La Chiesa non resti sorda al clamore delle donne

Luca Kocci
Adista Documenti n. 13 del 05/04/2014

Quello della condizione femminile nella società e del ruolo delle donne nella Chiesa cattolica è stato uno dei temi maggiormente risuonati durante l’incontro del percorso di «comunione, confronto e ricerca sinodale» del “Vangelo che abbiamo ricevuto” che si è svolto a Napoli lo scorso 1-2 marzo e che aveva come titolo “Il Vangelo è annunciato ai poveri” (v. Adista Notizie n. 10/14).

Ad introdurlo nel dibattito, un lungo documento distribuito a tutti i partecipanti e redatto a quattro mani, «secondo una rigorosa parità di genere» – spiegano gli estensori –, da Monica Coretti, Daniela Esposito, don Albino Bizzotto e Luigi Lentini. «Creati con due gambe, il femminile e il maschile, ancora ci ostiniamo a zoppicare, mantenendo il femminile sull’uscio di una umanità intera», scrivono. Una condizione che riguarda sia la società – «la quotidianità continua a raccontarci la strage di donne uccise dalla fragilità maschile mascherata nella forza e nel potere» – sia la Chiesa. Papa Francesco apparentemente e verbalmente mostra una apertura di credito, sostengono gli autori del documento, ma l’istituzione ecclesiastica resta sorda e blindata, a cominciare dalla chiusura totale a qualsiasi forma di discussione sul ministero presbiterale alle donne, magari con la giustificazione di non volerle «clericalizzare». «Appare evidente – si legge nel documento – come tale posizione costituisca un esempio di “razionale” e “saggia” operazione per rimarcare l’esclusione delle donne, senza peraltro manifestare nessun proponimento di superamento del clericalismo».

Da qui le proposte di Coretti, Esposito, Bizzotto e Lentini: ripensare profondamente il senso del ministero presbiterale e aprirlo alle donne; coinvolgerle a tutti i livelli della Chiesa nella responsabilità complessiva della cura del popolo di Dio; iniziare a conferire loro ruoli decisionali, dalle parrocchie, alle diocesi, alla Curia romana. Pubblichiamo di seguito il documento nella sua versione quasi integrale

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Condizione femminile e povertà umana

Coretti, Esposito, Bizzotto, Lentini

QUANTO ABBIAMO ASPETTATO FRANCESCO!

Questa attesa ha i colori della vita. Era verde nella giovinezza quando il Concilio ci restituì una casa e magnifiche speranze per il futuro. Iniziò a tramontare mentre crescevamo, quando provavamo a fare nostri i tormenti e la prudenza di Paolo VI. Poi, nell’età matura, volevamo esserci, comunque fare la nostra parte, varcare la soglia, ma divenne difficile. Giovanni Paolo II voleva incontrare il mondo, salvandone molto nella gioiosa speranza, non incontrare la persona, meno ancora le donne. (…). Pensammo che lo Spirito fosse davvero altrove, quando fu scelto un papa teologo, un papa da chiamare per cognome. È che pensavamo che la Chiesa avesse bisogno di vita, meno di teologia. Non la vita distratta delle piazze affollate, ma di vita viva. Con papa Ratzinger molti di noi varcarono la soglia ma non per entrare, per uscire.

Era sempre più difficile sentire la Chiesa come la nostra casa, un edificio cadente che resisteva nell’immobilismo del rigore dogmatico, incapace di incrociare la vita negli sguardi, preoccupata eccessivamente del proprio potere sulla vita e i costumi delle persone, soprattutto delle donne; tiepida nel farsi carico delle ferite della pedofilia; cedevole nei confronti degli scandali finanziari; poco incisiva nel dramma dell’immigrazione clandestina. Poi, è giunto il soffio dello Spirito. Papa Ratzinger, che ha attraversato da protagonista consapevole quest’epoca di così enormi trasformazioni, che ha temuto e ostacolato il futuro per fedeltà a ciò che la coscienza e la dottrina gli dettavano, ha fatto un balzo in avanti, fermandosi. (…). Accettando la propria umana fragilità, ha aperto la prima crepa al soglio che voleva consolidare, un primo passo verso l’umanizzazione del ministero di Pietro. Il sogno di incontrare l’umanità e la fede di Gesù, fondamento della nostra speranza, nella sua Chiesa non era tuttavia stato riacceso neanche da questo gesto. (…).

