Per un approccio cristiano agli studi di genere

Anthony Favier
www.reseaux-parvis.fr Liberamente tradotto da Giacomo Tessaro (www.gionata.org)

Qual è il significato del mio corpo? Che importanza ha il corpo nel definire ciò che sono? Perché le differenze fisiche? Come devo concepire il mio desiderio e quello degli altri? Si tratta di questioni cruciali che riguardano tanto la nostra società quanto i gruppi religiosi che ci vivono.

La tradizione cristiana ha avuto a lungo due concetti pertinenti ed efficaci per comprendere l’identità, la differenza dei sessi e i desideri: la creazione e la vocazione. Nel suo slancio creatore, e la Genesi ha un posto importante in questa concezione, Dio ci ha creati sessuati e faccia a faccia con l’altro sesso fin dall’origine, in una maniera ineludibile e ricca di senso.

Ma, lungi dal rinchiuderci nell’essere maschio o femmina, Dio ci chiama anche a divenire uomini e donne e a realizzare così la nostra vocazione. Quest’ultima è il luogo dove potrebbero idealmente congiungersi la libertà umana e la sua volontà, che rimane fondamentalmente l’attenzione per gli altri e per i più piccoli dei nostri fratelli e sorelle.

In questa tensione tra creazione e vocazione diverse condizioni di vita, che presumibilmente danno un significato particolare al sesso (vita religiosa e sacerdotale) o alla differenza dei sessi (matrimonio), devono contenere le esperienze sociali, sessuali e affettive. Tuttavia, la comprensione del mondo e dei sessi che ruota attorno al polo creazione/vocazione, se è lungi dall’aver perso tutta la sua pertinenza, oggi deve affrontare diverse problematiche.

Quali incertezze per noi dopo le lotte di emancipazione femminile degli anni ’70! Le femministe hanno mostrato acutamente come ciò che teneva insieme la creazione (il sesso, per farla breve), ciò che passava per naturale era spesso e volentieri costruito e soprattutto giustificava la subordinazione. Del resto, molte antifone del passato oggi non si sentono più, né nelle comunità cristiane né nella società.

L’essenzialismo stenta a rinnovarsi, sviluppando sermoni autoreferenziali e poco credibili sulle donne complementari agli uomini e stabilisce delle tipologie di tratti caratteriali, attitudinali o di ruolo che, al vaglio della riflessione, non sono essenzialmente maschili o femminili ma forse, più comunemente e semplicemente, umani. Gli uomini possono essere materni e le donne autoritarie. La varietà sociale delle configurazioni tra ruolo sociale e sesso è immensa e sfugge a ogni semplicistico schema binario.

Quali incertezze supplementari per noi da quando l’emancipazione delle minoranze sessuali tende a dire che non c’è una continuità evidente tra l’anatomia e i desideri che guidano gli individui! Nella nostra società, uomini e donne non appaiono più “naturalmente” come i due poli del desiderio amoroso o erotico. Infine, l’attenzione crescente alla trans-identità, lo scarto tra la propria anatomia e la percezione di se stessi ci mostra come ciò che viene sempre esibito come naturale è, in molte situazioni, lontano dall’esserlo.

Dall’altro lato, un approccio puramente costruttivista ancora spaventa, e per buone ragioni. Tutto è solo costruzione sociale e rapporto di forza? Il corpo è malleabile e privo di senso in sé? Bisogna rinunciare a ogni accettazione della differenza dei sessi?

Gli studi di genere sono nati in un momento di crisi della nostra storia comune, in cui lo sviluppo dell’individuo e la valorizzazione dell’autonomia, il progresso tecnico, il controllo della fecondità soprattutto, e poi l’emancipazione delle donne e delle minoranze sessuali hanno rivelato i limiti di un pensiero dagli accenti troppo facilmente naturalisti e differenzialisti.

La corrente degli studi di genere, oggi ben rappresentata nei diversi ambienti intellettuali, ha così proposto una nuova via, proponendo una pista di riflessione sulle identità sessuate e sessuali, catalogando ciò che definisce il mascolino e il femminino nei diversi luoghi e nelle diverse epoche e interrogandosi sul modo in cui le norme si riproducono fino al punto di apparire naturali e potenziali fonti di ingiustizia.

Come accogliere tutto questo nel quadro del pensiero cristiano? C’è spazio per un’etica cristiana del genere? Gli studi di genere invitano a una messa in discussione che può essere destabilizzante e persino inquietante perché fanno vacillare l’etica e la dottrina tradizionali. Possiamo rifiutarli, rigettarli, combatterli oppure vederli come un’opportunità per pensare la pratica dell’Evangelo nella nostra epoca.

Negli anni ’70 c’erano teologi pronti a vedere gli elementi più destabilizzanti del sapere contemporaneo come positivi, se non come altrettante opportunità per rinnovare la nostra comprensione della fede e della dottrina. Dobbiamo riabilitare questo metodo? Più concretamente, gli strumenti di elucidazione della condizione umana offerti dagli studi di genere possono essere interessanti? Non ci mostrano forse che, prima di puntare tutto sulla differenza dei sessi, bisogna ugualmente accettare il suo divenire all’interno di una storia?

