Permettetemi!

Porpora Marcasciano – Presidente MIT
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Per il trentaduesimo anniversario dell’approvazione della Legge 164, sento il bisogno di dire qualcosa a proposito di quella legge e dello stato attuale delle cose. Soprattutto sento la responsabilità di rispondere, dire la mia rispetto alla questione sollevata dai media riguardante la chirurgia per il cambio di sesso, e più precisamente quella riferita alla poca professionalità e agli errori dei chirurghi in Italia, comparsa recentemente su un articolo dell’Espresso, ma anche da alcune trasmissioni televisive, così come è stata posta/denunciata dall’Avvocato Alessandra Gracis, mia carissima amica.

Con questa lettera, vorrei fare alcune necessarie precisazioni, circostanziare fatti, analizzarli con tutta l’attenzione che essi meritano e per fare questo mi servirò di documenti, testimonianze, esperienza personale, cercando di non riportare fatti o cose che non siano documentabili e provabili. Sottolineo questo perché penso che gli accadimenti (tutti) vadano inquadrati (sempre) in un contesto sociale, culturale, politico e soprattutto storico, pena il rischio di vederne una parte limitata, parziale, viziata!, precludendo a noi stessi e agli altri la possibilità di cogliere il loro senso e significato, di non avere quindi chiaro il classico “quadro della situazione”.

Dall’articolo dell’Espresso (e non solo da quello), emerge una denuncia senza appello agli errori/orrori della chirurgia italiana specifica del cambio di sesso. Come spesso succede sui media, la denuncia perentoria si basa su report grossolanamente categorici che non tengono conto della complessità e delicatezza delle questioni, con il messaggio esplicito che essa (la chirurgia italiana tutta) in questo campo è sbagliata e andrebbe quindi rovesciata: punto che mi trova concorde su alcune cose (la tutela della salute delle persone trans) ma non su tutte le altre.

Per chiarezza dividerei i piani del discorso che riguardano specificamente il “fatto” (gli errori chirurgici, la sua “incidenza statistica” e quindi la percentuale di errori), il “contesto” (quello della sanità pubblica italiana e, non da meno, della realtà politica italiana) e la “strategia” (come far sì che tali errori/orrori non si ripetano, garantire al contempo la salute delle persone e la possibilità di cambiare sesso gratuitamente nelle migliori condizioni di sicurezza). La mia impressione è che una denuncia, posta in questi termini, rischia di peggiorare la situazione e, come succede spesso in Italia, annullare anni di esperienze, di conquiste e di faticoso lavoro.

In Italia esiste una legge, la 164, approvata nel lontanissimo 1982. Legge per l’epoca molto all’avanguardia, unica in Europa insieme a quella tedesca. Il suo impianto giuridico era correlato ai tempi, quelli tra gli anni ‘70 ed ‘80, ai problemi/bisogni delle persone trans, quando la loro esperienza riguardava non più di mille persone, principalmente MTF (Male to Female) che avevano come unico e grande obiettivo il riconoscimento di essere persone portatrici di diritti. Un periodo quello in cui esse

re transessuale significava essere delinquente, e tutte avevano una discreta mole di carichi pendenti. Le persone dovevano andare all’estero a sottoporsi a costose operazioni, al loro rientro in Italia continuavano a vivere con i documenti di nascita e per questo, spesso venivano arrestate. Un periodo in cui le cure ormonali erano lasciate al libero (liberissimo) arbitrio delle persone, dove gli interventi chirurgici relativi al “transito”, di qualsiasi tipo fossero, non erano supportati nè seguiti da nessuno; dove non esistevano centri specialistici nè esperti a cui rivolgersi. Diciamo pure che le persone trans erano abbandonate a se stesse o tutta al più all’assistenza (si fa per dire) delle forze dell’ordine.

L’unica sponda certa, il porto sicuro, era il Partito Radicale e altri partiti della sinistra estrema che ci sostenevano con tutti i loro mezzi. In quel contesto nacque il MIT (Movimento Italiano Transessuale) presente a Roma, Milano, Firenze e Torino. Fu in quel periodo che, avendo cominciato il mio transito, presi a frequentare le riunioni del MIT presso il Partito Radicale in Via di Torre Argentina a Roma, all’inizio con imbarazzo e molto timidamente.

Quelle riunioni non erano veri e propri salotti, ma luoghi dove veniva fuori tutta la disperazione di una vita negata. Partecipai ai diversi sit-in per la 164 in Piazza Montecitorio e lì il mio imbarazzo maggiore non era il fatto di essere in poche centinaia ma che tutte quelle signore, a differenza mia, sfoggiavano pellicce e gioielli, ornamenti che non facevano assolutamente parte del mio corredo estetico e culturale.