SI RIACCENDE LA SPERANZA

Il nuovo papa ha scelto di essere chiamato Francesco: sembra superflua ogni altra parola. Sì, noi aspettavamo Francesco. Niente può avere un senso e una prospettiva sradicati dalla povertà. Nessuno, più di Francesco, ha saputo incarnarla, trasformandola in una parabola di liberazione e di accesso alla letizia. (…) Le lettere, le telefonate, le omelie di papa Francesco dicono di desiderio di colloquio, di parole, di apertura alla relazione. Ha acceso speranza in cuori lontani, e questo in sé ha il valore della vita. Ora, nel partecipare a “Il Vangelo che abbiamo ricevuto” proviamo a farlo anche noi, perché diamo fiducia al suo ascolto. Prima, rimanevamo in silenzio, temendo parole mute e grevi dentro sguardi che attraversano senza incontrare. (…).

Vorremmo provare a condividere la consapevolezza di quelle urgenze che sentiamo, per le quali molte e molti di noi soffrono, perché si possa cominciare finalmente un cammino fra sorelle e fratelli. La scelta del nome del nuovo pontefice, sembra suggerire, con tenera forza, che al centro debba esserci la liberazione dalla povertà, ma chi sono i poveri? Oltre le moltitudini che vanno liberate dalla miseria, poveri sono anche coloro che soffrono per l’emarginazione, per l’esclusione, per la violenza, perché non hanno scelto la loro condizione, né hanno scelta in essa. «Doppiamente povere sono le donne che soffrono situazioni di esclusione, maltrattamento e violenza, perché spesso si trovano con minori possibilità di difendere i loro diritti» (EG, 212).

Povera è anche, come denunciava Desmond Tutu (vescovo anglicano premio Nobel per la Pace 1984) l’umanità perché, mutilata del contributo di una sua parte, è un’umanità meno umana. Creati con due gambe, il femminile e il maschile, ancora ci ostiniamo a zoppicare mantenendo il femminile sull’uscio di una umanità intera, in “servidumbre”, come lo stesso papa Francesco ha detto. Dal primo al suo ultimo passo, Gesù ha camminato con le donne, riconoscendole e amandole anche per quella «sensibilità particolare per le cose di Dio» che papa Francesco stesso ci ha ricordato; senza chiuderle fra steccati, infrangendo quelli esistenti e apprezzandone la diversa e molteplice disposizione interiore. Ha affidato loro ciò che fonda la nostra fede. Una donna, sua madre, «figlia di suo figlio», risponde personalmente al Signore che l’ha chiamata, acconsentendo e accogliendo in sé il culmine dell’autorivelazione di Dio, l’uomo Gesù, partecipando con tutta se stessa, anima, spirito e corpo all’evento della salvezza del mondo.

Sono spesso le donne destinatarie e partecipi della sua rivelazione: al pozzo di Giacobbe offre a una straniera, una samaritana, una peccatrice, l’acqua viva, annuncio di Dio in spirito e verità (Gv 4,27-30); è un’altra straniera, una cananea, che nella richiesta del gesto minuto delle briciole ai cagnolini, offre a Gesù lezione e rivelazione, modificandone il punto di vista sulla compassione e sulla sua vocazione verso i pagani (Mt 15,21-28 e Mc 7,24-36); è sempre una donna, che nel cospargere Gesù d’olio prezioso, spreco agli occhi dei discepoli, compie un atto di cura, fatto di fede e di amore, e solo di lei, donna, Gesù dice che, «dovunque sarà annunziato il vangelo, si ricorderà pure ciò che ella ha fatto» (Mc 14,3-9); ci piace pensare che Gesù abbia imparato la lavanda dei piedi (Gv 13,1-20), massima espressione per convincere dell’amore, proprio da colei che glieli aveva lavati con le sue lacrime (Lc 7,36-50); Maria, privilegia rispetto a Marta il primato dell’ascolto (Lc 10,38-42), nutrimento spirituale, senza il quale la fatica del servizio fraterno, cui sono chiamati tutti i cristiani uomini e donne, rischia di diventare una servitù amara o alienante; conclude la sua attività pubblica (che aveva preso avvio grazie all’intercessione di una donna, sua madre, alle nozze di Cana) con l’episodio della vedova, al gradino più basso dell’emarginazione sociale, che incarna l’eredità del suo messaggio (Mc 12,41-44); è Maria di Magdala, che Gesù chiama per nome, la prima a testimoniare ed annunciare la resurrezione (Gv 20,11-18).