L’anno 2011 è stato segnato da una polemica di rara intensità nell’ambiente scolastico, sorta in occasione della revisione del programma di biologia per alcune classi liceali. Il Segretariato Nazionale dell’Insegnamento Cattolico e in seguito la Conferenza Episcopale francese si sono opposti all’introduzione della “teoria di genere” nei nuovi manuali prodotti dagli editori scolastici, facendo appello alla più grande vigilanza da parte di professori e genitori.

Ai loro occhi, le nuove opere sarebbero state contaminate da una ideologia che cerca di sovvertire le conoscenze biologiche in materia di differenza dei sessi e sessualità. Quest’ultima inviterebbe a un approccio troppo comprensivo nei confronti dei comportamenti omosessuali e della trans-identità.

Un campo di studi che era abituato all’ambiente più confidenziale e felpato dei dibattiti accademici si è così ritrovato in mezzo alla scena pubblica e mediatica, suscitando articoli di giornale, trasmissioni radiofoniche e televisive e perfino interrogazioni parlamentari. Da parte dei cristiani, anche dagli ambienti più aperti, pochissime reazioni positive: il fastidio e la scarsa conoscenza sembrano avere la meglio sulla comprensione degli studi di genere.

L’opposizione dell’istituzione cattolica agli studi di genere è, ricordiamolo, più antica e ha già una lunga storia alle spalle. Essa ha come sfondo soprattutto le istanze internazionali dell’ONU e dell’Europa. Nel 1995, durante la conferenza mondiale sulle donne a Pechino, il termine “gender” entra nei documenti di lavoro e nel programma di azione finale.

Il concetto di genere appariva allora come il miglior modo di approcciare in maniera dinamica la questione della condizione femminile. Con questo approccio di genere non si tratta più di un problema solo femminile ma si inserisce in una riflessione più generale sulla ripartizione sociale delle attività come sui ruoli storicamente costruiti che assegnano determinati spazi agli uomini o alle donne.

La Santa Sede reagì vivamente: “L’esistenza di una certa diversità di ruoli non è per nulla pregiudizievole per le donne, purché questa diversità non venga imposta arbitrariamente ma sia l’espressione di ciò che è proprio alla natura dell’uomo o della donna” (Rapporto della quarta conferenza mondiale sulle donne, New York, Nazioni Unite, 1996, p. 173).

Al tempo stesso la Chiesa cattolica romana ricorda che la scelta di apostoli maschi da parte di Cristo non è legata a un condizionamento sociale o a un determinato contesto storico e geografico; questa scelta rivela qualche cosa della fede deposta nella natura umana, un qualcosa che non può essere messo in discussione.

Il ministero sacerdotale maschile non può essere considerato, agli occhi di Roma, un ruolo socialmente ereditato e si comprende come il concetto di genere sia inquietante nel senso che invita precisamente a interrogarsi sulla differenza tra i sessi e l’evidenza della natura.

L’idea tipicamente cattolica che esista un complotto ideologico che cerca di opporsi alla famiglia tradizionale e di cui la teoria di genere sarebbe il cavallo di Troia che bisogna combattere risale sicuramente agli anni ’80 e da allora non ha smesso di rafforzarsi.

Nato dalla riflessione sui diritti umani, il concetto di “identità di genere” emerge all’inizio degli anni 2000. Definita come “Fa[cente] riferimento all’esperienza intima e personale del proprio genere per come è vissuto profondamente da ciascuno e ciascuna, che corrisponda o meno al sesso assegnato alla nascita, compresa la coscienza personale del corpo che può implicare, se liberamente accettata, una modificazione dell’apparenza o delle funzioni corporali con mezzi medici, chirurgici o altro”, l’identità di genere come concetto giuridico tende a integrare nella protezione giuridica alla quale ha diritto un cittadino non solo l’orientamento sessuale ma anche la trans-identità nelle sue differenti dimensioni, dal travestitismo alla modificazione chirurgica.

Nella strada imboccata dal diritto nella nostra società, l’omofobia e la transfobia tendono a diventare delle motivazioni aggravanti di discriminazione o di diffamazione, a somiglianza del razzismo. Il concetto di identità di genere è stato trasposto nel diritto europeo nel rapporto di Andreas Gross adottato dall’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa nella primavera 2010. Intitolato La discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere, è stato aspramente criticato dai nunzi e dalle organizzazioni delle famiglie cattoliche.

Due comprensioni del mondo contemporaneo si confrontano in maniera sempre più serrata. La prima è quella classica secondo la quale esistono delle norme naturali che non entrano nel perimetro del diritto, non sono negoziabili e non possono quindi essere cambiate; oggi, per l’istituzione cattolica, si tratta principalmente del diritto dell’individuo al controllo della fecondità o della possibilità di accedere al matrimonio per le coppie dello stesso sesso. Dall’altro lato abbiamo una nuova visione del corpo e dell’intimità in cui le regole, se democraticamente elaborate e accettate, possono evolvere.

