridato, anzi. Un sussurro. Basta. Nel mezzo del frastuono dell’ansia da prestazione, della rabbiosa violenta e subdola lotta per l’affermazione di sé e soltanto sé. Tra i vortici del presenzialismo, dei partiti-del-fare che mai sono stati così efficienti nel distruggere e nel dilaniare. Basta.

Può un «basta» essere parola resiliente?

C’è chi la chiama «società della prestazione», quella in cui siamo scivolati costruendo un mondo migliore, e con quest’analisi interagisce la mia riflessione. Una società scintillante, tutta positività, brillantezza e Grande Bellezza. Una società che affronta il conflitto banalizzandolo, trasformandolo in moda, in trend, in qualcosa di talmente presente, ripetuto e quotidiano da non scandalizzare più. Dacci oggi il nostro omicidio quotidiano, la nostra autopsia in prima serata. Dacci di trasformare l’«altro» – che suona aggressivo – in «diverso» – che è molto più politicamente corretto e buonista, meno estraneo e quindi inoffensivo: l’estraneo cede il passo all’esotico, visitato dal turista, scrive lapidario Byung-Chul Han. Fine del conflitto. Il filosofo Jean Baudrillard parla della «violenza del dolce sterminio, una violenza genetica e comunicazionale, una violenza del consenso… una violenza virale nel senso che non opera frontalmente ma per contiguità, per contagio, per reazione a catena», alla velocità media di un qualunque social network.

La resilienza, nel mondo contemporaneo, scivola fin troppo spesso nella banalizzazione, nel qualunquismo. Ma essere persone resilienti non significa «farsi piacere» le situazioni. Non significa portar pazienza. Il falso consolatore che dice alla donna vittima di violenza «abbi pazienza, perdona, sarai felice nel Regno di Dio perché il Signore è con le vittime» è un millantatore della Parola della grazia. La pratica della resilienza non è «càlati giunco, che passa la piena», come dice il proverbio siciliano. A dire che, come tante canne di acquitrino, la nostra vocazione sta nel piegare il collo quando passa la corrente, per poi risollevarlo a intemperie terminata.

La società della prestazione sbandiera il «verbo modale positivo» per eccellenza: poter fare. Al singolare, ma anche al plurale. Yes, we can. La narrativa insegna che ogni tragedia nasce dal fraintendimento: «Tu puoi farlo», «Noi possiamo farlo». Quello che era nato come rivendicazione legittima dell’esistenza, del diritto, dell’autodeterminazione, scivola inesorabilmente nella violenza, nel branco, nel parossismo: tutto è possibile, e di conseguenza nessuna azione ha più valore.

E allora sì che «basta» è resiliente. Allora sì, chi si ferma è salvato.

Peccato: come al solito, nel pianeta Occidente i primi ad accorgersi di questa dinamica e a cavalcarla sono mercanti. Ed ecco il fiorire di wellness center, beauty farm, spa. Con buona pace per chi ancora pensa che «spa» (termine che indica tutte quelle aziende che offrono servizi di ogni genere riguardanti la cura del corpo, ndr) stia per «società per azioni». La cosa importante, che nessuno vuol perdersi, è quell’angoletto di paradiso accessibile: una bella manicure, due ore in una sauna, un bel fine settimana tra sport, performance e scintillii di vita sana. O la crociera, per sentirsi personaggi da film. Posso fare ogni cosa, devo fare ogni cosa. E quando mi si chiede «come stai», devo produrre un elenco il più lungo possibile di cose fatte, la check-list più nutrita e varia del mio giro di amici iperattivi e iperimpegnati. Sto bene solo se ho fatto un sacco di cose molto sane, molto «in», molto da performance. Sto bene se non mi annoio. Se sono attivo, presente, su quanti più fronti possibili: lo si chiama multitasking, ed è il segnale che la persona è (convinta di essere) sana. Le malattie della società della prestazione? Tutte psichiche, guarda caso. Nevrosi, burn out, disturbi dell’attenzione, deliri di onnipotenza.