Gesù, dunque, non silenziava, né gettava nell’invisibile le donne, ma, nonostante la straordinarietà dell’annuncio veicolato attraverso di loro nei Vangeli, esse nella Chiesa continuano a essere “povere”, afone, senza diritto a una parola “soggettiva” e autorevole in pubblico, sempre e solo destinatarie di decisioni maschili. Se oggi si vuole parlare di giustizia, di eguaglianza, di libertà, di dignità, l’ancestrale questione femminile è la Questione.

La quotidianità continua a raccontarci la strage di donne uccise dalla fragilità maschile mascherata nella forza e nel potere. Gli uomini sono sempre più spesso incapaci di tollerare una relazione senza possesso e prevaricazione, un’alterità davanti a sé diversa e alla pari. Per camminare verso l’umanizzazione bisogna liberare l’uomo dalla paura del femminile che costringe trasversalmente nelle diverse culture la vita delle donne nell’ignoranza, nel disprezzo, nell’essere possesso altrui, nella negazione all’autodeterminazione. Povero è ogni singolo uomo che, dentro e fuori la Chiesa, non riesce a vedere, a riconoscere la ricchezza a tutto campo delle donne. Per questa cecità, ma più spesso per giochi di potere, per paure infondate e attraverso discutibilissime operazioni culturali maschili, “razionalmente giustificate” e “saggiamente” consolidate, silenzia le donne, le rende subalterne, le esclude, le violenta in tutte le forme che la perversione maschile ha saputo trovare. Un vero sadismo che si è sempre dialetticamente rovesciato in un tragico masochismo.

Un tale uomo, in quanto impone una relazione di dominio, in quanto vive una relazione umana che, oltre ad essere profondamente ingiusta, è profondamente distorta e squilibrata, non solo rende povere le donne e misero se stesso, ma anche vive (e fa vivere) una condizione esistenzialmente insana, malata. Attualmente, nei “Paesi sviluppati” sono garantite, in potenza, pari opportunità, ma è tuttavia palese la complessità nel declinarle e la difficoltà delle donne a trovare un equilibrio tra la cura di sé e quella dell’altro.

Essere donna è ancora uno scandalo per la contraddittoria concezione che la vede, da una parte, legata alla colpa; dall’altra, all’essere «matrice di Paradiso» (Alda Merini, A tutte le donne). L’essere donna è «una menomazione naturale della quale tutti si fanno una ragione. Essere uomo è un’illusione e una violenza che giustifica e privilegia qualsiasi cosa. Essere, semplicemente essere, è una sfida» (Tahar Ben Jelloun, Creatura di sabbia). Inoltre, la Donna e la Terra hanno sempre condiviso, quasi in forma simbiotica, una storia di violenza, di possesso e di dominio, ma anche di amore creativo, capace di generare e cantare la vita.

PER UNA RIDEFINIZIONE DEL RUOLO DELLA DONNA

Da sempre sappiamo che la vita è creazione continua che nasce da una relazione d’amore e oggi siamo finalmente divenuti consapevoli che da tempo l’umanità ha strappato i fili di questa relazione. La Terra è in grave sofferenza, il suo respiro è in affanno; non riesce più in tempo utile a rinnovare le energie necessarie per sostenere la vita di tutti gli esseri. È necessario perciò ricostituire con la Terra una relazione di amore e di cura, restituirla alla sua funzione di presiedere alla vita di tutti gli esseri, e ciò significa per noi realizzare un ecumenismo fontale con tutte le persone, con tutti i popoli, con tutte le culture del mondo; trovare la sorgente e la motivazione più profonda dell’unità per rendere ragione e armonizzare tutte le diversità. Ma questo grandioso progetto non è in alcun modo realizzabile finché non cambierà radicalmente la condizione della donna in ogni aspetto della vita.