Se il genere della società cambia, se le attività e le attese sociali si ridistribuiscono tra uomini e donne, se i giudizi etici di fronte a certi comportamenti si modificano, questo vuol dire che va bene tutto, che tutto è giusto e che non c’è più alcun criterio di valore da tenere di fronte all’evoluzione della nostra società?

Oggi possiamo assumere come criteri importanti quelli dell’umanesimo e dello sviluppo dei diritti umani: l’uguaglianza, la dignità, la reciprocità e il rispetto dell’autonomia di ciascuno e ciascuna, criteri fortemente compatibili con l’Evangelo. La Rete Europea Chiese e Libertà, di cui fanno parte i Réseaux du Parvis e FHEDLES, ha così sostenuto il rapporto di Andreas Gross in nome dell’attaccamento inalienabile al diritto delle persone omosessuali e trans-identitarie a essere protette e accettate nella società.

Per lungo tempo la comprensione sociale e intellettuale della sessualità è passata attraverso il prisma del genere. Ciò che definiva un uomo o una donna era proprio e indissolubilmente l’esercizio esclusivo della sessualità eterosessuale. Nel XIX secolo, nei romanzi di Proust gli uomini omosessuali sono ancora visti come persone nelle quali un’anima femminile è prigioniera di un corpo maschile.

Sesso, genere e sessualità non sono concettualmente separati. Le tre cose coincidono molto bene in ciò che si designa ancora come un sesso, forte o debole, bello o virile, e ogni deviazione dalle norme del proprio sesso viene vista come sovversiva o patologica, come un disordine che bisogna necessariamente combattere o soffocare perché “contronatura”.

La psicanalisi freudiana, sicuramente ancora molto influente sul nostro modo di pensare, non esce da questa concezione e lega fortemente la differenza dei sessi alla differenza delle generazioni, l’attrazione per l’altro sesso alla maturità psichica. Non si può progredire in una che attraverso l’altra, non ci si può realizzare come uomo e come donna che attraverso l’affettività e la sessualità con una persona dell’altro sesso.

Se la concezione naturalista della sessualità è stata a lungo la nostra qui in Occidente, non è detto tuttavia che essa copra la varietà dei gruppi umani e delle situazioni storiche: questo è sicuramente il maggior contributo degli studi di genere, i quali ci rivelano che diverse configurazioni sociali sesso/genere lasciano spazio a pratiche omosessuali, travestimenti rituali o organizzazioni sociali di comportamenti sessuali non riproduttivi.

In passato sono esistite società, come quella della Grecia antica, nelle quali non era la differenza dei sessi ad organizzare la sessualità bensì il modo di gestire il piacere e la morale del controllo di sé. Il dibattito attuale sul matrimonio omosessuale conduce sovente a delle condanne dell’omosessualità che si appoggiano su false evidenze naturaliste: “È contronatura!”, su antropologie perentorie: “Al di fuori della coppia uomo-donna non c’è nulla di buono!”, su psicologie categoriche: “Gli omosessuali sono immaturi!” e poco sull’Evangelo. E non per caso!

Sarebbe sicuramente molto difficile trovarvi qualcosa di esplicito per riprovare moralmente l’omosessualità. Cristo non è venuto per dare dei fondamenti antropologici alle società umane ma per chiamare ciascuno e ciascuna alla conversione, a vivere in armonia con Dio, a rendere più giusto il proprio desiderio e a rinunciare a una certa forma di cupidigia.

Perché l’oggetto di un desiderio dovrebbe essere un criterio superiore al processo di umanizzazione che può coinvolgere quel desiderio? Quale posto dare alle nuove rivendicazioni identitarie delle minoranze sessuali nella società e nelle comunità cristiane? Questa domanda imperiosa non si risolverà sicuramente con una artificiale riabilitazione di una vecchia antropologia.

L’intuizione di una natura che cela un costrutto culturale è il fondamento di un’etica dell’emancipazione, molti aspetti della quale possono essere visti come cristiani. Conosciamo tutti le parole del filosofo Blaise Pascal: la cultura, questa seconda natura. Dei tratti considerati evidenti e naturali possono essere il frutto di una progressiva acculturazione, così evidente che la si naturalizza di rimando.

Il sociologo Pierre Bourdieu, con il suo concetto di habitus, aveva detto qualcosa di simile: la società produce, nello stesso movimento, l’evidenza e la gerarchia. Se c’è norma, infatti, c’è potere e liberazione.
Negli studi di genere non vediamo certo l’onnipotenza dell’individuo, bensì una piccolezza tutto sommato molto evangelica. Non si indossa un genere come un costume a teatro, secondo l’umore e il capriccio del momento, e anche secondo una filosofa sicuramente a torto molto screditata come Judith Butler, prima di essere soggetti liberi siamo soggetti prodotti da altri.