Dal 1983 entrai a far parte del MIT romano come segretaria, ruolo che portai avanti per quasi tutti gli anni ‘80, eccezion fatta per un periodo di due anni in cui divenni segretaria nazionale del MIT allora presieduto da Dolly De Luca. Il resto del percorso fino ad oggi è conosciuto, ed è l’esperienza del MIT a Bologna portata avanti da Marcella Di Folco insieme a Valerie Taccarelli e la sottoscritta. Nel 1996 decidemmo di trasformare quella “I” di Italiano dell’acronimo nella “I” di Identità, molto più consono ai tempi e alla realtà.

Alle fine degli anni ‘80 tra gli impegni del MIT romano (MIT Lazio) c’era quello di incontrare dirigenti politici con cui discutere e organizzare la traduzione nella pratica di quella Legge 164. Cito per onor di cronaca e soprattutto della “storia” quelli intrattenuti insieme a Marcellona e Pina Bonanno con Rosa Russo Iervolino allora presidente del Senato, con Agata Alma Cappiello (PSI), con il Ministro Ferri, con il questore di Roma, accompagnati dalla Senatrice Giglia Tedesco Tatò e Franco Corleone, nostri carissimi amici. E tanti altri ancora che non elenco.

Successe poi che Valeria Bono della Segreteria dei Verdi combinò un appuntamento con Primo Mastrantoni, allora consigliere della Regione Lazio, a cui partecipammo io e Roberta Ferranti (una delle pioniere): fu esattamente lì che si cominciò a progettare l’applicazione della 164, a permettere cioè che le persone trans potessero accedere a visite e cure in modo controllato e gratuito, soprattutto essere seguite e sostenute da specialisti. Fu lì che prese forma la possibilità dell’operazione gratuita con tutto l’impianto di regole e percorsi che essa comporta, e fu lì che nacque la Legge Regionale (Mastrantoni)-Regione Lazio, che fece da sponda all’avvio del servizio del San Camillo – SAIFIP (1990).

Quell’esperienza e tutto quanto avevamo messo in moto rientravano a tutti gli effetti nel percorso importante e prezioso avviato dalle donne negli anni ’70, che riportava la medicina alle persone, facendole uscire dall’esclusività di pochi: la famosa medicina dal basso che diede avvio ai tanti (purtroppo non più) consultori per la salute. In quel favoloso solco nascono altre esperienze in giro per l’Italia compresa quella bolognese del MIT, del 1994.

Ho aperto questa parentesi “storica” per chiarire e descrivere il percorso che ci porta al “qui e ora” che a molti resta sconosciuto, e per meglio affrontare il delicato problema sollevato dall’articolo dell’Espresso. Ci tengo a precisare che prima di allora l’intervento chirurgico, compresi tutti gli altri annessi e connessi, venivano effettuati all’estero ed erano molto costosi sia in termini di soldi che di salute. Successivamente (più o meno nella seconda metà degli anni ‘80) si cominciò anche in Italia ma solo a pagamento (e con prezzi proibitivi) presso strutture private, assolutamente non in quelle pubbliche.

Durante i sette anni seguenti l’approvazione della Legge Mastrantoni nacquero diversi centri in Italia e si sentì l’esigenza di confrontarsi per condividere esperienze e saperi: nasce per questo nel 1997 l’ONIG (Osservatorio Nazionale Identità di Genere) che mette in rete i vari centri specialistici con l’obiettivo sostanziale di creare un sistema di buone pratiche volte a migliorare il benessere psicologico e fisico delle persone transessuali. Pian piano le reti ONIG si allargano e si consolidano fino alla creazione, mi sia concesso, di un buon servizio riconosciuto spalmato su “quasi tutto” il territorio nazionale.

Il Consultorio MIT, risulta essere (in quegli anni) il primo esperimento di gestione/cogestione di un servizio tra pubblico e privato sociale in Italia e anche in Europa. E’ questa sua caratteristica (novità, sperimentazione) che ci ha fatto credere in quello che facciamo, non pensando di essere perfetti sicuramente, ma perfettibili sì, ed è questa la carica che ci ha fatto sopravvivere in mezzo a tantissime difficoltà.

Sottolineo che tutto questo ci ha esposti a una responsabilità grande, forse enorme per le nostre capacità e possibilità, quella che riguarda la salute di migliaia di persone, perché in Italia, mentre succedeva tutto questo, si è passati da quel migliaio circa degli anni ‘80 alle cinquantamila persone transessuali stimabili oggi. Da allora molto è cambiato, qualcosa in bene altro in peggio. Passi avanti sicuramente ne sono stati fatti tanti, con annessi problemi, difficoltà, tensioni in una realtà via via sempre più complessa.

