Vivere senza F35

Gianluca Di Feo
http://espresso.repubblica.it/

Per fermare aerei invisibili ci vogliono armi altrettanto invisibili, che li blocchino senza innescare scontri internazionali e faide politiche. Gli F-35 finora si sono dimostrati estremamente abili nello sfuggire ai tagli. E abbatterli non è per niente facile. Ora governo e parlamento hanno aperto il fuoco, uniti nell’indicarli come il bersaglio privilegiato per ottenere risparmi a nove cifre.

Dal premier Matteo Renzi al ministro Roberta Pinotti, dal Pd al partito alfaniano, tutti sono pronti a metterne il discussione il numero: una santa alleanza che accomuna pacifismo cattolico e di sinistra, Roberto Formigoni e Nichi Vendola, nella speranza di trovare fondi per dare ossigeno a un Paese stremato dalla crisi economica. Il supercaccia però gode di protezioni altissime: uno scudo dove si fondono la tutela degli accordi atlantici, molto sentita dal Quirinale, e gli interessi assortiti di una maggioranza silenziosa che raduna squadroni a destra e a manca. Ma la rinnovata spending review di Carlo Cottarelli pretende sacrifici pesanti dalla Difesa: 4.300 milioni da racimolare entro il 2016.

Ed è inevitabile che pure agli F-35 vengano amputate le ali. elogio della lentezza I vertici militari si stanno rassegnando a questa prospettiva. Più duro invece è fare i conti con gli Stati Uniti: una retromarcia italiana sarebbe un colpo d’immagine per l’aereo più costoso della storia e farebbe ulteriormente lievitare il prezzo di ogni esemplare. Palazzo Chigi pare intenzionato a intervenire in fretta, evitando però di suscitare l’irritazione della Casa Bianca, pessimo viatico per il cammino dell’esecutivo.

La soluzione per ammorbidire gli americani e risparmiare subito passa attraverso una manovra evasiva: non si tocca per ora il numero complessivo di 90 caccia, ma si adotta una dilazione dello shopping che verrebbe prolungato nel tempo. L’Italia infatti non è vincolata da un contratto globale: gli acquisti vengono firmati di anno in anno. Finora sono stati comprati sei F-35 e la tabella di marcia prevedeva di arrivare a una quarantina entro il 2019. Adesso lo Stato maggiore – come anticipato dalla rivista online “Analisi Difesa” – sta rallentando i piani: questa lista della spesa è già stata accorciata a 29 jet. Il beneficio sui bilanci pubblici sarebbe significativo: si possono mettere da parte oltre due miliardi. E rinviando tre degli otto ordini pianificati entro il 2015, si garantirebbe subito al governo un tesoretto di oltre 350 milioni di euro.

Non è escluso che si tiri ancora di più il freno, magari posticipando tutte le commesse per gli F-35 a decollo verticale che hanno maggiori difficoltà di messa a punto e prezzi superiori. In tal caso si potrebbe liberare un altro mezzo miliardo da qui al 2016: soldi preziosissimi per finanziare le iniziative promesse da Renzi e dare ossigeno agli italiani.

È chiaro: ci sarebbero contraccolpi sulle attività industriali. La Lockheed assegna il lavoro alle aziende in base agli ordini firmati: se il governo spinge sul rallentatore, calano anche le commesse alle imprese del Nord e soprattutto l’occupazione nell’impianto allestito appositamente a Cameri (Novara), con un investimento di quasi un miliardo. Per questo il generale Leonardo Tricarico, ex comandante dell’Aeronautica, ritiene che sia meglio rinviare la decisione sul numero totale alla fine della legislatura (vedi intervista in basso), in modo da permettere all’industria nazionale di non perdere il passo con l’affare internazionale del supercaccia. E procedere poi agli eventuali tagli quando il ministro Pinotti avrà sottoposto al Parlamento l’annunciato “libro bianco” con le linee strategiche per la Difesa, sulla base del quale stabilire quali e quanti mezzi servano realmente alle Forze Armate per svolgere le loro missioni.

