1974: quel benedetto referendum sul divorzio di L.Sandri

Luigi Sandri
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Quarant’anni fa Vaticano ed episcopato – salvo eccezioni – si batterono per far vincere il Sì all’abrogazione della legge sul divorzio; ma vinse il No, per il quale si impegnarono anche molti cattolici, del disagio e del dissenso. E le gerarchie, sconvolte, scoprirono un paese laico, secolarizzato e con il gusto per la libertà di coscienza.

Sembra preistoria, eppure – storicamente parlando – è solo ieri: ci riferiamo alle vicende collegate al referendum sulla legge del divorzio, che ebbe luogo in Italia quarant’anni or sono, il 12 e 13 maggio 1974. Raccontare un pochino il «come eravamo», soprattutto a chi quei tempi non ha vissuto, ci sembra interessante, perché quella data, simbolicamente, può essere ritenuta uno spartiacque sia nella Chiesa cattolica – a livello di Santa Sede e di Italia – sia nella società.

Il dilemma Sì-No lacera la Chiesa cattolica

Da sempre quasi tabù nel mondo politico italiano, l’idea di introdurre una legge sul divorzio prese vita formalmente nel 1965, quando i radicali, con ardire, crearono la Lega italiana per l’istituzione del divorzio; da parte loro, due deputati, il socialista Loris Fortuna e il liberale Antonio Baslini unificarono le loro proposte sul divorzio che, infine, il primo dicembre 1970 divenne legge dello Stato. La Dc, pur contraria al testo, tenne a bada i suoi esponenti più antidivorzisti che volevano fare ostruzionismo; Paolo VI e gran parte dell’episcopato rimasero basiti. D’altronde, quasi in contemporanea con l’approvazione di quella legge, la Dc favorì, concordi gli altri partiti, l’approvazione di un’altra che precisasse le norme per attuare i referendum che, pur previsti dalla Costituzione, non erano mai stati celebrati.

Immediatamente venticinque personalità di area cattolica – tra esse l’ex sindaco di Firenze, Giorgio La Pira, il filosofo Augusto Del Noce, il giurista Gabrio Lombardi – si impegnarono per la buona riuscita del referendum abrogativo. Lombardi guidò un Comitato nazionale per il referendum sul divorzio che, elettrizzando diversi settori del mondo ecclesiastico, della base Dc e della base missina, entro il giugno 1971 raccolse ben 1.370.134 firme per chiedere, appunto, l’indizione della consultazione.

Dc e Pci, per evitare un passaggio che, per diverse ragioni, ritenevano insidioso, ipotizzarono varie soluzioni pur di evitare il referendum. Invano; e la consultazione fu indetta per il 12-13 maggio 1974: chi votava «Sì» avrebbe cancellato la legge in vigore, chi votava «No» l’avrebbe confermata. Tra i partiti, la gran maggioranza – comunisti, socialisti, socialdemocratici, repubblicani, liberali… – si schierarono per il No; per il Sì, invece, Dc, Msi e monarchici.

La campagna referendaria ebbe un effetto che forse i vertici ecclesiastici non avevano previsto nella sua ampiezza e, teologicamente parlando, nella sua drammaticità: la Chiesa cattolica italiana si spaccò come una mela. Il Sì – naturalmente per chi volesse essere un cattolico obbediente ai dettami del magistero ecclesiastico – era obbligatorio? Il No all’abrogazione era una legittima scelta politica o comportava un tradimento della dottrina cattolica (contraria al divorzio) e della comunione ecclesiale?

Ad innescare la contesa fu, di fatto, il Consiglio permanente della Cei che, in una notificazione del 21 febbraio 1974, affermava: «Il cristiano, come cittadino, ha il dovere di proporre e difendere il suo modello di famiglia». Il che è tanto «più urgente quando i valori fondamentali della famiglia sono insidiati da una legge permissiva che, di fatto, giunge a favorire il coniuge colpevole e non tutela adeguatamente i diritti dei figli, degli innocenti, dei deboli».

Seppure con toni cauti – invitava infatti a non trasformare la consultazione in una «guerra di religione»: un inciso, pare, suggerito dall’arcivescovo di Torino, cardinale Michele Pellegrino – i vescovi premevano per il Sì; e, localmente, la stampa diocesana spesso usò toni sanfedisti per obbligare moralmente i cattolici ad opporsi alla legge in questione. I gruppi legati a Lombardi, e movimenti quali Comunione e liberazione furono attivissimi per il Sì; gli anti-divorzisti godevano della protezione di Amintore Fanfani, segretario della Dc, e sotto traccia di quella di monsignor Giovanni Benelli, sostituto della Segreteria di Stato.

A questo blocco se ne contrappose un altro: circoli intellettuali; singole personalità; le Comunità cristiane di base; i «Cattolici democratici», alla cui testa, per così dire, si pose lo storico Pietro Scoppola, che lanciò un appello per il No, al quale aderirono, tra gli altri, Franco Bassanini, Paolo Prodi, Giuseppe Alberigo, Paolo Brezzi, Pierre Carniti, Raniero La Valle, Mario Pastore, Luigi Pedrazzi, Giancarlo Zizola, Adriana Zarri. Ma chi si oppose in modo più argomentato alla presa di posizione dei vertici della Cei fu Giovanni Franzoni, ex abate della basilica Ostiense, dimessosi da quella carica – a causa delle pressioni vaticane – nel luglio del ’73.

