Palestina. I numeri del processo di pace

Near East News Agency
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Continuano gli sforzi internazionali per tenere in vita artificialmente quest’ultimo round di negoziati ormai moribondi. Continuano, nonostante l’inconciliabilità delle posizioni e l’assurdità delle richieste che entrambe le parti dichiarano di ricevere. Ora si parla di prolungare il negoziato da sei mesi a un anno, con Israele che minaccia di far saltare l’accordo siglato a luglio per la liberazione dell’ultima mandata di prigionieri palestinesi se Abu Mazen si rifiutasse di trascinarsi ulteriormente negli infruttuosi colloqui.

Tra dubbi e sfiducia, l’unico dato certo è che se il negoziato continuerà, lo farà sulla pelle dei palestinesi. In un rapporto diffuso martedì scorso dall’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, si snocciolano i numeri del processo di pace: 56 palestinesi uccisi e 897 feriti dall’inizio dei colloqui nel luglio scorso. L’ultimo a morire, non ancora conteggiato nelle griglie ufficiali, è stato ieri Yousef Sami Shawamreh, 15 anni, colpito alla schiena dai militari israeliani nel villaggio di Deir al-Asal al-Tahta, a 15 km a sud di Hebron, mentre raccoglieva della gundelia, un’erba usata per cucinare. Secondo l’esercito israeliano, invece, stava “cercando di danneggiare la barriera” di separazione assieme ai suoi amici.

Già lo scorso mese su Tel Aviv erano piovute le critiche delle organizzazioni internazionali, in primis Amnesty International, che accusava i soldati israeliani di avere il “grilletto facile” e di uccidere senza alcun ritegno persone che non rappresentavano “alcuna minaccia”: a questo le autorità israeliane avevano risposto con i numeri del “forte aumento degli attacchi violenti e terroristici palestinesi”, lamentando 132 israeliani (coloni illegali) feriti nel 2013.

Feriti che, a quanto pare, necessiterebbero di protezione: come la scorta fornita dai militari israeliani ai coloni per le loro scorribande nei villaggi palestinesi, documentate continuamente da gruppi di informazione israeliani e palestinesi per i diritti umani. O come le incursioni, sempre più frequenti, dei coloni nei luoghi sacri sparsi in tutti i Territori occupati, siano essi la moschea di al-Aqsa di Gerusalemme sacra per i musulmani o la tomba di Giuseppe nel centro del campo profughi di Balata, a Nablus, dove devoti israeliani effettuano il pellegrinaggio una notte al mese protetti da cordoni di militari.

Gli attacchi dei coloni negli otto mesi passati dall’inizio dei negoziati hanno toccato quota 500 in Cisgiordania e a Gerusalemme est, con danni ai campi coltivati e alle abitazioni, oltre agli atti di vandalismo verso chiese, moschee e altri edifici pubblici e privati. Assieme a questo, è stato registrato un aumento vertiginoso dei raid dell’esercito israeliano nei Territori occupati, con 3.676 incursioni nelle zone sotto esclusivo controllo palestinese (area A) e più di 3 mila arresti, oltre a decine di raid dell’aviazione su Gaza e centinaia di episodi di violenza da parte dell’esercito israeliano nella Striscia – dall’allontanamento dei pescatori e dei contadini, al fuoco sulle manifestazioni settimanali dei giovani gazawi al confine e agli omicidi mirati. E se ciò non bastasse, dall’inizio dei negoziati Israele ha annunciato e cominciato la costruzione di migliaia di nuove unità abitative nelle colonie: 10.509 per l’esattezza, mentre in otto mesi sono state demolite quasi 150 abitazioni palestinesi per far loro posto.

“Violazioni israeliane del diritto internazionale – si legge nel comunicato diffuso dall’Olp – e dei diritti umani hanno continuato senza sosta. Piuttosto che dimostrare buona volontà nel corso di questo periodo, Israele ha fatto il contrario, con l’obiettivo di deragliare gli sforzi di pace statunitensi guidati dal Segretario di Stato Kerry”. In ultimo, i numeri dei prigionieri palestinesi da liberare secondo l’accordo siglato tra Israele e Anp all’inizio dei negoziati: 104, di cui 78 già rilasciati in tre differenti tranches. Ora Israele minaccia di non liberare gli ultimi 30 il 29 marzo, ma di trattenerli perché “i palestinesi – ha affermato il ministro dell’economia Naftali Bennet, politico estremista legato ai movimenti dei coloni – non hanno fatto alcun passo avanti nel processo di pace promosso dagli Stati Uniti”.

