Il Ruanda 20 anni dopo la mattanza

padre Giulio Albanese
http://blog.vita.it/africana

Il Ruanda era un Paese sconosciuto a gran parte dell’opinione pubblica mondiale quando, nell’aprile del 1994, iniziarono i feroci massacri a seguito dell’abbattimento dell’aereo del presidente Juvénal Habyarimana. Sono trascorsi vent’anni da quell’orribile mattanza occorsa nel Paese delle mille colline, ribattezzato pertinentemente da qualche cronista Paese dei mille cimiteri. Un fenomeno aberrante e senza precedenti nella storia africana che andò avanti ben oltre la soglia degli anni Novanta. Prima a morire furono centinaia di migliaia di tutsi, l’etnia minoritaria vessata dalle milizie Interahamwe, oltre a un gran numero di hutu moderati, il gruppo etnico maggioritario e fino ad allora dominante.

Poi si passò alla vendetta dei vincitori che passarono all’arma bianca non solo i loro acerrimi nemici, ma anche tantissimi profughi hutu, perpetrando una tragica pulizia etnica. Dunque, anche l’attuale classe dirigente ruandese ha le sue grandi responsabilità, a partire dall’uomo forte del regime, il presidente Paul Kagame, leader indiscusso del Fronte Patriottico Ruandese (Fpr). Non è un caso se il Consiglio di Sicurezza dell’Onu non rinnovò nel 2003 l’incarico a Carla Del Ponte, il magistrato elvetico che guidava la procura del Tribunale Penale per i crimini in Ruanda. L’ipotesi di aprire inchieste anche sul Fpr, preannunciata dalla Del Ponte, suscitò infatti le ire di Kagame che fece pesare le sue influenti amicizie al Dipartimento di Stato Usa e al Palazzo di Vetro.

Forse mai come oggi, per onorare le centinaia di migliaia di vittime, sarebbe auspicabile promuovere una rilettura attenta di quanto avvenne, superando due tentazioni. Anzitutto quella del manicheismo che vuole dividere lo scenario tra buoni e cattivi, affermando la tesi dei vincitori, le truppe del Fpr. Furono infatti gli ex ribelli a dare vita al nuovo corso politico che certo non ha brillato in termini di democrazia. Se dunque i massacri perpetrati in quei giorni rappresentano oggi per le coscienze un monito a non commettere mai più simili nefandezze, è bene riconoscere la trasversalità delle responsabilità all’interno del Paese. Occorre poi avere l’onestà intellettuale di contestualizzare il genocidio ruandese nell’ambito più generale delle vicende che hanno segnato la tormentata Regione dei Grandi Laghi.

Lungi dal voler legittimare i crimini perpetrati in patria dai ribelli hutu che, costretti alla macchia in territorio congolese, hanno spesso compiuto azioni malvagie in quella terra straniera, sarebbe ingiusto misconoscere il ruolo altamente destabilizzante ricoperto dal regime di Kigali nell’ex Zaire fino ai nostri tempi. Una cosa è certa: Kagame è sempre riuscito a convincere la comunità internazionale della bontà del proprio operato, sia sul piano della politica estera sia all’interno. Mentre nel primo caso è evidente l’espansionismo ruandese che mira ad avere il monopolio delle immense risorse minerarie del sottosuolo congolese, a livello nazionale il presidente ha il merito di aver attuato in questi anni una politica di sviluppo incentrata sui servizi e le nuove tecnologie, ma anche sulla modernizzazione delle attività agricole.

Nel frattempo, si è assistito a una significativa maturazione della società civile e in particolare della Chiesa Cattolica. E proprio giovedì scorso papa Francesco ha chiesto ai vescovi del Paese di lavorare per guarire le ferite profonde che permangono nel Paese, promuovendo «il perdono delle offese e la riconciliazione autentica». Traguardi che potrebbero sembrare irraggiungibili in un’ottica umana e sono invece «un dono che è possibile ricevere da Cristo, attraverso la vita di fede e la preghiera». È certamente un cammino lungo, che «richiede pazienza, rispetto reciproco e dialogo». Ed è la sfida più vertiginosa a cui sono chiamati oggi i cattolici, che rappresentano il 65% della popolazione, e tutti gli abitanti di questo tormentato Paese. Per unire la memoria viva dell’olocausto all’impegno per la ricostruzione umana e civile.

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Ruanda, 20 anni fa il genocidio

Riccardo Noury
www.articolo21.org

Iniziano il 7 aprile, le commemorazioni del genocidio del Ruanda che, in 100 giorni di sangue del 1994, provocò circa 800.000 morti. Il genocidio si verificò nel contesto della guerra iniziata nell’ottobre 1990 tra le forze del governo ruandese e il Fronte patriottico ruandese (Fpr), costituito in maggioranza da tutsi fuggiti in Uganda dopo i massacri su base etnica compiuti nel 1959 e nel 1963. Con l’intensificarsi del conflitto, il governo ruandese incitò i suoi sostenitori ad attaccare chiunque facesse parte dell’Fpr o ne fosse simpatizzante. Fu una deliberata strategia, attuata col sostegno criminale di parte dei media locali (in particolare, la Radio Mille Colline) per eliminare i tutsi e mantenere il potere.

Il 6 aprile 1994 l’aereo che trasportava i presidenti di Ruanda e Burundi di ritorno dalla Tanzania, venne abbattuto mentre sorvolava la capitale ruandese Kigali. L’episodio diede vita a un’ondata di omicidi etnici di dimensioni senza precedenti. I tutsi e gli hutu che vi si opposero vennero massacrati. Il governo del Movimento nazionale repubblicano per la democrazia e lo sviluppo (Mnrds) e fornì armi, soprattutto machete, ai sostenitori del partito, della sua ala giovanile (gli interahamwe, “coloro che attaccano insieme”) e del movimento alleato, la Coalizione per la difesa della repubblica.

Il 21 aprile, nonostante fossero già emerse numerose denunce sul massacro in atto, una risoluzione del Consiglio di sicurezza stabilì la riduzione del personale Onu presente nel paese, da 2500 a 270 unità. Una macchia permanente sull’operato delle Nazioni Unite, soprattutto sui leader degli stati membri permanenti. Un’inerme missione Onu stette così a guardare mentre migliaia di ruandesi venivano uccisi ogni settimana. Nei successivi tre mesi, vennero uccisi circa 800.000 tutsi e oppositori hutu.
Il genocidio finì a luglio, quando l’Fpr di Paul Kagame sconfisse le forze governative. Nel periodo successivo e nel nuovo conflitto che ne seguì, l’Fpr commise violazioni dei diritti umani di massa.

Vent’anni dopo, molti autori del genocidio sono stati processati dai tribunali nazionali e dalla giustizia di villaggio (le corti “gacaca”), nonché dal Tribunale penale internazionale per il Ruanda e da tribunali europei e nordamericani. Sono ancora in corso indagini su decine di presunti autori del genocidio che vivono all’estero. Le uccisioni compiute dall’Fpr sono rimaste ampiamente impunite. Il Ruanda si è ripreso, ha conosciuto una crescita economica imponente e ha dimostrato al mondo che si può vivere senza la pena di morte. Ma il governo di Kagame è implicato da tempo nei conflitti nell’est della Repubblica Democratica del Congo e mostra un approccio autoritario nei confronti di chi esprime critiche: in questi 20 anni oppositori, giornalisti, attivisti per i diritti umani ne hanno fatto le spese.