Ecco allora la necessità di riuscire a dire e a vivere un «basta» che ci faccia seriamente bene. La discriminante sta nella distinzione radicale tra «distrarsi» e «dissociarsi». Tra il break (perché «pausa» non suona abbastanza bene) e l’interruzione. Il «basta» della resilienza è il non-fare, lo shabbat, la ricerca della contemplazione, dello sguardo che ricomincia a vedere. È il «basta» di chi si rende conto che l’aumento costante e mai finito, mai soddisfatto, di prestazione provoca «l’infarto dell’anima», il «basta» detto nel momento in cui realizziamo che «vivere» significa ben altro rispetto a ciò che stiamo facendo – o piuttosto di ciò che lasciamo che ci accada – e ci convertiamo, una volta ancora. In questo senso, resilienza non è solo quella capacità di resistenza alla distruzione, ma anche di costruzione di un’esistenza e di un futuro. Solo scegliendo di riappropriarsi degli spazi della stanchezza, del riposo, della contemplazione, le persone credenti – singolarmente e in quanto chiese – possono sperare non di sopravvivere portando pazienza, ma di vivere e di dar senso alla loro vita e alla loro testimonianza.

Come insegna la musica: senza le pause i suoni non si trasmettono come si deve, e la melodia intera ne è penalizzata. Friedrich Nietzsche (Umano, troppo umano) diceva: gli uomini attivi rotolano, come rotola la pietra, in conformità alla brutalità della meccanica.

C’è un tempo per ogni cosa sotto il cielo: nel nostro tempo, riuscire a trovare il modo e il coraggio di fermarci, di riflettere su ciò che siamo diventati e su ciò che possiamo ancora diventare significa non ridurci alla meccanica e compiere un gesto che ci aiuta a resistere alla distruzione.

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Che cosa significa essere resiliente per una comunità di fede?<7h3>

Max Cambellotti
www.riforma.it

Assai meno illustre del celebre pendolo di Foucault e, che io sappia, mai assurto agli onori della narrativa, il pendolo di Charpy è un dispositivo impiegato nelle prove di resistenza dei materiali da costruzione, in particolare dei metalli destinati a costituire parti meccaniche sotto sforzo. Grazie a questo strumento è possibile risalire con precisione a quella caratteristica di tenacità del materiale dalla quale dipende la resistenza agli urti e che, tecnicamente, è definita «resilienza».

Che tempra! Un aspetto affascinante del linguaggio è costituito dalla facilità con la quale i termini vengono presi in prestito da un contesto a un altro, in genere arricchendosi di portata semantica e a volte correndo qualche rischio di perdere di vista il significato originario. Chi è stato «forgiato» con nervi «d’acciaio», gode di una salute «di ferro» e ha un carattere ben «temprato», è descritto ricorrendo a termini che evocano la consistenza e l’incorruttibilità propria di certa materia inanimata, esorbitanti dai limiti propri dell’essere umano. E ancora: una persona molto generosa avrà un cuore «d’oro» e un individuo sprezzante e svergognato una faccia «di bronzo». Ben lungi dal giocare con le parole troviamo, nell’ampliamento di significati, una delle ricchezze derivabili dall’interdisciplinarietà: è indubbia l’efficacia immaginifica di tali trasposizioni, non a caso il testo biblico ne è una miniera (!), ricco qual è di metafore e similitudini, e anche Lutero descrive la potenza salvifica di Dio come «una forte rocca». D’altra parte è scritto che i monti esultano e le stelle del mattino cantano…

«Chi si confida nel Signore… non potrà mai confuso andar». Con queste parole inizia il famoso inno numero 100 della vecchia edizione dell’Innario cristiano; lo imparai nei primi anni di scuola domenicale, melodia facilmente cantabile anche per i bambini (da un corale di Mendelssohn!). Ma qualche anno dopo, benché in cuor mio serbassi i saggi consigli dell’inno 100, cominciai ad andare confuso proprio a causa di questo testo, precisamente dell’ultima frase che afferma oscuramente: «Per i diletti del Signor la prova è segno del Suo amor!». La frase iniziale era consolatoria: era una buona notizia sapere che la fede in Dio e una risorsa contro le inevitabili avversità: accettabile anche il proponimento, all’inizio della seconda strofa, di saper fare fronte alle traversie dell’esistenza; ma convincermi che all’origine dei nostri guai si potesse scorgere l’amore di Dio… francamente era troppo!

