Le riforme pericolose

Stefano Rodotà
Repubblica, 8 aprile 2014


Ho scoperto in questi giorni di detenere da anni un potere immenso. Faccio parte di un “manipolo di professoroni” (così veniamo graziosamente apostrofati) che è riuscito nell’impresa di sconfiggere le velleità riformatrici di Craxi e Cossiga, di D’Alema e Berlusconi, e oggi intralcia di nuovo ogni innovazione. Usiamo un’arma impropria – “la Costituzione più bella del mondo” – per terrorizzare politici pavidi e cittadini timorati.

So bene che al grottesco, alla mancanza di senso delle proporzioni, all’assenza di informazioni accurate è difficile porre ragionevoli limiti. Ma qualche chiarimento può essere utile, per evitare che venga inquinata una discussione che si vorrebbe seria. Comincio proprio da quel riferimento alla Costituzione più bella del mondo, che viene usato con toni di dileggio e per accusare di testardaggine conservatrice chi critica questa o quella proposta di riforma, o meglio i tentativi di stravolgimento del testo costituzionale. Ora, quelle parole vengono da una fantasiosa uscita di Roberto Benigni, ma non sono mai state la bandiera di chi ha riflettuto sulla Costituzione con la guida di Costantino Mortati e Carlo Esposito, di Massimo Severo Giannini e Leopoldo Elia. Ed è falso che vi sia stato un irragionevole arroccamento intorno all’intoccabilità della Costituzione.

È notissimo, invece, che si è insistito sull’obbligo di rispettarne principi e diritti, mentre si avanzavano proposte per una “buona manutenzione” della sua seconda parte. Mi limito a ricordare solo quello che io stesso e molti altri suggerimmo quando il governo Letta si imbarcò nella rischiosa, e fallita, impresa di modificare l’articolo sulla revisione costituzionale. Si disse che sarebbe stato opportuno cominciare subito, senza forzare quell’articolo, dai punti sui quali già si era formato un largo consenso – dunque dalla riduzione del numero dei parlamentari e dal superamento del bicameralismo perfetto, per il quale esistevano proposte ragionevoli, ben lontane da quelle sgrammaticate che circolano in questi giorni. Se quel suggerimento fosse stato seguito, oggi molto probabilmente già avremmo portato a compimento questa significativa riforma.

Facendo una veloce ricerca in rete, non sarebbe stato difficile trovare le molte riforme proposte anche dal mondo di chi critica le riforme costituzionali della fase cominciata con il governo Letta. Invece, tutta l’acribia filologica è stata impiegata per cogliere in flagrante peccato di contraddizione il noto Rodotà, reo di aver firmato nel 1985 una proposta di riforma in senso monocamerale. Purtroppo il ricorso a questo argomento è, all’opposto, la prova evidente di quanto profonda sia ormai la regressione culturale nella quale sono caduti molti che intervengono nella discussione pubblica. Quella proposta veniva fatta in un tempo in cui il sistema elettorale era quello proporzionale, i deputati erano scelti con il voto di preferenza, i regolamenti parlamentari rispettavano i diritti delle minoranze, non prevedevano “ghigliottine”, costrittivi contingentamenti dei tempi, limiti alla presentazione degli emendamenti. Erano i tempi in cui l’ostruzionismo della sinistra fece cadere in prima battuta il decreto con il quale Craxi tagliava i punti di contingenza e il Parlamento svolgeva grandi inchieste come quella sulla loggia P2.

Quella proposta (n. 2452 della IX legislatura) era stata scritta da un costituzionalista di valore come Gianni Ferrara e andava nella direzione assolutamente opposta rispetto alla linea attuale. Voleva riaffermare nella sua pienezza la funzione rappresentativa del sistema parlamentare, assicurata da una forte Camera dei deputati che garantiva gli equilibri costituzionali e si opponeva alle emergenti derive autoritarie, alla concentrazione del potere nel governo. Nasceva dall’idea della centralità del Parlamento, rispondeva all’ineludibile diritto dei cittadini di essere rappresentati, che è alla base della sentenza con la quale quest’anno la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità del Porcellum. Oggi, invece, l’Italicum deprime la rappresentanza, le proposte relative al Senato sono un pasticcio, e tutto confluisce in un sostanziale antiparlamentarismo, alimentato da artifici ipermaggioritari che fanno correre il rischio di una nuova dichiarazione di incostituzionalità.

