Al Sisi: futuro faraone d’Egitto?

Mostafa El Ayoubi
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Quando il 3 luglio 2013 l’islamista Mohamed Morsi, eletto presidente dell’Egitto nel giugno 2012, è stato deposto per mano di Abdel Fattah al Sisi, capo delle forze armate, ministro della Difesa (e attuale vice primo ministro), non tutti gli osservatori erano d’accordo nel definire quell’operazione un colpo di stato militare.

Secondo la narrazione ufficiale, la rimozione di Morsi è stata voluta da 30 milioni di egiziani scesi in piazza il 30 giugno 2013 e il Consiglio supremo delle forze armate (Csfa) è intervenuto in nome del popolo e della democrazia.

In realtà è stato l’esercito a strumentalizzare la piazza per riprendere il potere che aveva ceduto per un anno agli islamisti. Infatti il generale al Sisi – che di fatto gestisce l’attuale fase di transizione – si è ufficialmente candidato nel marzo scorso, dopo aver lasciato il suo incarico di capo del Csfa, alle elezioni presidenziali del 26-27 maggio prossimo. E salvo clamorosi colpi di scena l’ex generale verrà incoronato a giugno come nuovo rais dell’Egitto. In questo paese, avere al vertice dello Stato un militare è una tradizione iniziata nel 1952, anno in cui l’esercito con un colpo di Stato strappò il potere al monarca Farouk. Prassi interrotta solo nel 2011 dopo la rivoluzione del 25 gennaio.

L’esercito non è mai stato in Egitto (o altrove) un promotore della giustizia sociale e della democrazia. Dopo 62 anni di egemonia militare, l’Egitto, nonostante le sue grandi risorse, è un paese povero: il 22% degli 85 milioni di egiziani vive sotto la soglia di povertà; il reddito procapite annuo è sotto i 7 mila dollari (in Italia è di circa 30mila dollari).

Storicamente era nota la connivenza tra la giunta militare e il regime di Mubarak, il quale aveva sottratto al popolo egiziano decine di miliardi di dollari. E non è un segreto per quasi nessuno che più del 30% dell’economia del paese è in mano all’elite militare che ha sempre esercitato una forte influenza su tutti i settori della vita pubblica e privata.

Come può, quindi, l’esercito che ha sostenuto una dittatura ed è di conseguenza corresponsabile delle ingiustizie sociali e del sottosviluppo del paese, diventare all’improvviso un fautore della democrazia? Una parte della popolazione non sembra porsi questa domanda. Molti egiziani, di tutte le fasce sociali (contadini, operai, impiegati, giornalisti, intellettuali, ecc) acclamano ormai da 11 mesi il generale al Sisi «for president». È schierato sulla stessa linea una parte dell’apparato amministrativo pubblico. La televisione di Stato è impegnata ormai da mesi nel sostegno di al Sisi. A suo favore si è già espressa ufficialmente anche la dirigenza dell’Unione generale dei sindacati. Le elezioni di fine maggio rischiano di trasformarsi in una proclamazione a furor di popolo per il «futuro» faraone d’Egitto.

Inoltre, la candidatura di al Sisi è vista di buon occhio dagli Usa, dove il generale si è formato militarmente. È sostenuta fortemente dall’Arabia Saudita, che ha già donato diversi miliardi di dollari all’attuale governo di transizione. Lo scopo principale dei sauditi è quello di sradicare il movimento dei Fratelli musulmani (Fm), considerato un pericolo per la loro stabilità politica e religiosa.

Con l’elezione quasi sicura del militare al Sisi, la storia è destinata con molta probabilità a ripetersi. La nuova Costituzione è stata concepita sotto l’egida dei militari per consentire loro di controllare la vita politica, sociale ed economica del paese. La Carta costituzionale approvata nel gennaio scorso prevede tra l’altro che: per i prossimi otto anni la nomina del ministro della Difesa sarà di fatto una prerogativa dello Stato maggiore dell’esercito; i militari attraverso i loro tribunali possono processare i civili; il governo e il Parlamento non possono accedere ai conti dei militari, i quali gestiscono una porzione importante dell’economia egiziana.

In questi 11 mesi di governo di transizione gestito dai militari, vi sono stati segnali preoccupanti sul rischio di una deriva autoritaria.

Il sistema giudiziario – perno della democrazia negli stati moderni – oggi in Egitto è sotto il controllo dell’esercito. Il ruolo dei giudici si è limitato spesso a quello della

caccia alle streghe. Il processo contro Morsi, che rischia la pena capitale, ne è un esempio: uno dei principali capi d’accusa contro di lui è di essere scappato dal carcere dove era detenuto come prigioniero politico nella fase finale dell’era Mubarak. A marzo scorso un tribunale egiziano di primo grado ha emesso una sentenza di condanna a morte contro 529 esponenti dei Fm. Tale provvedimento

– che ricorda remoti tempi bui della storia umana – trova spiegazione nelle campagna di repressione perpetrata dai militari nei confronti dei loro avversari politici: la messa al bando dei Fm, il loro inserimento nelle lista dei movimenti terroristici e l’incarcerazione di oltre 15mila adepti. La repressione non riguarda solo gli islamisti, ma tutti coloro che hanno osato scendere in piazza per protestare contro l’operato del governo attuale. A fine marzo un tribunale d’appello ha confermato la condanna a tre anni di reclusione per tre attivisti laici, tra cui il leader del movimento 6 Aprile, uno degli principali protagonisti della rivoluzione del 25 gennaio.

L’organizzazione Human Rights Watch ha definito la repressione contro gli oppositori «un colpo di grazia per la rivoluzione». Amnesty international l’ha definita come «un nuovo giro di vite contro la libertà di espressione e la legittima critica nei confronti delle autorità governative».

La scelta dell’opzione militare voluta da una parte della popolazione – per scongiurare una deriva teocratica e ristabilire uno standard accettabile di sicurezza e stabilità sociale – rischia tuttavia di complicare la crisi egiziana. Non bisogna dimenticare che esiste un’altra parte altrettanto importante della popolazione, in particolare quella vicina politicamente ai Fm, che non condivide questa scelta e continua a sostenere il movimento.

Certo, il movimento (che ha vinto le elezioni legislative e presidenziali dopo la caduta di Mubarak) aveva commesso gravi sbagli e si è mostrato incapace di governare, ma cacciarlo via con un golpe militare è stato un clamoroso errore. Ma è ancora più grave l’errore di sostituire Morsi con il militare che lo ha deposto e che rappresenta quella nomenclatura che ha oppresso il popolo egiziano per decenni.

Il ritorno di un generale al vertice dello Stato rischia di spaccare definitivamente il paese e trascinarlo verso una crisi ancor più buia con più povertà, più repressione/terrorismo!