Nell’evidenza di uno sguardo, attraverso la ripetizione di un gesto, l’incorporazione antica, permanente e ripetuta di un gesto o di una postura, il soggetto è prodotto ancora prima di prenderne coscienza e di scenderci eventualmente a patti.

Il fatto stesso che nella nostra lingua esistano espressioni come “maschiaccio” o “uomo effeminato” testimonia della debolezza di un pensiero che si arresta all’evidenza naturale dei sessi. Se noi fossimo veramente solo maschi e solo femmine, non ci sarebbero il femminile e il maschile.

Ecco che gli studi di genere ci invitano a riflettere secondo un modello molto più destabilizzante: nessuno si realizza autenticamente nel suo genere, ciascuno e ciascuna resta al di qua del “mascolino” e del “femminino”, dei quali è tutt’altro che facile dare una definizione semplice e definitiva. Siamo tutti e tutte in una performance di genere più o meno cosciente, più o meno alienante e più o meno soddisfacente per noi stessi e per gli altri.

Un approccio di genere permette infatti di comprendere e mettersi al fianco di coloro che soffrono per la loro natura e per rafforzare un rapporto di poteri già dato e che molto spesso non può essere messo in discussione: donne, minoranze sessuali, persone che appartengono alle “soggettività subalterne” e non costituiscono l’unità di misura dei discorsi sulla società. In questo, gli studi di genere e la teologia della liberazione concorderebbero sui loro obiettivi: porsi dalla parte di coloro che non sono qualificati per produrre le regole che li dominano.

C’è una evidenza del potere che diventa naturale e permette di squalificare coloro che non vi si conformano. I gruppi religiosi non si trovano forse essi stessi nelle medesime logiche di controllo delle devianze di genere?
Quando un magistero maschile afferma che le donne devono essere tenute lontane dai ministeri, non si neutralizza forse la parola delle prime interessate a parlare apertamente di una vocazione?

Quando si invitano le suore americane della Leadership Conference of Women Religious ad adottare una postura più conforme alla dignità del loro sesso, vale a dire ad essere modeste e a non mettere in discussione le norme pastorali o gli scritti dottrinali prodotti dagli uomini, cosa si dice in filigrana del genere femminile cattolico? In che modo questa situazione ci illumina sull’esercizio dell’autorità del mascolino sacerdotale?

Si potrebbe affermare che l’ambito della società, l’uguaglianza uomo-donna, la lotta contro le discriminazioni di cui sono ancora vittime le minoranze sessuali costituiscono molto meno la posta in gioco della teologia della liberazione dell’ambito sociale dei rapporti socioeconomici Nord-Sud o della lotta contro la precarietà che affligge le nostre società occidentali.

A parte che non è sicuro che le logiche di esclusione differiscano veramente, quando talvolta non si accumulano (pensiamo in particolare alle donne dei Paesi in via di sviluppo), è interessante notare che oggi le comunità più avanzate nella pastorale delle minoranze sessuali sono sovente anche quelle più sensibili alle questioni economiche.

Non sviluppano tanto un invito a costituire delle “chiese gay”, quanto dei luoghi “inclusivi” di condivisione. San Mederico [parrocchia cattolica di Parigi n.d.t.] o il tempio della Maison Verte [comunità riformata di Parigi n.d.t.] , che si presenta come “una coalizione di minoritari”, come sicuramente molti luoghi nelle varie regioni, si vogliono aperti tanto alle persone in situazione di marginalità socioeconomica o socioculturale quanto alle minoranze sessuali.

Come preservare l’equilibrio tra il riconoscimento di ciascuno e ciascuna nella sua specificità e sofferenza e il mantenimento di gruppi aperti a tutti e tutte? Come introdurre queste domande nelle nostre comunità?

In una rivista di teologia morale il padre domenicano Laurent Lemoine si domanda se alla fine la paura degli studi di genere non sia un po’ un “petardo bagnato”: “Alcuni presentano i gender studies come una ideologia storicamente tanto pericolosa quanto il marxismo! Affermare questo è giocare alle Cassandre […]

Di fatto la galassia del gender propone agli avventurieri un viaggio indefinito fatto di permanenti decostruzioni socioculturali di sé […] un viaggio non privo di scogli ma che non necessariamente porta al naufragio”.

Senza per questo aderire a un beato ottimismo nei confronti degli studi di genere, padre Lemoine si domanda se non potrebbero aiutarci a comprendere come il soggetto parla di se stesso e produce la sua identità, a somiglianza dei personaggi del Vangelo: “Come Zaccheo, la donna adultera, il giovane ricco, il cieco nato sono degli individui dall’identità non compiuta, errante, che si cerca, che ha bisogno di dirsi, di essere parlata a qualcuno, Gesù all’occorrenza, che li aiuta a raggiungere la verità su se stessi, che essi possiedono senza saperlo malgrado le vie senza uscita imboccate fino a quel punto.