Chi cerca proposte sulla riforma del Senato, com’è giusto che sia, può attingerne alla bella intervista su questo giornale di Gustavo Zagrebelsky o al disegno di legge presentato dai senatori Walter Tocci e Vannino Chiti, entrambi del Pd. La verità è che non sono le proposte ad essere mancate. Non si vuol riconoscere che da anni si fronteggiano due linee di riforma costituzionale, una neoautoritaria e una volta a mantenere ferma la logica democratica della Costituzione, senza ignorare i punti dove le modifiche sono necessarie. Ora il confronto è giunto ad un punto critico, ed è bene che tutti ne siano consapevoli.

Chi sinceramente vuole una Costituzione all’altezza dei tempi, e delle nuove domande dei cittadini, non deve cercare consensi con appelli populisti. Deve essere consapevole della necessità di ricostruire le garanzie e gli equilibri costituzionali alterati dal passaggio ad un sistema già sostanzialmente maggioritario. Deve riaprire i canali di comunicazione tra istituzioni e cittadini, abbandonando la logica che riduce le elezioni a investitura di un governo che risponderà ai cittadini solo cinque anni dopo, alle successive elezioni. Ricordate la critica estrema di Rousseau? “Il popolo inglese ritiene di essere libero: si sbaglia di molto; lo è soltanto durante l’elezione dei membri del parlamento. Appena quelli sono eletti, esso è schiavo, non è nulla”.

Rousseau è lontano, è impossibile ridurre i cittadini al silenzio tra una elezione e l’altra, perché troppi sono ormai gli strumenti per prendere la parola. Se si vuole sfuggire alla suggestione che la Rete sia tutto, alle ingannevoli contrapposizioni tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta, bisogna lavorare per creare le condizioni costituzionali perché queste due dimensioni possano essere integrate, come già cerca di fare il Trattato europeo di Lisbona. Le proposte non mancano, a partire da quelle sulle leggi d’iniziativa popolare (ne parlo dal 1997, e ora sono arrivate in Parlamento).

Le semplificazioni autoritarie sono ingannevoli, la concentrazioni del potere nelle mani del solo governo, o di una sola persona, produce l’illusione dell’efficienza e il rischio della riduzione della democrazia. Si sta creando una pericolosa congiunzione tra disincanto democratico e pulsioni populiste. Vogliamo parlarne, prima che sia troppo tardi, e agire di conseguenza?

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Riforme, l’insofferenza ai critici e le colpe degli intellettuali

Roberta De Monticelli
Il Fatto quotidiano, 8 aprile 2014

A proposito della presa di posizione pubblicata qualche giorno fa sul sito di “Libertà e giustizia” ( liberta e  giustizia.it  ). Che non è un partito politico, ma raccoglie persone che intendono la cittadinanza come un impegno attivo, e non limitato al momento del voto. Un esercizio di attenzione e di riflessione critica, quindi di partecipazione allo “spazio delle ragioni”, o del dibattito pubblico – anche se sempre meno voci hanno “le ragioni” rispetto alle urla, agli slogan, ai match di pugilato televisivo o ai cinguettii.

