Una riflessione sull’omofobia a partire dall’Uganda

Luca Jourdan*
www.riforma.it

La recente approvazione di una legge omofoba in Uganda, che addirittura prevede l’ergastolo per gli omossessuali, ha suscitato una forte indignazione. La notizia ha trovato ampio spazio anche nei media italiani, che solitamente non si occupano di Africa oppure, quando lo fanno, tendono a ricorrere a rappresentazioni stereotipate e dicotomiche: da un lato l’Africa viene descritta come luogo della barbarie; dall’altro si insiste su una visione iper-vittimizzante e caritatevole del continente.

Alcuni osservatori si sono interrogati sul perché la legge ugandese abbia trovato così ampio spazio nelle pagine dei giornali, dal momento che gli Stati al mondo con legislazioni omofobe sono numerosissimi e ovviamente non solo in Africa (sono più di ottanta i Paesi che vietano per legge l’omosessualità!).

Alcune spiegazioni riconducono il problema a una matrice geopolitica (vedi l’articolo di Rita Plantera su Il Manifesto del 24/2/2014) secondo cui l’Uganda, potenza militare dell’Africa orientale e tradizionale alleato degli Usa, sarebbe intenzionata a emanciparsi da Washington per volgere lo sguardo verso Est, in particolare verso la Cina e la Russia. In questo senso l’approvazione della legge omofoba costituirebbe uno schiaffo nei confronti dell’amministrazione di Obama da cui il governo ugandese vorrebbe svincolarsi, forte del fatto che nel Paese sono stati scoperti alcuni giacimenti petroliferi e fra pochi anni l’Uganda, o per meglio dire la sua classe dirigente, potrà godere dei proventi dell’estrazione.

A mio modo di vedere, tale spiegazione è limitata e in parte ideologica (è notizia di questi giorni che gli Usa hanno rafforzato la cooperazione militare con l’Uganda!), in primo luogo poiché non tiene conto che omofobia e leggi omofobe sono un fenomeno che va ben al di là dei confini ugandesi e africani: è sufficiente pensare alla Russia dove la questione gay, onnipresente nei discorsi politici, è stata tirata in ballo anche nella crisi ucraina (alcuni noti attivisti russofili della Crimea, per esempio, hanno dichiarato di essere contrari all’integrazione euro-gay!).

Non vi è dubbio che la legge ugandese sia particolarmente odiosa poiché, oltre all’ergastolo, spinge alla delazione, dal momento che rischiano il carcere anche coloro che conoscono ma non denunciano gli omosessuali. Allo stesso tempo, a mio avviso, tale legge ha una vasta eco nei media poiché entra in risonanza con gli stereotipi, per certi versi rassicuranti, di un’Africa barbara e incivile a cui ho fatto cenno sopra.

Ma il fenomeno merita un’analisi più approfondita. Così come altrove, l’omofobia in Uganda ha una forte connotazione politica. La legge era in discussione da tempo in Parlamento e il presidente Museveni, al potere dal 1987, ha scelto di firmarla solo di recente e in coincidenza con la sua decisione di ricandidarsi alle prossime elezioni. La ragione è evidente: i sentimenti omofobici sono molto diffusi fra la popolazione e con l’approvazione della legge Museveni cerca di rafforzare il proprio consenso.

Da questo punto di vista, vi è una fortissima analogia fra queste leggi omofobe e le leggi xenofobe e contro l’immigrazione in vigore in Europa (le quali, non dimentichiamolo, sono causa di numerose morti e terribili sofferenze): entrambe, infatti, trovano un vasto consenso fra la popolazione e molti partiti politici non fanno altro che cavalcare e fomentare questi sentimenti d’odio – basati anche questi sulle idee di contaminazione, decadimento, perdita della purezza originaria ecc. – per aumentare il proprio consenso. L’individuazione di un capro espiatorio è un vecchio gioco della politica, ma che funziona sempre, tanto più in un periodo di crisi.

Ma perché l’odio sociale in Uganda, al pari di molti altri Paesi, si coagula proprio contro l’omosessualità? Innanzitutto le leggi omofobe in Africa furono introdotte nel periodo coloniale. Allo stesso tempo il colonialismo, come ha ben spiegato Frantz Fanon, ha prodotto immagini stereotipate dell’uomo e della donna africani funzionali a legittimare la dominazione: gli africani erano considerati esseri involuti, da evangelizzare e da sviluppare; ma in quanto involuti erano considerati vicini alla stato di natura e quindi dotati di una carica sessuale prorompente (l’attenzione morbosa che gli europei riservavano alla sessualità africana emerge con evidenza, per esempio, nelle cartoline postali delle colonie, molte della quali ritraevano donne africane sinuose, seminude e dall’apparenza lasciva).