Gesù è piuttosto discreto in materia di etica sessuale. Questo è stato sottolineato diverse volte. [La galassia del gender] mette l’accento prima di tutto sulla ricerca della verità […] Pone la ricerca di sé, la ricerca di identità su una tela di fondo molto vasta di cui la sessualità, pur importante, non è che un aspetto, certo non solo un dettaglio, ma un aspetto.

Gesù ha guidato un gruppo minoritario che si è costituito attorno a lui sulla base di una sovversione identitaria dei suoi membri, che hanno abbandonato la famiglia, il loro modo di vivere, i loro punti di riferimento sociali, etici e culturali. La sovversione etica proposta da Gesù conduceva ad affermare nella propria vita questo […]: il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato.”

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Vivre c’est devenir. Sexe, genre et identité. Approche constructiviste

Alice Gombault
www.reseaux-parvis.fr

Tout le monde s’accorde, même les plus opposants aux analyses de genre, à reconnaitre a ce type d’approche une pertinence certaine dans la mise en valeur des injustices et des discriminations entre les hommes et les femmes. Tony Anatrella(1) déclare que l’affirmation de l’égalité entre les hommes et les femmes représente un progrès considérable dans le monde et notamment là où des cultures infériorisent et méprisent les femmes a commencer par les fillettes. Mais très vite le soupçon apparait : « Si les études du “gender” ont eu le mérite de mettre en lumière des inégalités et des injustices sociales à l’égard des femmes, très vite ces études sociologiques se sont transformées en mouvement idéologique et de combat entre les hommes et les femmes. »

Les analyses de genre (gender studies) sont accusées de se durcir en « théorie du genre » qui prônerait le libre accès a une identité construite et rejetterait tout donne d’ordre biologique, appelé naturel(2). On pourrait de ce fait choisir son sexe ! Cette éventuelle fluidité du sexe panique la hiérarchie catholique et les milieux conservateurs. Il existe un malaise certain par rapport à une soi-disant théorie du genre soupçonnée de supprimer la différence sexuelle. Nous faisons l’hypothèse que, composée d’hommes masculins, c’est la masculinité qui se sent menacée. L’obligation du célibat qui oblige à se garder des femmes et une certaine morale sexuelle qui a longtemps assimilé le plaisir au péché ne favorisent pas la construction d’une identité sexuelle sereine(3). La notion de genre a l’avantage de rendre visibles les hommes comme individus sexués. Ce qui a permis une émergence d’une histoire des hommes, de l’étude de la construction de la virilité, des souffrances des hommes(4). Genre et constructivisme apparaissent liés dans la crainte et le rejet qu’ils provoquent. Mais qu’est-ce que le constructivisme ?

Qu’est-ce que le constructivisme ?

Cette philosophie déjà ancienne(5) ne nie pas la réalité (en l’occurrence les données appelées naturelles), mais dit que nous ne la connaissons que par l’expérience que nous en faisons et que celle-ci est toujours relative à notre culture, à notre situation dans un monde précis, à notre environnement, dépendante de notre regard propre, de nos expériences passées… On ne peut donc jamais tabler sur une réalité qui serait totalement objective. Elle n’est pas non plus totalement subjective, car nous faisons tous la même expérience et rencontrons la même réalité. Mais nous ne pouvons prouver l’objectivité de nos perceptions. Il y a bien un réel qui résiste, mais auquel nous n’avons accès que par la perception et l’organisation que nous en faisons. Einstein dit que c’est la théorie qui détermine ce qu’on peut observer. Sans théorie, sans hypothèse, nous ne voyons rien.

De plus, quand on observe la réalité, on modifie celle-ci. C’est un renversement de la façon habituelle de penser dans laquelle la réalité existerait indépendamment de nous. C’est souvent ainsi que l’on perçoit la création de l’univers par Dieu : une réalité donnée dont l’homme découvre les lois naturelles, alors qu’on pourrait parler de co-création. Ajoutons que nos efforts de connaissance créent une réalité, que l’on peut être tenté de considérer comme unique et définitive, naturelle pourrait-on dire. C’est contre cette absolutisation de notre vérité que le constructivisme met en garde. Nous construisons donc une image de la réalité, une vision du monde. Il s’agit d’une image globale qui s’intègre dans un ensemble et possède sa cohérence. Une telle construction est aussi une construction de sens. L’être humain ne peut pas vivre dans le non sens, dans l’absurdité, sans tomber dans la folie. D’où l’importance de passer du chaos au cosmos (Piaget).

Cette image du monde n’est pas le monde, mais nous n’avons aucun moyen de connaître le monde autrement que par les images que nous nous en faisons et que nous soumettons à un processus de vérification en les confrontant aux images des autres, aux faits et aux évènements. Ce processus peut les confirmer car elles s’avèrent pertinentes ou les rejeter comme inadéquates ou encore nous laisser dans l’indécision. En logique, il s’agit du vrai, du faux ou de l’indécidable.

