Afghanistan, inizia il dopo Karzai

Michele Paris
www.altrenotizie.org

A quasi un mese dal primo turno delle elezioni presidenziali in Afghanistan, la Commissione Elettorale Indipendente del paese tuttora sotto occupazione occidentale ha reso noti i risultati quasi definitivi che prospettano, come previsto, il ballottaggio tra i due candidati con il maggior numero di consensi. Il più votato sembra essere l’ex ministro degli Esteri fortemente gradito agli Stati Uniti, Abdullah Abdullah, con il 44,9%, seguito dall’economista Ashraf Ghani con il 31,5%.

Fuori dai giochi è rimasto invece il presunto favorito del presidente uscente Hamid Karzai, l’altro ex ministro degli Esteri Zalmay Rassoul (11,5%). Quest’ultimo, tuttavia, assieme al quarto classificato, l’islamista Abdul Rassoul Sayyaf (7,1%), potrebbe giocare ora un ruolo di primo piano nelle trattative già in corso per garantire il proprio blocco elettorale a uno dei due candidati qualificatisi per il secondo turno.

I risultati appena annunciati sono comunque considerati ancora provvisori, visto che che essi dovranno essere combinati con il responso della commissione incaricata di verificare le denunce di brogli che pesano su circa mezzo milione di voti sui 7 milioni espressi.

Secondo quanto comunicato ai media dalle autorità afgane, i dati definitivi dovrebbero essere diffusi il 14 maggio prossimo e la data del ballottaggio – nel caso quasi certo che Abdullah non riuscisse a superare la soglia del 50% anche dopo un’eventuale modifica dei risultati preliminari – potrebbe essere fissata al 7 giugno.

Come previsto dalla Costituzione, il presidente Karzai non ha potuto candidarsi per un terzo mandato alla guida del paese centro-asiatico dopo avere vinto tra pesanti accuse di brogli nel 2004 e nel 2009. Cinque anni fa, in particolare, lo stesso Abdullah si rifiutò di partecipare al ballottaggio dopo essere giunto dietro a Karzai nel primo turno.

Scrupolo principale degli Stati Uniti, in ogni caso, è quello di installare a Kabul un nuovo governo fantoccio con un leader che causi meno problemi di quelli sorti negli ultimi anni dell’amministrazione Karzai, durante i quali il presidente ha ripetutamente criticato gli occupanti, soprattutto per i raid notturni delle forze speciali USA nelle abitazioni private dei cittadini afgani che continuano a causare vittime civili.

Obiettivo americano è in primo luogo quello di giungere finalmente alla firma del sospirato “trattato bilaterale per la sicurezza” che consentirà a Washington di mantenere un significativo contingente militare in Afghanistan dopo il ritiro delle forze straniere di combattimento previsto per il 31 dicembre prossimo.

Se Karzai si è ripetutamente rifiutato di sottoscrivere l’accordo a causa dell’impopolarità della presenza USA nel suo paese, tutti gli otto candidati alla carica di presidente hanno manifestato la loro intenzione di firmare il documento, negoziato da tempo con l’amministrazione Obama per assicurare la presenza indefinita in Afghanistan di circa dieci mila soldati in una manciata di basi militari.

D’altra parte, sia Abdullah che Ghani hanno avuto modo di mostrare la loro fedeltà all’autorità occupante negli anni successivi all’invasione. Il primo è stato il ministro degli Esteri di Karzai dal dicembre del 2001 al 2005 e, pur essendo di etnia mista Pashtun e Tagika, ottiene la gran parte dei consensi nel paese tra i membri della seconda. Inoltre, Abdullah è stato in grado di intercettare i voti dell’etnia Hazara grazie alla nomina a candidato alla vice-presidenza del “warlord” Mohammad Mohaqiq.

Ashraf Ghani, invece, ha vissuto a lungo negli Stati Uniti dove ha conseguito un master alla Columbia University e ha insegnato a Berkeley e alla Johns Hopkins. Di etnia Pashtun e ministro delle Finanze di Karzai tra il 2002 e il 2004, Ghani ha anche lavorato per la Banca Mondiale negli anni Novanta.

In queste elezioni si è presentato al fianco del candidato vice-presidente Abdul Rashid Dostum, leader dell’etnia Uzbeka e discusso comandante militare di una milizia anti-talebana che nell’ottobre del 2001 massacrò oltre duemila prigionieri arresisi nella località di Kunduz, nell’Afghanistan settentrionale.

Nonostante il vantaggio di Abdullah dopo il primo turno, l’esito finale della corsa alla presidenza appare tutt’altro che scontato. Il terzo classificato, Abdul Rassoul Sayyaf, gode infatti del sostegno del potente clan Karzai, le cui risorse potrebbero risultare decisive per il candidato che eventualmente riuscirà ad assicurarsi il suo appoggio in vista del ballottaggio.

Sia Abdullah che Ghani hanno inoltre già promesso un qualche ruolo per Karzai all’interno della nuova amministrazione. Il presidente e il suo clan, da parte loro, sono fortemente interessati a mantenere gli appoggi necessari per conservare le ricchezze accumulate in questi anni e la loro posizione di potere in Afghanistan.

Secondo i media occidentali, il primo turno delle presidenziali andate in scena il 5 aprile scorso sarebbe stato un successo inaspettato. Su 12 milioni di elettori registrati, 7 si sono recati alle urne, anche se più di un seggio su dieci è rimasto chiuso per il timore di possibili attacchi dei Talebani.

Questi ultimi, tuttavia, non sono stati protagonisti di incursioni su larga scala come nelle elezioni precedenti, secondo molti osservatori per risparmiare le forze in previsione della tradizionale offensiva di primavera che potrebbe essere scatenata nelle prossime settimane.

Pur in un clima relativamente normale, il voto si è tenuto alla presenza di centinaia di migliaia di soldati afgani dispiegati per il paese, mentre nelle città principali come Kabul o Kandahar la popolazione è stata sottoposta a numerosi blocchi stradali e a controlli pervasivi.

Gli Stati Uniti, infine, oltre ad avere finanziato con oltre 100 milioni di dollari la consultazione elettorale che dovrebbe segnare il primo passaggio di poteri pacifico nella storia dell’Afghanistan, continua ad avere 33 mila soldati nel paese sui 50 mila totali che compongono le forze di occupazione.

Un simile scenario, perciò, rende a dir poco assurde le congratulazioni espresse dall’amministrazione Obama per il processo “democratico” di un Afghanistan “sovrano”, rivelando ancora una volta l’ipocrisia della politica estera degli Stati Uniti, fortemente critici – ad esempio – nei confronti del presunto ruolo della Russia nel referendum, non riconosciuto, organizzato in Crimea nel mese di marzo.