CARISSIMI E INUTILI

A spingere i vertici militari per il rallentamento c’è un’altra preoccupazione: quella di bruciare miliardi per aerei che non avranno capacità belliche. Il programma del supercaccia Lockheed è in enorme ritardo, con problemi che continuano a restare irrisolti. La prima versione del software operativo – di fatto, il cervello dell’F-35 – sarà pronta nel tardo 2016 mentre per quella definitiva bisognerà aspettare almeno il 2018. La variante a decollo verticale – scelta in 30 esemplari dalla Marina per le nostre portaerei e dall’Aeronautica per le basi avanzate – è stata completamente ridisegnata e sono comparsi guasti nella struttura che da mesi non si riesce a mettere a posto. Già adesso si prevede che tra i due modelli ordinati dall’Italia ci saranno sempre meno parti in comune, con un aumento delle spese per la manutenzione. E c’è infine un nuovo guaio: il supercaccia invisibile tiene fede al suo nome di Lighting – Fulmine – ed è più chiassoso di un tuono. Fa il doppio del rumore rispetto ai grandi F-15 Eagle, più del triplo rispetto agli F-16. Negli aeroporti americani dove è stato schierato ci sono state proteste dei residenti, costretti a convivere con un rombo pauroso. Più del baccano, preoccupano le prestazioni in battaglia ritenute finora di gran lunga inferiori alle aspettative, tanto da far spesso definire l’F-35 “una tigre di carta”. Ingegneri e generali sono convinti che le magagne verranno sistemate e in pochi anni il jet della Lockheed sarà il miglior cacciabombardiere esistente. Questo risultato però richiederà di inserire carissimi aggiornamenti negli esemplari delle prime serie. Che altrimenti costeranno molto più di quelli prodotti a pieno ritmo (circa 160 milioni di dollari oggi contro i 90 milioni ipotizzati per il futuro prossimo) e soprattutto saranno soltanto dei prototipi, utili per l’addestramento e poco altro.

SPRECHI SUPERSONICI

Questa è una piaga che affligge ogni programma di sviluppo degli aerei moderni ed è stata già pagata a caro prezzo dai contribuenti italiani. Quando alla fine degli anni Ottanta si decise di introdurre in servizio il cacciabombardiere Amx senza prima averlo perfezionato, il risultato è stato disastroso. La nostra Aeronautica ne ha comprati 136 ma dopo pochi anni si è capito che erano pieni di difetti. Così sono stati spesi altri 285 milioni di euro per renderne operativi solo 52. Altri 69 Amx sono stati radiati perché non c’erano quattrini per ammodernarli: jet seminuovi finiti in magazzino, per farne pezzi di ricambio, senza nessuna aviazione straniera che fosse disposta a rilevarli, nemmeno a prezzi di saldo. L’errore è stato ripetuto con gli intercettori europei Eurofighter. La prima tranche consegnata all’Italia dal consorzio internazionale ha capacità belliche limitate e poche componenti in comune con gli esemplari successivi. Ben venti caccia – in teoria avanzatissimi – presi tra il 2002 e il 2008 si sono di fatto rivelati inutili: nonostante fossero costati oltre duecento milioni di euro ciascuno, si è capito che per farli diventare “pronti al combattimento” sarebbero servite montagne di soldi. Oggi si spera di rivendere questi gioielli hi-tech di scarsa efficacia: si è già tentato invano di piazzarli alla Romania e alla Polonia.

SPESE IN ORBITA

Spesso questi carissimi flop vengono imposti dalle industrie nazionali alle Forze Armate. Molti dei programmi infatti sono gestiti non dalla Difesa ma dal ministero dello Sviluppo Economico, che è il principale finanziatore degli acquisti di armamenti avanzati. Nel 2013, per esempio, ha stanziato quasi 2.200 milioni. Dagli Eurofighter alle fregate Fremm, dai blindati Fremm agli elicotteri Agusta NH-90, i progetti più esosi sono quasi sempre sovvenzionati dallo Sviluppo Economico: un dicastero dove le esigenze delle aziende e dei partiti vengono prima di quelle dei generali. “L’Espresso” è in grado di rivelare come anche nell’affare miliardario dei satelliti spia Cosmo Skymed siano stati firmati contratti per apparati che non erano stati nemmeno collaudati. Le spese spaziali restano uno dei capitoli più pingui dei nostri bilanci: un investimento in grandeur tecnologica abnorme rispetto alle esigenze nazionali. Per gli anni dal 2013 al 2015 è stata deliberata una spesa di 416 milioni dalla Difesa e quasi il doppio da altri ministeri: fondi per lanciare in orbita vedette tricolore, destinate a vigilare sul pianeta con radar e occhi all’infrarosso. Solo per la seconda costellazione di Cosmo Skymed serviranno 687 milioni. Sono ambizioni da superpotenza, a distanza siderale dalle condizioni drammatiche del Paese. L’utilità di questi 007 stellari resta un mistero. A fronte di sensori miliardari, mancano persino i software per poterli impiegare nelle situazioni più concrete. Un esempio? Non è stato studiato un modo per sfruttare queste carissime sentinelle globali nell’emergenza immigrazione. In teoria riescono a scoprire una camionetta nel deserto ma non si è trovato la maniera di monitorare le navi dei trafficanti di uomini o le loro basi nei porti del Maghreb.