Alors la personne humaine est-elle un être uniquement construit culturellement et en particulier en ce qui concerne le corps sexué, l’identité sexuelle et les relations sociales ? Le même processus que décrit précédemment est à l’oeuvre dans la définition de nous-mêmes et des autres. Là encore, nous n’accédons à notre moi, à notre identité que par un processus de communication avec les autres. S’est-on parfois demandé pourquoi nous passions autant de temps à des conversations et des échanges au contenu informatif pratiquement nul, comme les conversations sur la pluie et le beau temps ? C’est parce que nous avons besoin de savoir qui nous sommes et nous passons donc notre temps à proposer à ceux qui nous entourent une image de nous-mêmes et nous attendons qu’elle soit confirmée. A la limite, peu importe le contenu des échanges, c’est la relation qui s’instaure entre les interlocuteurs qui compte. Cependant, lorsque l’échange porte sur des sujets graves qui nous tiennent à coeur, notre image peut en recevoir une confirmation valorisante ou un rejet cinglant.

Dans ce dernier cas, il nous faut alors en proposer une variante. Il arrive aussi que notre propos ne soit pas perçu, c’est comme si nous n’existions pas. Si cette situation est habituelle, surtout chez un être en formation, elle aboutit à de graves troubles de la personnalité. Le plus souvent, heureusement, on se construit grâce à la confirmation ou au rejet de son image. On agit de même pour autrui. Non seulement toute parole prononcée, mais toute attitude, tout comportement prend une signification de confirmation, de rejet ou de déni. C’est grâce à ce processus incessant de communication que nous sommes ce que nous sommes. Privé d’échanges, privé d’environnement humain, un être ne peut se construire et devenir vraiment humain. On n’existe pas tout seul, on n’a pas de réalité en dehors du regard de l’autre, sans sa reconnaissance.

C’est là que Simone de Beauvoir avait raison : « On ne naît pas femme, on le devient ». Et elle ajoutait « sous le regard d’un homme ». Son raisonnement omettait la réciproque : « On ne devient homme que sous le regard d’une femme ». On ne s’identifie que dans un jeu subtil entre le Même et l’Autre, a la fois semblable à autrui et différent de lui. On ne prend conscience de son sexe que devant le sexe de l’autre. Les identités s’élaborent au sein de systèmes relationnels dont les éléments sont en interdépendance, comme peuvent l’être le masculin et le féminin. Si, effectivement, l’identité est construite, elle n’est pas pour autant créée ex- nihilo. Le sexe comme le genre, comme l’orientation sexuelle et comme bien d’autres choses encore qui constituent l’être humain sont des matériaux de base de notre identité. On ne choisit pas tout. On classe, on organise, on donne du sens. Ce n’est pas une liberté débridée. Chacun, chacune a ses contraintes. Il, elle, n’a choisi ni son sexe, ni son orientation sexuelle, ni ses parents, ni son environnement, ni son milieu social, ni sa culture, ni sa race. Et c’est avec tout cela qu’il faut faire. La personne humaine est plus que son sexe. Il faut « prendre garde à ne pas assimiler l’individu à son sexe biologique »(6).

De plus, l’environnement ne cesse de changer avec l’âge et les circonstances de la vie obligeant à endosser de nouvelles identités. Ce processus de construction dure toute la vie. On pense que c’est dans l’enfance et l’adolescence que ce processus est particulièrement actif et qu’à l’âge adulte il s’arrête. Adolescens est un participe présent désignant quelque chose en train de se faire, alors qu’adultus est un participe passe, c’est fait, c’est terminé. Or il n’en est rien. S’il est vrai que ce processus est à son apogée dans les jeunes années, son arrêt signifie la mort. L’être humain ne cesse de devenir humain, c’est l’anthropolescence, véritable nature de l’humanité. D’un côté, nous avons des matériaux qui contribuent à nous constituer, mais de l’autre, à partir de ces données brutes, il y a la construction personnelle dont nous sommes responsables.

L’image de Dieu (7)

Le premier commandement (Ex 20, 3-5 et Dt 5, 6-8) interdit les images de Dieu : « Tu ne te feras aucune image sculptée… Tu ne te prosterneras pas devant ces images ni ne les serviras. » Or comment accéder à Dieu sans l’intermédiaire des images ? Comme l’homme se construit et construit son monde, il construit aussi son Dieu. L’histoire de Dieu reflète l’histoire de l’homme. Jean Onimus(8) montre comment, selon son évolution, l’humanité est passée du dieu de la tribu aux dieux cosmiques, puis au dieu absolu, abstrait, évanescent, aliénant, libérateur, de celui des mystiques à celui du mal en passant par le Dieu horloger et le Dieu du bien. Cette construction, d’image en image, n’est pas terminée. De quel Dieu avons-nous besoin aujourd’hui ? Quel sera le Dieu de demain ? Comment cette succession d’avatars divins est-elle conciliable avec l’interdiction de faire des images de Dieu ?