Per tale ragione, e per rendere possibile la vita e il futuro, è oggi indifferibile per tutti, anche per la Chiesa, una nuova alleanza. Come dire che insieme a Francesco, Chiara sarà la promotrice, l’interprete e la protagonista della relazione costitutiva della nuova comunità globale, dove il centro di tutta l’organizzazione politica, sociale, culturale ed economica sia costituito dalla cura e dall’impegno per la vita in tutte le sue espressioni e in tutti gli esseri. Tutti sono disposti a riconoscere, papa Francesco non ha mancato di rilevarlo, che è urgente affrontare la ridefinizione del ruolo della donna nella Chiesa, per la Chiesa e per la stessa umanità.

L’esortazione del papa colpisce ancor più considerando che solo un mese prima della sua pubblicazione, nel “Documento preparatorio del Sinodo straordinario sulla famiglia” (5-19 ottobre 2014), vi è un totale silenzio sulla violenza di genere fisica, sessuale o economica. Questa scandalosa omissione, a fronte della sottolineatura della presenza di «forme di femminismo ostile alla Chiesa», preoccupa perché la strage di donne, minuto per minuto, avviene soprattutto all’interno della famiglia ed è un’evidenza testimoniata anche dalle statistiche e non fa che rafforzare l’idea che l’invisibilità sociale del femminile sia il frutto avvelenato della paura che ne ha l’uomo. Crediamo sia questa paura, costitutiva del maschile, che da sempre e ovunque sulla terra si è resa responsabile, non consapevolmente, di questa spaventosa ingiustizia che ha reso il mondo, la cultura e soprattutto la Chiesa non interamente umani. Un altro segnale preoccupante è stata la risposta data dal cardinale Maradiaga (coordinatore della commissione degli otto nominata da papa Francesco “per riformare la Curia romana e governare la Chiesa”) all’intervistatore sulla possibilità per una donna di diventare cardinale: «Credo di no, non serve clericalizzare il ruolo delle donne nella Chiesa. Serve valorizzarle di più, questo sì» (Il Fatto Quotidiano, 27/9/13). Appare evidente come tale posizione costituisca un esempio di “razionale” e “saggia” operazione per rimarcare l’esclusione delle donne, senza peraltro manifestare nessun proponimento di superamento del clericalismo. Onestà intellettuale richiederebbe o una seria messa in discussione della clericalizzazione o l’impossibilità di negarvi l’accesso alle donne, che oramai, aggiungeremmo purtroppo, possono persino fare i militari.

Se la Chiesa, riscoprendosi inclusiva e plurale, «accoglierà l’invito che viene dal pensiero delle donne e cercherà di partire da sé nel pensare l’umano, si accorgerà di quanto grande sia stata la sua perdita nell’escludere le donne dall’elaborazione dei valori della teologia, dalla rilettura delle Scritture, dall’organizzazione non verticale della Chiesa» (Giancarla Codrignani).

È oggi necessario e prioritario liberare il mondo e la Chiesa dalla paura della donna, causa di infinite sofferenze e deprivazioni come sottolineava già nel 1981 il cardinale Martini. È sempre il card. Martini a offrirci una strada suggerendo, per i momenti di difficile discernimento, di mettersi dentro le ferite dell’altro, orientando da quel punto di vista il proprio sguardo. Guardare la povertà delle donne, attraverso le loro ferite, significa, da una parte, vedere la loro esclusione e il loro ruolo servile in una Chiesa nella quale solo uomini detengono il potere; dall’altra, riconoscere il pericolo di enfatizzarne solo il loro ruolo di madre. Gesù stesso, d’altronde, corregge questa parzialità di visione quando alla donna che benedice il grembo che l’ha generato, risponde perentoriamente «Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!» (Lc 11,27-28).