In Italia a fronte dell’aumento esponenziale dei/delle transessuali, a fronte dell’aumento altrettanto esponenziale delle categorie e delle variegate esperienze trans (transgender, trans genitori, pan gender, queer, minori, detenut*, identità multiple, indefinite o indefinibili, ecc), non si è investito anzi si è sottratto. Come non pensare allo smantellamento progressivo del sistema di welfare che incide soprattutto sulla sanità e sui piani ad essa legati. Come non pensare agli attacchi violenti e continui della parte conservatrice della società che non permette ad alcun servizio (di quelli elencati) “eticamente attaccabile” di avere certezze e garanzie?

Come e cosa pensare di un sistema sanitario nazionale smembrato e svuotato che dovrebbe essere all’altezza di una domanda sempre più consistente e soprattutto sempre più esigente? Come non pensare oggi che l’offerta “a pagamento” delle strutture private si ponga, anzi si imponga sempre più come soluzione? E come non pensare di conseguenza a un ritorno, triste e scandaloso, di quel passato, quando per transitare ci si rivolgeva agli usurai del nostro benessere?

Non credo di dire nulla di nuovo nel denunciare la tendenza, in atto da anni, allo smantellamento del pubblico (in generale) a favore del capitale privato. Mi sembra chiaro che in queste condizioni il rischio è che l’operazione e le operazioni, comprese le cure, potrebbero tornare ad essere esclusiva di pochi. Per il MIT che da sempre si è fatto garante del benessere delle persone trans sarebbe una sconfitta, non tanto per l’associazione, ma per tutte le persone trans residenti in Italia.

Anche da queste considerazioni parte la campagna Un altro genere è possibile che il MIT ha lanciato per dare la possibilità di cambiare un nome non più corrispondente all’identità di genere sentita, anche quando non c’è stata l’operazione chirurgica. Possibilità che rappresenta il succo del disegno di legge (n. 405) presentata dal Senatore Lo Giudice, dove, ci tengo a ribadire, l’una non esclude l’altra, ma entrambe contribuiscono all’emancipazione e alla migliore qualità della vita, inserendosi nel solco della volontà di ampliare i diritti e le possibilità delle persone trans, ma non solo.

E’ anche doveroso e in questo frangente riportare dei numeri, quelli relativi alla riuscita totale o parziale dell’intervento chirurgico di cambio di sesso, o viceversa del suo fallimento o problematizzazione. Ricorrendo alle percentuali fornite dai centri, su 10 operazioni quelle riuscite sono 8, quelle con esito negativo 2. Le seconde, inutile dirlo, pesano più di cento andate a buon fine perché si tratta della vita di persone. Il campione rappresentativo dei dati è in possesso dei centri specialistici, il mio report si basa sull’utenza MIT.

Quando Alessandra Gracis afferma che la chirurgia in Italia non funziona ponendo come esempio/modello quello americano, dove lei ha avuto la possibilità di recarsi, ci troviamo di fronte a un evidente perdita di coordinate, perché si omette che i due sistemi sanitari (quello italiano e quello americano) sono diametralmente opposti. Il primo, essendo pubblico, garantisce a tutti l’accesso, mentre l’altro (vedi la grande battaglia di Obama) è esclusività di pochi. Ricordo ad Alessandra che molte persone trans americane si recano negli stati limitrofi (Messico, Equador, ecc) per effettuare l’intervento a prezzi più contenuti, tema questo affrontato al margine del Congresso Internazionale della WPATH nel 2005 organizzato a Bologna dal MIT, insieme all’allora Presidente Ely Coleman e Mariela Castro, ospite di quel simposio a rappresentare l’altra parte dell’America, quella dei non garantiti.

Non voglio dilungarmi oltre, ma ci tengo a sottolineare e porre all’attenzione tutti i rischi che questo discorso porta impliciti. I rischi di quelle battaglie che per quanto giuste e sacrosante mancano di strategia comune. Il MIT è stato e resta radicalmente sostenitore e difensore della salute e del benessere delle persone trans e per questo parteciperà a tutte le iniziative volte alla trasformazione del presente, al miglioramento della vita delle persone trans, alla difesa dei loro diritti e delle relative garanzie.

Lo stiamo già facendo nel MIT, confrontandoci sia come Direttivo che come Consultorio, come anche nell’ONIG la cui grande preoccupazione (checché se ne dica) resta sempre e comunque la salute e il benessere delle persone transessuali. La domanda per tutti resta – come procedere?

Facciamo nostre tutte le denunce di mala sanità sollevate da Alessandra e da tutte le persone trans che hanno subito dei danni reali e drammatici, con la speranza e l’invito a far rientrare le loro richieste in una strategia comune, intelligente, concordata e di rete. Facciamo molta attenzione perché il rischio di perdere quello che abbiamo conquistato è molto alto e su questo credo e spero che ognuno si assuma le proprie responsabilità, quelle di una popolazione di circa 50000 persone in Italia, della loro dignità, delle loro possibilità, dei loro diritti, compreso quello di cambiare sesso.

Con spirito di costruzione e collaborazione, come diceva Sylvia Rivera In the spirith of the Stonewall