La encore, le constructivisme peut intervenir. En effet, un adjectif attire l’attention dans ce premier commandement, c’est le mot sculptée. Lorsqu’elle est sculptée, l’image accède à un niveau de fixité et de rigidité. L’image est devenue plus réelle que le réel. Elle est devenue une idole. L’idole n’est pas seulement la sculpture de bois ou de métal (le Veau d’or), mais c’est notre idée de Dieu, absolutisée au point de la prendre pour Dieu lui-même et de nous prosterner devant elle. Ma propre réalité, celle de l’autre, celle du monde échappent aux images dans lesquelles nous voudrions l’enfermer et la cerner. Le réel est toujours autre que ce que j’en saisis. A fortiori, Dieu est le tout-autre sur lequel je ne peux mettre la main.

Le Veau d’or nous fait sourire dans son inadéquation à représenter Yahvé, et pourtant nos images de Dieu sont aussi de bien piètres représentations. Elles ne peuvent devenir chemins vers Dieu que dans la mesure où elles acceptent d’être frappées d’indécidabilité. Plus nous avons peine pour nous faire une image de Dieu, cohérente, donnant sens à nos existences, plus il est difficile de l’abandonner. Lorsque des circonstances où de nouvelles connaissances théologiques ou scientifiques viennent remettre en cause notre image de Dieu, nous nous sentons envahis par le doute, par l’absurdité de l’existence, ébranlés dans nos convictions les plus profondes. Il est compréhensible que nous nous accrochions alors à nos images obsolètes et sécurisantes et que nous les légitimions par la fidélité ou l’obéissance. Mais nous sommes entrés dans une attitude d’idolâtrie. La vérité, y compris celle de Dieu, n’est pas à trouver parce qu’elle existerait quelque part, elle est à faire au cours d’un processus jamais terminé. C’est peut-être au coeur de l’épreuve, abandonnés de Dieu (de notre image de Dieu ?), lorsque nous lâchons prise, emportes dans l’indécidable, que le Dieu vivant et insaisissable est le plus proche de nous.

Apprendre à surfer

De tout temps, on a cherché à conforter son identité : costumes régionaux, vêtements féminins et masculins très différenciés, signes distinctifs selon la classe sociale ou l’appartenance, badges, insignes… etc. L’évolution du monde a bousculé nos identités, de race, de milieu social, de genre, de sexe. Il y a un brassage nouveau des populations, des religions, des classes sociales ou des sexes, une répartition nouvelle des tâches et des rôles. Les anciens points de repères ne conviennent plus. Faut-il alors renforcer des identités menacées ou entrer courageusement dans un processus de construction et de reconstruction de l’image de soi ? Les identités qui s’élaborent ainsi sont plus riches et plus souples. Nous ne sommes plus enfermés dans une identité univoque. Dans la logique exclusive du ou bien / ou bien, qui rend incompatibles plusieurs appartenances, ne faut-il pas introduire la logique du et / et où restent en tension des rôles ou des valeurs différentes, voire divergentes ? En passant d’une logique à l’autre, on atteint la logique multidimensionnelle et complexe qui s’énonce ainsi : soit ceci, soit cela, soit les deux(9). N’est-ce pas à un tel changement logique que nous sommes appelés ? Sachant utiliser nos diverses appartenances, gardant en tension le féminin dans le masculin et le masculin dans le féminin, apte à remplir plusieurs rôles et à en changer selon les circonstances, ouvert à des valeurs nouvelles.

Ce mouvement perpétuel, cette fluidité, cette inconsistance, cette absence de point fixe peut donner le tournis et inciter à se replier sur une proposition identitaire qui a le mérite de l’ancienneté. Une fois une représentation globale établie et considérée comme satisfaisante, on peut avoir tendance à la rendre intouchable ; nous avons enfin établi le vrai et ce faisant nous prenons la représentation pour la réalité.

Si des éléments viennent contredire cette vérité, on peut préférer ne pas les voir ou les déformer pour les faire tenir dans notre vision du monde. Les contradictions entre la réalité telle qu’elle est et telle qu’elle devrait être en fonction de nos prémisses sont alors utilisées pour renforcer notre représentation.

L’opinion se durcit et se transforme en dogme : doxa devient dogma. On s’acharne d’autant plus à défendre son image que celle-ci correspond à la réalité communément admise dans son groupe de référence. Se trouver en harmonie avec son groupe ou sa culture est bien aussi important que le témoignage de ses sens. On fait alors la sourde oreille, on se voile la face, on fait la politique de l’autruche. Condamnés à ne pouvoir nous passer d’images pour appréhender la réalité, nous avons aussi à conserver l’image, son statut d’image, c’est-à-dire de représentation signifiante, mais ne portant pas toute la signification, image pertinente pour aujourd’hui, pour telle personne, pour telle culture scientifique ou autre, mais sans pertinence pour demain ou pour d’autres cultures. Il nous faut alors changer nos prémisses. C’est là où il faut redonner à l’indécidable sa fonction. En effet, il est inconfortable de vivre dans l’indécidabilité, sorte d’oscillation entre le vrai et le faux, entraînant le suspens de l’action. Qui suis-je ? Que dois-je faire ? Mais c’est aussi l’ouverture de la recherche, la source de la créativité et d’une liberté possible(10).