Il 14 aprile ’74, infatti, l’allora monaco benedettino pubblicò Il mio regno non è di questo mondo. Una risposta alla Notificazione della Cei sul referendum: un libro nel quale demoliva le argomentazioni teologiche accampate dai vescovi e proclamava il diritto di tutti, cattolici compresi, alla libertà di scelta nell’incombente referendum.

Pochi giorni dopo fu proibito a Franzoni di andare a parlare del divorzio; egli, pur ritenendo ingiusto l’ordine, obbedì, ma egualmente il 27 aprile fu sospeso a divinis. Il tutto senza alcun processo canonico. Anche alcune decine di preti «divorzisti» furono variamente puniti dai rispettivi superiori. Ma anche «laici» furono puniti: a Venezia il patriarca Albino Luciani, il futuro Giovanni Paolo I, sciolse la Fuci, gli universitari cattolici che si erano espressi per il No.

Assai inattesa ed amara per le gerarchie fu, oltre alla «risposta» di Franzoni, la scelta di Carlo Carretto. Questi, nel dopoguerra nominato da Pio XII presidente della Gioventù italiana di Azione cattolica, nel ’48 si era impegnato per far vincere la Dc alle politiche; distanziatosi poi dalla visione teocratica di papa Pacelli, nel 1952 si era dimesso e nel ‘54 era entrato a far parte dei Piccoli fratelli di Gesù fondati da Charles de Foucauld e, quindi, era partito per il Sahara, dove trascorse dieci anni di vita eremitica; quindi aveva fissato la sua residenza a Spello, vicino ad Assisi, dove moltissime persone si recavano per nutrirsi del suo messaggio spirituale.

Questo background aiuta a capire l’eco che ebbe una sua lettera a La Stampa del 7 maggio 1974: «[Nel referendum] è in gioco l’unità indissolubile del matrimonio o il rispetto per chi non ha la fede? Io in coscienza non ho dubbi in proposito. Nessuno di noi cristiani può mettere in dubbio le parole stesse di Gesù: “Non divida l’uomo ciò che Dio ha unito”, ma queste parole non possono essere usate con una legge civile verso coloro che non credono alla risurrezione di Cristo e che appartengono ad una società laica». Era lo smantellamento delle tesi ecclesiastiche che pretendevano il trionfo del Sì.

13 maggio 1974: emerge un’Italia ignota alla Cei e alla Dc

Infine, si votò: Sì 40,7%, No 59,3%. Per il Vaticano e per la Cei (e per la Dc) fu un terremoto: si ritrovarono d’un balzo dal Medioevo alla modernità, in un paese per essi irriconoscibile. E questo non solo per l’esito complessivo della consultazione, ma anche per la sua articolazione. Infatti, anche nelle regioni dove vinse il Sì – Veneto, Trentino-Alto Adige, Calabria, Campania, Puglia, Basilicata e Molise – esso prevalse di pochissimo, e dunque non bilanciò, come speravano Fanfani e Benelli, il No, il quale, poi, in talune zone del Nord e Centro Italia straripò.

La Cei, in un comunicato della presidenza del 14 maggio, «prendeva atto dei risultati in larga parte negativi del referendum abrogativo della legge divorzista», ma ribadiva il suo «profondo rammarico» per la vittoria del No. E Paolo VI, parlando il 15 maggio ad un gruppo di sposi novelli: «[Il suo risultato] è per noi motivo di stupore e di dolore, anche perché a sostegno della tesi, giusta e buona, dell’indissolubilità del matrimonio è mancata la doverosa solidarietà di non pochi membri della comunità ecclesiale»; e precisava: «La legge di Dio e della Chiesa, ricordiamolo, non è cambiata; e perciò, affinché tale comportamento [dei cattolici divorzisti] non si converta in loro perpetuo rimorso, vogliamo auspicare che anch’essi effettivamente si facciano con noi, cioè con la Chiesa cattolica, promotori della vera concezione della famiglia e della sua autentica fioritura nella vita».

Di nuovo la Cei, il 7 giugno, in un messaggio dell’Assemblea generale: «Siamo stati testimoni di alcune prese di posizione, di atteggiamenti e di scelte, sia individuali sia organizzate, che hanno dolorosamente sconcertato quanti si sforzano di sentire cum Ecclesia… Non possiamo non ammonire quei sacerdoti e religiosi che si sono fatti esponenti di una opposizione quasi radicale e non soltanto episodica all’insegnamento e all’orientamento dei vescovi e della Chiesa, venendo meno in tal modo al loro stesso ministero».

La vicenda referendaria dimostrò come il papa e l’episcopato (come corpo, perché singoli prelati, da Pellegrino ad Alessandro Maria Gottardi di Trento, erano apparsi a disagio rispetto alla vulgata vaticana), fossero convinti di vivere ancora in un regime di Cristianità, dove era «naturale» che lo Stato traducesse nelle leggi civili le indicazioni del magistero ecclesiastico; né riuscirono ad immaginare la piena legittimità di votare anche No, per motivazioni razionali, trattandosi di una norma civile e non del sacramento del matrimonio; né compresero che, alla luce della dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis humanae varata nel 1965 dal Concilio Vaticano II (cioè da loro stessi!), tentare di imporre il Sì vincolando moralmente le coscienze su di una opinabile legge civile era un vulnus gravissimo a tale libertà, e uno snaturamento dello stesso ministero episcopale; e ancor meno avevano capito che la modernità, la laicità e la secolarizzazione avevano fatto irruzione – e da tempo! – anche in Italia. Furono, insomma, pastori inadeguati; essi, e non i cattolici «divorzisti», ruppero la comunione ecclesiale. Ma, a quarant’anni da quel loro deragliamento, ancora non hanno pronunciato un onesto mea culpa.