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Obama le pressioni le fa sui palestinesi

Michele Giorgio
Near Neast News Agency

In un clima rovente, con migliaia di palestinesi in strada a Ramallah e in altre città della Cisgiordania a scandire slogan contro cedimenti alle pressioni americane e israeliane, Barack Obama ha ricevuto alla Casa Bianca il leader dell’Olp e dell’Anp Abu Mazen. Un Obama indignato per le “violazioni” russe del diritto internazionale in Ucraina e Crimea, non si è mostrato altrettanto indignato per l’occupazione israeliana di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est che dura da quasi 47 anni.

Il presidente Usa ha detto ad Abu Mazen che i palestinesi devono «correre dei rischi per la pace». Come se per i palestinesi non fosse già rischiosa e insidiosa la situazione in cui vivono da decenni, con l’espansione delle colonie israeliane, le confische di terre, i bombardamenti su Gaza, i posti di blocco, il Muro, la paralisi dell’economia e via dicendo. Sulla necessità di prendere «decisioni politiche forti» ha insistito anche il Segretario di stato americano John Kerry.

Abu Mazen, sotto pressione, ha replicato aggrappandosi all’ancora di salvezza della liberazione dei prigionieri politici. «Israele, se vuole mostrarsi uno Stato serio, deve mantenere l’impegno di liberare i prigionieri», ha detto con la speranza di inviare un messaggio di fermezza alla popolazione palestinese che attende la liberazione da parte di Israele del quarto scaglione di una trentina di detenuti politici. Abu Mazen si gioca una fetta di reputazione sul rispetto di Netanyahu dei punti dell’intesa mediata da John Kerry lo scorso luglio per il rilancio delle trattative bilaterali che si concluderanno il prossimo 29 aprile. Per il presidente dell’Anp la scarcerazione dei prigionieri è fondamentale. Ma il governo Netanyahu non è intenzionato a concedergli questo successo.

Nei giorni scorsi un ministro israeliano,Yaacov Perry, ha messo in chiaro che in caso di interruzione delle trattative non ci sarà la liberazione di detenuti. Non solo, Netanyahu e i suoi ministri non sembrano avere alcuna voglia di rimandare a casa, così come era stato stabilito, i prigionieri politici palestinesi con cittadinanza israeliana. E un ministro, Israel Katz, ha espresso la totale opposizione all’eventuale liberazione del popolare leader del movimento Fatah, Marwan Barghouti (in carcere in Israele dal 2002 dove sconta una condanna a 5 ergastoli), per facilitare la prosecuzione delle trattative. Secondo un giornale arabo, Abu Mazen per rimanere al tavolo del negoziato dopo il 29 aprile vorrebbe la scarcerazione di Baghouti e del leader del Fronte Popolare Ahmed Saadat. «Se (Abu Mazen) la chiederà, dobbiamo rispondere ‘No’», ha scritto Katz nella propria pagina Facebook. «Barghouti deve marcire in carcere fino al giorno in cui esalerà l’ultimo respiro», ha aggiunto il ministro.

Una rigidità che non sorprende. In questi ultimi anni Netanyahu ha fatto scarcerare, nel quadro di scambi di detenuti con Hamas e di intese con Abu Mazen, palestinesi condannati a numerosi ergastoli per attentati e altri fatti di sangue ma ha sempre respinto la possibilità di rilasciare Barghouti e Saadat. Per chi vive nei Territori il rifiuto israeliano vuole impedire che due leader stimati e popolari possano far ritorno sulla scena politica, contribuendo a ridare fiato alle speranze di chi vive sotto occupazione. «Abu Mazen deve chiedere che Saadat e Barghouti siano liberati subito, se Israele non accetta allora il presidente deve abbandonare i negoziati», ripetevano ieri alcuni manifestanti a Ramallah.

Le possibilità che il negoziato faccia passi in avanti sono vicine allo zero. Netanyahu continua a chiedere che i palestinesi riconoscano Israele come Stato del popolo ebraico per poter andare avanti. E non farà marcia indietro nonostante il s\ecco rifiuto di Abu Mazen che teme le ricadute di tale riconoscimento per i diritti dei profughi e per lo status dei palestinesi cittadini di Israele.

A questo punto le due parti, per non assumersi la responsabilità del fallimento dell’iniziativa lanciata da John Kerry, con ogni probabilità accetteranno di estendere le trattative fino a dicembre. Un prendere tempo che sposta solo in avanti il momento del tracollo dell’ennesima mediazione americana.