PASSIONI DIGITALI

Un’altra voce enigmatica è quella che raggruppa le spese per il C4, acronimo che comprende gli apparati di comando, controllo, comunicazione e intelligence. Si prevede che in tre anni inghiotta 1.209 milioni di euro. Dentro c’è un po’ di tutto: dalle reti telematiche criptate agli aerei-radar, fino ai velivoli da spionaggio elettronico. In questo capitolo finiscono pure i finanziamenti per Forza Nec, il sogno di trasformare entro il 2031 l’Esercito in una grande armata digitale inzeppando soldati, jeep e blindati di gadget tecnologici d’ogni genere. Finora con 324 milioni sono stati allestiti prototipi per 558 fanti: in pratica, sono guerrieri d’oro. Ognuno infatti si porta addosso sensori computerizzati e mirini fantascientifici per un valore di mezzo milione. Il programma ha una previsione complessiva stratosferica: 22 miliardi tra apparati e mezzi. Ma sono in tanti a ritenere che interessi più alla Selex, la società di Finmeccanica monopolista dell’operazione, che non ai generali.

COMMESSE A SORPRESA

Dal canto loro gli Stati maggiori riescono a far sorgere dal nulla nuovi programmi, aggirando gli imperativi della spending review. Lo scorso anno l’Aeronautica ha inserito a sorpresa tra le priorità le “cannoniere volanti”: bimotori C-27 Spartan con armi a tiro rapido e missili. Sono mezzi micidiali, usati solo dagli americani per sommergere di proiettili le postazioni della guerriglia qaedista e talebana. Ne sono previsti almeno tre: il primo verrà provato presto sul campo in Afghanistan, alla vigilia del ritiro italiano. Il costo dell’iniziativa è top secret, ma si parla di 100 milioni di euro. Che dovrebbero servire da volano alle esportazioni del velivolo prodotto da Alenia, sempre di Finmeccanica. Ancora più audace la manovra della Marina, che nel corso del 2013 ha saputo far approvare una legge speciale per il rinnovo della flotta. Con un consenso bipartisan, sono stati ipotecati sei miliardi di euro per costruire nuove unità che ancora non esistono neppure sulla carta, mentre ci sono già 250 milioni stanziati dal solito ministero dello Sviluppo Economico. Il pacchetto prevede sei pattugliatori d’altura, una nave da sbarco, una per il supporto logistico, due vedette veloci, tutte affidate al colosso pubblico Fincantieri. I sei pattugliatori saranno “polifunzionali”: potranno servire sia per la guerra che per la protezione civile. Come? Il meccanismo è simile a quello degli aerei: si finanzia la versione basic e poi nel tempo si procede con gli optional. Intanto si costruiscono gli scafi; quindi si cercheranno i fondi per metterci sopra radar, cannoni e missili. Le pretese degli ammiragli trovano giustificazione nella cronaca: le istituzioni in venti anni non sono riuscite a escogitare una risposta agli sbarchi di migranti mentre la Marina da cinque mesi garantisce il controllo totale del canale di Sicilia. E questo è uno dei nodi che il Libro Bianco del ministro Pinotti dovrà sbrogliare: quanto deve essere estesa la supplenza dei militari nelle emergenze del Paese? Dall’operazione Strade Sicure per pattugliare le città – che la Corte dei Conti ha dimostrato avere costi superiori all’efficacia – ai voli di Stato affidati agli stormi dell’Aeronautica fino all’uso delle navi da battaglia per soccorrere profughi e immigrati: sono missioni che spettano alle Forze Armate?