L’accès à la liberté ouvre sur une énorme responsabilité vis-à-vis de nous-mêmes et des autres. La construction de soi est permise par le regard des autres et celle des autres dépend de notre regard. Nous ne sommes pas loin de la règle d’or : Agis envers les autres comme tu voudrais qu’ils agissent envers toi.

Alors que le constructivisme est accusé de supprimer les points de repère, celui-ci n’en est pas dépourvu pour autant : « la tolérance, le pluralisme, la distance qu’il nous faut prendre à l’égard de nos propres perceptions et valeurs pour prendre en compte celles des autres(11) » ; la responsabilité, car nous sommes en grande partie responsables de notre image et de celle des autres ; si notre construction n’est pas pertinente, nous ne pouvons nous en prendre qu’à nous mêmes.

Un autre repère consiste à agir toujours de manière a augmenter le nombre des choix. Tout ce qui enferme dans un rôle, dans un genre, dans un sexe, dans une identité est contraire à l’épanouissement des potentialités de la personne. Ouvrir l’éventail des possibles, se rendre capable de modifier des significations qui n’ont plus de pertinence pour aujourd’hui. Certes, il s’ensuit une instabilité, une précarité, une remise en question permanente qui font partie de notre monde complexe postmoderne. Il s’agit de rester en équilibre sur cet océan mouvant en développant notre réseau d’interaction, notre potentiel relationnel, notre capacité de réflexion.

L’image du surfeur s’impose(12). Au lieu de suivre un parcours balisé, celui-ci se laisse porter par la vague. Sous l’apparente désinvolture du geste, se cache une force intérieure très grande qui n’est pas inquiétée ou déstabilisée par ce qui surgit, mais qui utilise au contraire ce qui se présente, pour une plus grande vitesse et un plus grand plaisir. Si, par hasard, le surfeur est déséquilibre, il montre alors toute sa capacité a encaisser, sans être démoli. Utilisant encore une fois les éléments, il refait surface et recommence pour une glisse encore plus belle.

Pour des chrétiens, cette démarche n’est pas sans rappeler celle de la foi. La foi ne commence-t-elle pas lorsqu’il n’y a plus de chemin ? Elle demande d’avancer encore, de sauter en fermant les yeux sans savoir s’il y aura de la terre ferme pour se recevoir, et sans doute n’y en aura-t-il pas. Parfois, fugitivement, nous avons expérimenté que même sans terre ferme nous ne tombions pas. Comme Pierre marchant sur les eaux : c’est bien la foi qui le maintient, dès qu’il revient a la réalité raisonnable, il sombre(13).

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NOTE:
1-Tony Anatrella, Conférence à Rome, 23 novembre 2011.
2-Cf. Jacques Arènes, psychanalyste chrétien, comme Tony Anatrella. Ils appuient tous deux de leur compétence la pensée du magistère catholique, défavorable au genre. La tendance actuelle va plutôt dans le sens d’un “constructivisme” ou les thèmes lies à la sexuation sont considérés comme des représentations culturelles qui n’ont rien à voir avec une quelconque donnée naturelle. In « La question du genre », Etudes, janvier 2007.
3- Cette fragilité masculine (peut-être une peur archaïque de la castration ?) est sensible dans le document « Théorie du genre et SVT » proposé par la Fondation Jérôme Lejeune, qui montre, en couverture, un petit garçon penché vers son sexe, pour bien s’assurer de son existence, accompagné des interrogations suivantes : « Pas un homme ? Moi ? Alors ? Quoi ? ».
4- Françoise Thébaud, in revue Historiens et Géographes
5- Vico, XVIIIe siècle, philosophie reprise par Kant et, parmi les contemporains, Piaget, Edgar Morin et autres.
6- Sylviane Agacinski, reprenant la pensée d’Aristote. Femmes entre sexe et genre, Seuil, 2012, p. 72.
7- Article paru dans Parvis n°25, 2005.
8- Jean Onimus, Le destin de Dieu, Éd. L’Harmattan, 2003.
9- Edgar Morin.
10- Henri Atlan, Tout, non, peut-être : éducation et vérité, Éd. Seuil, 1991.
11- L’invention de la réalité, Contributions au constructivisme, dirigé par Paul Watzlawick, Seuil, 1988, p. 344.
12- Alice Gombault, « Les identités bougent », La Croix, 8 novembre 1999.
13- Alice Gombault, « Quels points de repère ? », La Croix, 6 janvier 2004.

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[i]Voir La sainteté pour tous, billet du blog Baroque et fatigué, 4 octobre 2012.
[ii] Selon l’expression de la philosophe Gayatri Chakravorty Spivak.