Lo zar Putin alla conquista dell’Europa

Maurizio Maggi e Luca Piana
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Lo chiamano Darth Vader, come il cattivone di “Guerre Stellari”, perché rappresenta la forza che Vladimir Putin ha scatenato per inginocchiare il mondo ai suoi piedi. Chi frequentava Mosca prima che fosse abbattuto il muro di Berlino, racconta però che Igor Sechin, all’epoca al servizio del Kgb in Africa, avesse un grado direttivo più importante di quello del presidente russo, impegnato in Germania Est.

Solo la discesa in politica dello zar del Cremlino, all’inizio degli anni Novanta, ha ribaltato le gerarchie. Putin comanda con pugno di ferro su Russia e dintorni, a cominciare dalla Crimea, Sechin, numero uno del colosso petrolifero statale Rosneft, si spinge ai quattro angoli del pianeta e compra quel che può. Soltanto nelle ultime settimane sono caduti nella sua rete la divisione brokeraggio prodotti petroliferi della banca d’affari Morgan Stanley, un’area di esplorazione per la ricerca di idrocarburi nella foresta amazzonica, nel bacino del fiume Solimões, l’aeroporto della capitale kirghiza Bishkek e, per finire, un pezzo da novanta dell’industria italiana: la Pirelli.

Lunedì 17 marzo Sechin ha annunciato di aver sborsato 500 milioni di euro per diventare il maggior azionista dell’azienda degli pneumatici, superando Marco Tronchetti Provera. Ormai l’elenco di società italiane di un certo peso finite in mani russe comincia a farsi serio, anche se il grande pubblico lega l’espansionismo degli oligarchi allo shopping delle megaville sui laghi, in Costa Smeralda o in Versilia. E a pregare perché si faccia sotto un russo granoso sono spesso i tifosi di calcio. Che per la loro squadra sognano i miliardi di Roman Abramovich, che ha fatto grande il Chelsea di Londra (e che, peraltro, ha acquistato Villa Bober a Desenzano e una seconda casa da 18 milioni a Sabaudia), o di Dmitry Rybolovlev, che ha rilevato il Monaco nella serie B francese e l’estate scorsa ha speso 60 milioni di euro solo per il fuoriclasse colombiano Radamel Falcao.

Dalle nostre parti, gli oligarchi non hanno ancora comprato nulla di così mediaticamente glamour, ma il loro pressing si fa incalzante. «Sono investitori industriali affidabili, interessati alla tecnologia e alla manodopera qualificata, due asset di cui l’Italia abbonda», sostiene lo storico dell’economia Giulio Sapelli. «Il loro è un interesse strategico. E credo siano potenziali acquirenti interessanti e interessati. Quindi, piuttosto che “Mamma li russi”, direi “Viva li russi”», chiosa con una battuta il docente della Statale di Milano.

Fatto sta che ormai permeano il sistema industriale e delle relazioni economiche di tutta Europa. Hanno colonizzato Londra e le loro società figurano fra quelle che pesano maggiormente sulle Borse internazionali, Wall Street compresa. Così che, quando il governo americano e l’Unione europea hanno compilato i rispettivi elenchi degli uomini di Putin a cui verrà impedito di volare all’estero, si sono ben guardati da infilarci gli oligarchi che maneggiano le leve del potere economico del Cremlino. Nella lista nera della Casa Bianca, la più dura, figurano politici come la presidente della Camera alta del Parlamento, Valentina Matviyenco, o il vice-premier Dimitri Rogozin. Ma nessuno dei manager e imprenditori che, in questi anni, hanno comprato a peso d’oro aziende occidentali.

Sechin, 53 anni, è uno dei più attivi. Un anno fa aveva sborsato 274 milioni per entrare nella Saras dei Moratti, rilevando il 21 per cento dell’azienda che gestisce la raffineria di Sarroch, in Sardegna, l’impianto a cui la famiglia milanese deve la sua fortuna. Una fetta di 178 milioni è andata ai fratelli Angelo e Massimo, il resto ai soci di minoranza. Curiosa coincidenza: in Borsa, dove Saras non ha mai fatto faville, in febbraio il titolo s’è messo a volare, guadagnando il 42 per cento in un mese. Il picco è stato raggiunto proprio nei giorni in cui Putin ha schierato le truppe ai confini con l’Ucraina.

Come affari e politica si intreccino lo conferma anche il caso di Mikhail Fridman, miliardario nato in Ucraina ma di nazionalità russa, uno dei fedelissimi di Putin, nonostante abbia accumulato le prime ricchezze ai tempi di Boris Eltsin. Domenica 16 marzo, proprio mentre la Crimea votava per mollare Kiev, con un assegno di 5,1 miliardi di euro si è impossessato delle attività petrolifere della RWE, secondo operatore del gas in Germania. Un blitz che ha ricordato ai tedeschi come anche la loro economia, votata all’export più spinto e intrecciata con tutta l’Europa orientale, veda nella Russia una risorsa. A dispetto delle beghe che ne possono nascere, come ricorda l’avventura italiana dello stesso Fridman e del suo Alfa Group, proprietario del colosso telefonico VimpelCom, quotato al Nasdaq. Questa la storia: nel 2011, per cattturare la compagnia italiana Wind, Fridman offre 6,5 miliardi di dollari all’allora proprietario, l’egiziano Naguib Sawiris, felicissimo di accettare. I soci internazionali di Vimpelcom, a cominciare dalla norvegese Telenor, insorgono, ritenendo l’offerta sballata, e riescono a coagulare contro l’operazione la maggioranza degli azionisti.