AVANTI IN ORDINE SPARSO

Negli scorsi anni tutti i corpi hanno già impostato piani di ristrutturazione significativi. Ad esempio, l’Aeronautica sta riducendo le basi a poco più di una dozzina, l’Esercito vuole passare da 450 caserme a quindici. L’organico complessivo scenderà da 190 mila militari a 150 mila entro un decennio. Ma senza direttive strategiche dei governi – l’ultimo documento risale all’autunno 2000, prima delle Torri Gemelle – ogni forza armata continua ad agire come se dovesse intervenire su tutti i fronti, accumulando armi per ogni evenienza, dalla guerra totale alle spedizioni umanitarie. La Marina oggi schiera due portaerei, quattro sottomarini d’ultima generazione, due cacciatorpediniere e intende acquistare dieci fregate Fremm. L’Aeronautica si struttura su duecento aerei da combattimento. L’Esercito ha cannoni e missili semoventi hi-tech come se aspettasse l’invasione dell’Armata Rossa. Si sovvenzionano carissimi doppioni: per le batterie contraeree due forze armate hanno scelto un modello europeo, la terza si è inserita in un progetto tedesco-americano prossimo al naufragio mentre la spesa complessiva ha già superato due miliardi. E tutte allestiscono i propri reparti autonomi di commandos, quelli che poi finiscono per sostenere il peso maggiore delle operazioni all’estero. Il vero risparmio nella Difesa si avrà chiarendo i compiti e razionalizzando le strutture. A partire dalla testa: oggi esistono quattro palazzi della Difesa, con altrettanti stati maggiori completi di tutto, come ai tempi della Seconda Guerra Mondiale: una macchina burocratica difficilmente sostenibile.

SPENDING REVOLUTION

Perché quella richiesta dalla “lista Cottarelli” è una rivoluzione: 4,3 miliardi da tagliare nel prossimo biennio. L’ultimo bilancio di previsione, elaborato nello scorso gennaio, ipotizzava di ridurre gli acquisti di armamenti in quel periodo di 800 milioni. E il resto dove si trova? Fare cassa vendendo caserme dismesse, portaerei e jet di seconda mano è al momento uno slogan: il mercato immobiliare langue e non siamo capaci di rivendere i nostri surplus. Gli stipendi richiedono 9,5 miliardi di euro l’anno, carabinieri esclusi: una voce che potrebbe calare solo con licenziamenti rapidi perché gli arruolamenti sono già al minimo. Ci sono poi 1,3 miliardi per l’addestramento e il funzionamento dei mezzi: somma con cui già si fatica a preparare gli uomini per le missioni in Libano e Afghanistan. Inevitabile che siano sforbiciati missili, aerei e navi pagati dallo Sviluppo Economico: dalle ultime fregate Fremm ai blindati Freccia, dai satelliti agli apparati spia. E pure qui bisognerà manovrare tra i vincoli dei contratti e dei mutui, rinviando o rinegoziando. Anche a costo di affrontare cause legali e penali massicce. È la strada seguita dai paesi del Nord Europa, che non soffrono la recessione. La Germania ha decurtato le commesse di elicotteri NH-90 e Tiger, di caccia Eurofighter e cargo Airbus. L’Olanda ha tagliato drasticamente gli F-35. La Francia ha varato una riforma che ha spinto i generali sull’orlo della rivolta. Scelte facilitate in quelle nazioni da un impatto meno forte sulle industrie nazionali, che contrariamente all’Italia non sono sotto controllo pubblico. riserva milionaria Un obiettivo facile è l’ausiliaria: l’indennità che viene concessa ai militari che lasciano il servizio attivo prima della pensione definitiva. Ufficiali e graduati entrano in una sorta di riserva che li obbliga a restare a disposizione delle istituzioni: pochissimi però vengono richiamati. Invece con la diminuizione di comandi e reparti, i conti dell’ausiliaria si sono gonfiati: dai 335 milioni di euro del 2012 ai 450 milioni di quest’anno. Da un decennio si discute di come abolirla, ridimensionarla o trasferirne il peso ad altri organismi previdenziali nell’intento di frenare l’emorragia di soldi. Propositi che sono stati falciati daun fuoco incrociato prima di arrivare al bersaglio.