Individui e comunità. Nel riconsiderare l’itinerario del termine resilienza e ripensando quindi alla sua derivazione, l’uso di questa parola indicherebbe, a rigore, non tanto la capacità di reagire positivamente a una situazione di disagio e di sofferenza accumulata nel tempo ma piuttosto a quella provocata dagli «urti» della vita, una sciagura inaspettata, un’aggressione improvvisa, l’evento traumatico che ci coglie come un fulmine a ciel sereno.

La differenza non è sottile: una condizione negativa che, per quanto gravosa, può però rientrare nelle nostre capacità di assimilazione, lascia aperta la possibilità di maturare tutte quelle risorse, tipiche degli esseri sociali quali siamo: la speranza innanzitutto, con la quale possiamo credere che qualcosa potrà cambiare; il raziocinio, per prende re coscienza di quel che si potrà fare; il coraggio di poter costruire rapporti e comunicare ad altri la nostra situazione; e tutto questo sarà amplificato e arricchito dal senso di appartenenza a una comunità, che ci consente di mettere in comune energie, esperienze, sensazioni, progetti e problemi, ovvero i fardelli pesanti e la forza per portarli o, se possibile, scrollarseli di dosso.

Viceversa l’urto improvviso ci coglie impreparati, ci lascia storditi e disarmati, soli con il nostro dolore; una condizione che ci inibisce a varcare il nostro stesso confine e rischia di esaurirsi con noi. Ognuno può pregare per invocare l’aiuto di Dio, ma sapere che la stessa preghiera è sulla bocca e nel cuore di tutta una comunità costituisce di per sé un ulteriore conforto. La possibilità di essere resilienti presuppone allora preparazione, volontà e un minimo di terreno intorno su cui seminare qualcosa. Ma oggi, tra i segnali che scorgiamo, si prefigura un orizzonte che appare spesso ostile ai progetti di crescita collettiva: una rinuncia in nome di un libero ma crudele dispiegarsi di forze egocentrate e contrapposte, una spregiudicata lotta di individui contro individui, di squilibri economici contro equilibri naturali, in un contesto di svalutazione di rapporti e conseguente polverizzazione delle esperienze, sempre meno capaci di fare causa comune.

Il rischio è che in questa condizione di frantumazione dei rapporti umani difficilmente saremo in grado di trarre vantaggio dalle esperienze negative… e più probabilmente le avversità rischieranno di assumere le stesse conseguenze di urti violenti e imprevedibili, sterili di possibili effetti positivi. Saranno quindi ben attese parole di fede, speranza e amore destinate a ricercare e ritrovare la pienezza della comunità umana prima ancora che sia necessario ricorrervi per rincuorare e risollevare singoli destini individuali. Riusciremo a uscire migliori dalle esperienze negative solo se non saremo già isolati, sminuiti e avviliti prima ancora di doverle affrontare.

Le prove, nel linguaggio dell’inno 100, potranno anche essere viste come una benedizione a condizione che ci sia dato di imparare a reinventare l’avvenire, di uscirne con nuova consapevolezza sulla nostra fede, sui nostri limiti e sulle nostre possibilità, e che questa consapevolezza non si esaurisca con noi ma costituisca una testimonianza per altri; ovvero se, voltandoci indietro, potremo poi raccontare ad altri che quegli eventi che ci hanno sconvolto l’orizzonte ci hanno costretto a cercare altre strade e l’aver cambiato strada ci ha portati più lontano. Noi oggi siamo ancora debitori del racconto di quell’avventuroso cammino di quarant’anni nel deserto, e poi di tanti altri che via via affrontarono i secoli difficili di questo tempo, affinché ancora oggi potessimo ascoltare il racconto di Chi, con la sua prova, continua a dare senso e speranza al nostro camminare.