UN GRANDE PROCESSO DI LIBERAZIONE

Pensiamo, con la franchezza che deve contraddistinguere il cristiano, con la legittimità di chi si sente parte del popolo di Dio e cittadino della Chiesa, sia doverosa una richiesta alle gerarchie ecclesiastiche: che la Chiesa – invece di stare nella retroguardia della storia – sulla base del Vangelo di Gesù, cui si ispira e cui deve continuamente convertirsi, affrontando la questione della condizione delle donne, sradichi senza indugio, con coraggio e coerenza se stessa dalla insostenibile condizione di povertà, ingiustizia e insanità in cui si trova. Così facendo, si metta credibilmente alla testa di un grande, rivoluzionario processo di liberazione dell’umanità da quello che può essere considerato forse il maggiore dei mali – e senza dubbio uno dei maggiori mali, e per la Bibbia il primo in ordine di tempo e di causalità – che la affliggono.

In tal senso, avanziamo alle autorità gerarchiche della Chiesa la richiesta di:
a) ripensare profondamente il senso del ministero sacerdotale, declericalizzandolo e riconoscendo nella cura pastorale l’essenza stessa di tale servizio;
b) aprire alle donne, che hanno il carisma della cura pastorale, il ministero sacerdotale ripensato sulla base di questo riconoscimento;
c) conseguentemente, coinvolgere le donne a tutti i livelli della Chiesa nella responsabilità complessiva della cura del popolo di Dio che a lei si affida;
d) iniziare a dare, senza ulteriori indugi, alle donne ruoli decisionali, non solo esecutivi. Concretamente sarebbe opportuno iniziare invitando le donne al prossimo Concilio non come osservatrici, ma come “madri conciliari”, membri a pieno titolo; nelle diocesi eleggendo “delegati religiosi” donna; nelle parrocchie offrendo cariche di “direttori” anche alle donne…

GIUDICANDO CON IL CUORE E CON IL VANGELO

L’esortazione apostolica Evangelii Gaudium è un documento magnifico che pone le fondamenta del cammino necessario alla Chiesa e all’umanità. In esso il papa ha ribadito la convinzione del sacerdozio riservato al solo genere maschile all’interno di un discorso sulle donne così completo nelle analisi e nelle visioni programmatiche che di fatto indebolisce la perentorietà di quella stessa esclusione. Lo stesso linguaggio adoperato – «il sacerdozio riservato agli uomini, come segno di Cristo sposo che si consegna nell’Eucarestia…» – è espressione di una terminologia mistica piuttosto arcaica, ma che appare davvero stridente nel contesto del linguaggio adoperato in perfetta coerenza con i contenuti espressi. D’altronde, come mai allora la Chiesa, che è la sposa, è rappresentata sempre da dei maschi? Dov’è che è vincolante l’icona di genere? Inoltre, l’invito ai pastori e ai teologi a continuare a riflettere su quale debba essere il ruolo delle donne nella Chiesa è anch’esso indicativo di una posizione lontana dall’essere definita. Questi segnali lasciano trasparire l’avvenuta incrinazione di una monoliticità di certe posizioni, pur rimarcata o forse proprio per questo fortemente rimarcata.

Vorremmo chiederci, a questo punto, se è possibile continuare a pensare, giudicando con il cuore e con il Vangelo, non con la dottrina, che un uomo, un profeta, figlio di Dio per molti, dopo aver dato ai discepoli indicazioni per dividere con loro l’ultimo pane, giunto sulla soglia, chiedesse alle donne, con cui aveva condiviso il cammino, la mensa e le lacrime per tre anni, di restare fuori?

Come potrebbe così valere il Comandamento Nuovo «che vi amiate gli uni gli altri come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,34-35)? Si può immaginare che Gesù abbia consegnato il Suo annuncio, i gesti dell’amore più grande, nel luogo dell’esclusione delle donne? Non è giunta l’ora che la Chiesa apra le braccia alle donne in un gesto di amore, di riconoscimento e di pentimento, valorizzando finalmente l’umanità come intera?