In epoca post-coloniale gli africani stessi si sono appropriati di queste rappresentazioni essenzialistiche di matrice coloniale e questa presunta potenza sessuale, proposta in chiave marcatamente eterofila, è diventata una sorta di tratto distintivo della propria identità attraverso cui marcare una differenza con l’Occidente. Ovviamente si tratta di un processo ben più complesso e sfaccettato, che non possiamo qui approfondire; in ogni caso, è piuttosto comune nella storia che i soggetti dominati si approprino e riproducano stereotipi prodotti su di loro dai gruppi dominanti. Inoltre, l’esaltazione del vigore sessuale machista è riscontrabile in molte popolazioni subalterne, quasi fosse un’arma per contrastare, perlomeno nella fantasia, la propria condizione di subordinazione.

Ma i processi di costruzione identitaria implicano la costruzione di un’alterità, in un gioco che vede il «noi» contrapporsi agli «altri»: nel nostro caso l’alterità è l’Occidente, spesso considerato nell’immaginario popolare africano (ma non solo) come il luogo della decadenza, che troverebbe nell’omosessualità, e a maggior ragione nelle leggi che la riconoscono, la sua massima manifestazione. In questo senso, l’Occidente tende a essere immaginato in modo fortemente polarizzato in Africa: è il luogo della modernità e della ricchezza, ma al contempo rappresenta la decadenza e il degrado, associati per l’appunto all’omosessualità. Quest’ultima finisce quindi per essere considerata una sorta di malattia proveniente dall’esterno, che l’Occidente stesso intende propagare imponendo le sue «leggi libertarie», le quali vengono percepite come neo-imperialiste.

Ma il problema ha anche una sua connotazione fortemente religiosa: le chiese, quelle pentecostali in particolare (ma anche quella cattolica e altre chiese protestanti), hanno avuto un ruolo decisivo nell’esasperare le tendenze omofobe in Uganda, così come hanno fatto in molti altri Paesi. Molte chiese, che si rifanno alla dottrina born again, sono violentemente omofobe e hanno strutture ramificate a livello globale, in particolare negli Stati Uniti, che permettono loro di accedere a ingenti risorse economiche.

D’altra parte in Africa religione e politica tendono oggigiorno a intrecciarsi fortemente: per esempio, la moglie del presidente ugandese, Janet Museveni, oltre a detenere numerose cariche nel governo, è anche leader di una chiesa denominata Miracle Centre ed è al contempo un’accanita sostenitrice delle leggi contro i gay. In definitiva, quando i diversi leader religiosi e politici, spesso allo scopo di allargare il proprio consenso, fanno leva sui sentimenti omofobi, dando loro una connotazione nazionalistica (come avviene in Uganda, Russia ecc.), allora, mi si passi l’espressione, la frittata è fatta: da attitudine popolare, infatti, l’omofobia diventa pratica istituzionale in un processo in cui le due cose si alimentano e si legittimano a vicenda.

Che fare allora in una situazione così complessa e delicata? Non sempre, a mio avviso, i movimenti lgbt (lesbiche, gay, bisessuali e transgender) si sono mossi bene in Africa (segnalo, al riguardo, un interessante articolo di un’attivista, Lia Viola, sulla rivista Zapruder n. 33). In breve, questi movimenti sono stati spesso vettori di pratiche e idee egemoniche e molto etnocentriche (in questo caso occidentocentriche) su che cosa sia e su come debba essere manifestata l’omosessualità. In Occidente la rivendicazione dei diritti gay si è recentemente focalizzata sulla pratica del coming out, ma non è affatto detto che questa sia la strategia migliore anche per l’Africa, dove vi è una netta separazione fra vita privata e manifestazione pubblica per quanto concerne la sessualità.

Inoltre, esporsi pubblicamente di questi tempi significa mettere a rischio la propria vita! D’altra parte i movimenti lgbt africani non riescono a produrre strategie di lotta autonome, poiché sono privi di risorse e agiscono in contesti di repressione e per queste ragioni dipendono fortemente dai movimenti internazionali. Il fatto però che i movimenti africani dipendano fortemente dall’estero finisce per rafforzare la convinzione diffusa a livello popolare che sia l’Occidente a esportare la «malattia» dell’omosessualità in Africa. Viene qui da pensare al famoso detto: la strada verso l’inferno è spesso lastricata delle migliori intenzioni! Si tratta di un circolo vizioso che necessita assolutamente di una riflessione e fortunatamente tale esigenza inizia a essere avvertita da molti attivisti lgbt a livello internazionale.

In conclusione, mi auguro che questa mia analisi, per quanto generica e ancora superficiale, possa fornire alcuni spunti di riflessione sul tema dell’omofobia. È un tema globale, che assume connotazioni specifiche nei diversi contesti e che al contempo affonda le sue radici in una storia e in un presente caratterizzati da rapporti di potere profondamente diseguali. La riflessione su questo problema non può dunque che partire dal riconoscimento della sua estrema complessità. Ricorrere soltanto alle armi della buona volontà rischia di produrre effetti opposti a quelli desiderati: ma ricordiamoci che è sulla pelle degli attivisti africani che si corre tale rischio.

* docente di Antropologia dei processi politici all’Università di Bologna