Chi assume questo impegno concepisce la democrazia come il regime politico in cui – in ultima analisi – la difesa della giustizia è affidata ai cittadini. Se la sovranità appartiene al popolo, punto, non c’è risposta alla domanda: chi difende la democrazia se il popolo decide democraticamente di sopprimerla? C’è solo un insieme di “forme e limiti” all’esercizio di questa sovranità, organi di rappresentanza, poteri distinti, equilibri e contrappesi, una Costituzione. Ma nessuno di queste forme e limiti è sacro e intangibile, e quello che è intangibile – la parte immodificabile della Costituzione – non ha di per sé efficacia sulle norme vigenti e sulla loro modificazione. Non vive quindi che nella voce dei cittadini, o meglio in quello strato della loro partecipazione che non è propriamente “politica”, ma “prepolitica”, non esprimendo interessi parziali, ma la cornice ideale di qualunque progetto politico. Perciò una filosofa ha scritto che la sovranità della sovranità è la giustizia. O, che è lo stesso, l’insieme dei valori che questa implica e che la nostra Costituzione riconosce. Ma questa giustizia è indubbiamente affidata ai cittadini: a questo livello la cittadinanza attiva è espressione di idealità, non di interessi. E cioè di quell’eccedenza dell’ideale sul fatto e sulla forza, senza la quale non esisterebbe un miracolo come il governo della legge, in quanto opposto all’arbitrio di questo o quell’uomo o gruppo di potere. Fra questi valori ce ne è uno, tanto fondamentale da essere quasi il presupposto di tutti gli altri: la fiducia.

Debbo potermi fidare di chi decide, in nome mio e degli altri, la modifica “delle forme e dei limiti” entro cui si svolge il nostro esercizio di sovranità. Senza questa fiducia, e la correlativa affidabilità, semplicemente non esiste una Repubblica, ma appunto e di nuovo solo una forzosa convivenza e una infida sudditanza. Ma nessuna simile fiducia può essere accordata non dico a un uomo, ma a un governo come tale, dove si tratti di cambiare, non in funzione propria ma per il bene di tutti noi, le regole stesse della della rappresentanza o della divisione dei poteri. E proprio contro la riduzione di rappresentanza ha argomentato Rodotà da par suo (Bersaglio mobile, 5 aprile). Oggi, ha sottolineato Zagrebelsky (intervista a Piazza Pulita, 31 marzo), è tutto un sistema che si tocca – pezzo a pezzo – senza un apparente disegno unitario e coerente. E infatti pare che occorrerà modificare qualcosa come 80 articoli della Costituzione (intervista a Sandra Bonsanti, Corriere della Sera 2/4/14). Questo vuol dire riscriverla, la Costituzione. Benissimo: Calamandrei non avrebbe voluto presente un governo ovunque si discutesse di Costituzione. Anche Massimo Cacciari ha detto chiaro e forte che a riscrivere una Costituzione deve essere un’Assemblea Costituente, non un governo.

C’è stato un profluvio di parole sprezzanti contro chi ha sollevato obiezioni di metodo e di merito. Vediamo gli argomenti. Il primo: avete dato ragioni ideali alla palude – a queste sanguisughe della Repubblica – che sono i politici del malaffare o i burocrati dell’immobilità. Il secondo: le misure prospettate non hanno niente a che vedere con un rafforzamento dell’esecutivo o un plebiscitarismo o un’involuzione autoritaria. Al netto delle risposte (nessuno dei critici ha mai difeso lo status quo, nonostante la maligna bugia di Scalfari, Repubblica 6 aprile; le obiezioni riguardano l’apparente assenza di disegno coerente, oltre all’aspetto demagogico) resta un dato inquietante, che nessuno vede essere già parte dell’involuzione autoritaria di cui parliamo: l’insofferenza ai critici come tali. E questo vanifica completamente il senso del dissenso. Che serve a creare nuovo senso, non a far piangere o ridere, come fanno i comici. Hanno accusato i dissenzienti di gridare “al lupo” inopportunamente: e non si avvedono che è già da lupi rispondere così. Pochi vedono la tragedia vera: quanto l’idealità sia stata già appiattita sul fatto, e il diritto sul potere. E allora, se sono gli “intellettuali” a essere sotto accusa, questa accusa ce la meritiamo. Chi, se non noi, avrebbe dovuto tenere in vita il senso della differenza fra l’idealità e la volontà di potenza? Evidentemente, non ne siamo stati capaci.