Una barricata insufficiente: Alfa Group si era garantita un pacchetto di titoli dotati di maggiori diritti di voto, e grazie a quelli vince la partita. Risultato: negli ultimi tre anni, dove il Nasdaq non ha mai smesso di galoppare, l’azione VimpelCom ha perso un terzo del proprio valore.

Se c’è una materia che scalda il cuore dell’orso russo, è però l’energia. E in particolare il gas che, via Ucraina, alimenta centrali elettriche, caloriferi e fornelli delle case italiane. Nel 2012, ultimo dato disponibile, l’Italia appariva più che mai un Paese che, per vivere, non può staccarsi dal tubo che sbuca a Tarvisio, in Friuli: il 35 per cento del gas importato arriva da lì, e il mercato interno dipende per il 90 per cento dalle forniture dall’estero. L’Italia, insomma, non può fare a meno si staccarsi dalla canna del gas moscovita.

Molti analisti, tuttavia, sostengono che la situazione non sia così sbilanciata. Per vari motivi. Primo punto: Mosca ha bisogno del gettito fiscale e dei dividendi che garantisce il colosso Gazprom, il monopolista di Stato guidato da Alexey Miller, un altro dei tentacoli di Putin. Secondo: i quattro quinti delle esportazioni della Russia dipendono dagli idrocarburi. Terzo: nel 2013, complici la crisi e i pochi giorni di freddo intenso, i consumi di metano in Italia sono diminuiti ancora, tornando ai livelli del 2002. E, come rivela il bilancio dell’Eni relativo al primo semestre del 2013, la compagnia guidata da Paolo Scaroni ha aumentato gli approvvigionamenti esteri solo dalla Russia (+69,1 per cento), mentre ha ridotto quelli libici (-3,4 per cento), norvegesi (-8,5 per cento) e algerini (-43,5 per cento). Fare a meno, almeno temporaneamente, delle forniture russe non sarebbe dunque impossibile.

I problemi, ovviamente, sono di prospettiva. E riguardano anche gli interessi che i boss del gas hanno intrecciato con le aziende italiane. In Russia, l’Enel ha quattro centrali termoelettriche che si riforniscono dall’onnipresente Gazprom e sta installando una rete di contatori nella provincia di Belgrod, proprio ai confini con l’Ucraina. Mentre l’Eni, oltre a una serie di accordi con Rosneft nel campo delle esplorazioni nel mare di Barents e nel Mar Nero (per i quali «l’Eni finanzierà interamente i costi dell’esplorazione geologica e rimborserà i costi storici», come precisa il colosso moscovita), è impegnata nel mega-progetto di un gasdotto sotto il Mar Nero, che dovrebbe collegare la Russia all’Europa senza passare per l’Ucraina. Se la tensione scatenata dall’annessione della Crimea sale, possono esserci ricadute. L’operazione miliardaria deve essere interamente finanziata dalle banche, che potrebbero non volersi esporre se alle prime sanzioni rifilate all’entourage putiniano ne seguissero di più incisive. Scaroni, per inciso, è stato uno dei manager più accorati nel sottolineare i rischi che l’Europa corre in caso di escalation.

Finora, quando gli oligarchi sono sbarcati in Italia col portafoglio gonfio, il venditore non ha potuto lamentarsi. Il caso di Genova è da manuale. La Erg dei Garrone, proprietari della Sampdoria, dalla Lukoil di Mosca, guidata da Vagit Alekperov (nato a Baku, in Azerbaijan), tra il 2008 e il 2013 ha incassato 2,6 miliardi di euro per la raffineria Isab di Priolo, in provincia di Siracusa. Una vendita a rate, che ha portato la Lukoil al 100 per cento nel dicembre scorso. E non è finita, visto che anche Isab Energy e Isab Energy Services, che si occupano dell’energia prodotta con i residui della raffinazione, passerano entro giugno ai russi, pronti a sganciare altri 20 milioni. Vittorio Malacalza e i suoi figli Davide e Mattia, tifosi del Genoa e spesso indicati come potenziali acquirenti del club, hanno invece portato a casa oltre un miliardo vendendo un’acciaieria friulana a Rinat Achmetov, ucraino dal cuore russo, che a Londra possiede una delle più costose case di tutta la Gran Bretagna, una palazzina a tre piani da 136 milioni di sterline su Hyde Park. Era suo l’aereo con cui il premier ucraino Viktor Yanukovich, che stava per essere deposto, è scappato a Mosca quando a Kiev la rivolta stava vincendo.

Ci tengono, gli oligarchi dell’ex Urss, ad avere un aereo. Infinitamente ricchi, protetti dalla rete di alleanze che hanno costruito all’estero, sembrano in una botte di ferro. Ma se le cose andassero male, dicono a Mosca, a Vnukovo 2, l’aeroporto privato della capitale, c’è sempre un jet pronto a decollare. Facendo attenzione a non finire come Dmitry Firtash, l’ucraino filo-russo – in stretti rapporti con Gazprom – che poche settimane fa aveva comprato una controllata di Banca Intesa a Kiev. E che, a inizio marzo, è stato arrestato a Vienna, su mandato dell’americana Fbi.