Servono le «quote rosa»?

Maria Bonafede
www.riforma.it

Avevo seguito la vicenda della legge elettorale con un po’ di distrazione, un po’ disamorata e senza la passione di un tempo per le cose della politica, quando è comparso il dibattito dei giorni scorsi e la questione degli emendamenti proposti da un’ampia rappresentanza di deputate e deputati per favorire la presenza delle donne nelle liste. Quando mi sono messa a cercare cosa si diceva, ho scoperto che gli emendamenti erano già stati bocciati. La questione proposta dagli emendamenti era quella di avere delle capoliste e quella di non avere consecutivamente più di un nome dello stesso genere in modo da favorire l’elezione di donne.

Mi sono chiesta cosa ne pensavo io, dal momento che da un lato mi sentivo interpellata dalla questione ma dall’altro ero sempre andata orgogliosa – e lo sono ancora – dell’Articolo 3 della nostra Costituzione: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». Inoltre ho la radicata convinzione che il valore delle persone risiede nella loro testa, nel loro cuore, nel loro pensiero, nelle scelte che fanno e non nel loro genere. Quindi ho provato sentimenti alterni nei confronti di quel dibattito e ho dovuto riconoscere in me delle resistenze.

Mentre riflettevo però mi sono ricordata due cose, una lontana e una vicina.

Negli anni ‘80 e ’90 del secolo scorso negli Usa furono presi dei provvedimenti, potremmo chiamarli «decreti legge», che imposero la quota del 10% di neri nelle liste elettorali. Senza quei provvedimenti i neri non sarebbero mai stati eletti e invece lo furono ed ebbero l’opportunità di dimostrare il loro valore. Probabilmente oggi non servirebbero più perché gli elettori hanno capito che la gente vale per quello che pensa e per quello che fa e non per il colore della pelle, ma è stato necessario «costringerli», gli elettori e le elettrici, per convincerli.

Trent’anni fa, quando ho iniziato il mio ministero pastorale essere una pastora era molto meno «normale» di oggi, si doveva sempre dimostrare che si era all’altezza, che si era preparate, che si era capaci come i colleghi. Un collega più grande di me, il giorno in cui mi sono candidata per servire una chiesa autonoma, mi ha detto: «Stai pur certa che le chiese autonome, che possono scegliersi il pastore, non voteranno mai una donna». Si sbagliava. Fui eletta, era il 1990, e nel 2005 sono stata eletta moderatora della Tavola valdese. Lo dico con riconoscenza, non con orgoglio. Oggi non è più così, le chiese hanno fatto molta strada su questi temi e le donne che hanno vissuto finalmente la parità e le stesse opportunità, hanno scoperto la differenza di genere ed hanno fatto un altro pezzo di strada. Le donne siedono nei nostri consigli di chiesa, lavorano, pensano e scrivono e servono le chiese e l’Evangelo con gioia e competenza. Ma quanta fatica per arrivare qui. Qualche neo però rimane.

Due anni fa, quando si è trattato di eleggere insieme al moderatore due nuovi membri della Tavola valdese, qualcuno al Sinodo ha fatto presente che, terminando io, di donna nell’esecutivo delle chiese valdesi e metodiste ne rimaneva una e che sarebbe stato necessario non scendere al di sotto del modesto numero di due su sette. Quella che rimaneva era la vice-moderatore, per carità, ma sempre una era. Più d’uno replicò che quello non era un argomento. Che ci voglia un emendamento anche al nostro Sinodo?