Le ragioni dell’Europa

Paolo Fabbri
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Si respira, in mezzo alla gente, un senso di sconcerto misto a protesta, spesso alimentata da parti politiche interessate prevalentemente a raccogliere voti con il retropensiero che, a salvare la zattera su cui stiamo navigando nel nostro tentativo di salvezza da una situazione obiettivamente molto grave, ci penseranno altri. Nella confusione si sentono slogan del tipo: «Ci vuole più Europa» oppure, al contrario, «Ci vuole meno Europa», come se la formazione di un grande stato federale europeo fosse un problema quantitativo. Per orientarci in questo momento di grande delicatezza e difficoltà, è utile riandare alla origini del movimento che sta alla base del lungo e complicato percorso verso l’attuale Unione Europea, per capirne i fondamenti e gli obiettivi.

La pace. Il panorama che avevano di fronte Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, quando posero mano al Manifesto di Ventotene, il documento che fece nascere il movimento teso a costruire uno stato federale europeo, era quello di un’Europa distrutta da guerre fratricide, motivate da nazionalismi di antica e complessa radice. Il pensiero dominante in quella situazione era uno solo: la pace. Per l’ennesima volta l’Europa era stata sconvolta dalla guerra: religioni, nazionalismi, potere, interessi economici erano stati, con miscele diverse, causa di secoli insanguinati. Non era sufficiente dire basta, bisognava trovare una soluzione più efficace per impedire ai popoli dell’Europa di sbranarsi fra loro.

La ricostruzione. l problema strettamente collegato era la ricostruzione. Come creare le basi per ricostruire un’Europa distrutta dai bombardamenti e dai cannoni, fiaccata nel morale, lacerata negli affetti e negli ideali? Alla ricostruzione bisognava associare l’idea di uno sviluppo continuativo, tale da ridare la speranza a popoli feriti non solo nei beni ma anche negli affetti e nella fiducia verso un futuro migliore, un futuro di pace.

La ricostruzione doveva diventare qualcosa di duraturo, proiettato verso un mondo per cui valesse la pena di proiettarsi in avanti: la ricostruzione doveva convertirsi in sviluppo, uno sviluppo continuo, non solo di quantità ma anche di qualità della vita, non solo per pochi ma per tutti, capace di creare condizioni per dare lavoro a tutti e per consentire a tutti di goderne i vantaggi. Una operazione di enorme portata resa possibile da una base culturale comune: l’Umanesimo e il gotico del ‘400, il Rinascimento, il Barocco e la ricerca scientifica del ‘600, l’Illuminismo del ‘700, il Romanticismo del ‘800 sono stati movimenti europei e come tali costituiscono una grande base culturale comune, su cui innestare l’innovazione, in qualche modo di derivazione europea, dello stato federale.

Portare in Europa lo stato federale. L’intuizione geniale dei due grandi personaggi esiliati nell’isola di Ventotene fu: portiamo in Europa lo stato federale inventato dagli americani. Gli Stati Uniti d’America erano nati con esigenze analoghe a quelle europee ed erano riusciti nell’impresa di mettere insieme popoli di culture ed esperienze storiche molto diverse fra loro, raccogliendo le elaborazioni teoriche dei tre giuristi (A. Hamilton, J. Jay e J. Madison) che avevano elaborato gli elementi basilari del nuovo stato nel fondamentale testo The Federalist, che, in sintesi, prevedeva la centralizzazione di tre poteri: la politica estera, la politica militare, la politica monetaria (moneta unica). La teoria c’era, bisognava trasformarla in volontà politica. Nacque così, nel dopoguerra il Movimento Federalista Europeo. In breve, grazie alla militanza instancabile di Spinelli, cui si erano aggiunti Mario Albertini, Luciano Bolis, Alberto Cabella (valdese) e molti altri, l’idea cominciò a trovare sostenitori un po’ in tutto il continente.

Un processo graduale e incompleto. Le conseguenze pratiche furono però meno lungimiranti e molto graduali: dapprima si fece la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (Ceca) fra Italia, Francia, Germania, Olanda, Belgio, Lussemburgo, poi il Mercato comune europeo (1956), successivamente si decretò l’elezione a suffragio universale mentre gli aderenti si allargavano (1976), per arrivare nel 1999 alla moneta comune: l’euro, con una partecipazione che si differenziava fra chi accettava anche l’euro e chi restava nei trattati precedenti ma rimaneva fuori dall’euro. Appare del tutto evidente che il processo di costruzione di uno stato federale europeo è andato avanti a strappi, arrivando a un passo dalla conclusione, senza farlo.

Uscire dall’euro? Ci troviamo ora a un punto in cui retrocedere a livello di stati nazionali significherebbe affrontare un percorso difficilissimo, lungo, con implicazioni connesse all’abbandono della moneta unica che significherebbero per alcuni (Germania in testa) sopravvalutazioni monetarie, per altri (Italia e tutti i paesi del Mediterraneo) svalutazioni con facilitazioni all’export ma aumento dei costi all’import − letali per l’Italia che compra all’estero tutte le materie prime, gran parte della componentistica e molti prodotti agricoli. A tutto ciò va aggiunto un aumento dello spread ai livelli precedenti il governo Monti, con costi di interessi passivi maggiori stimabili in 50-60 miliardi di euro. Il percorso verso lo stato federale europeo è andato avanti a strappi, sull’onda della volontà politica di alcuni grandi uomini ma non è riuscito a fare il passo decisivo. Non si tratta di più o meno Europa, si tratta di essere a tre quarti di una parete da scalare irta di ostacoli: il ritorno a corda doppia non esiste, la discesa sarebbe lunga ed estremamente pericolosa, l’avanzata possibile con intelligenza e buona volontà. Il quesito è ora: vale la pena di fare lo sforzo finale? Una propaganda superficiale o, più probabilmente, interessata a prender voti dagli scontenti, attribuisce la responsabilità delle attuali difficoltà dell’Italia alla rigidità del governo tedesco, ma tali difficoltà dipendono esclusivamente dalla gestione sconsiderata del bilancio pubblico da parte del nostro e di altri paesi, generando un debito insostenibile che giustifica una sorveglianza attenta della nostra gestione, per evitare un tracollo, che ricadrebbe sulle spalle di tutti.

Stati Uniti d’Europa, per la pace e lo sviluppo. In conclusione, torniamo alle due grandi motivazioni per uno stato federale europeo. Circa il primo, la pace, di fronte alle vicende dell’Ucraina, ci sentiamo di pensare che gli Stati Uniti d’Europa non sarebbero un potente elemento di dissuasione da azioni unilaterali dell’Unione Sovietica? E il Medio Oriente? E il Nord Africa in subbuglio? Gli Stati Uniti d’Europa potrebbero essere un potente strumento di pace esercitando una efficace moral suasion nelle aree che più ci interessano da vicino. Infine, lo sviluppo: la centralizzazione di poteri come la difesa e la politica estera porterebbero di per sé un contenimento delle spese ma, soprattutto, un governo federale potrebbe fissare alcune regole comuni per le politiche di spesa pubblica, evitando il ripetersi di situazioni come quelle attuali in cui vari stati si sono indebitati oltre ogni limite sopportabile, ma soprattutto bisogna considerare che la competizione sui mercati, nei prossimi decenni, sarà tra stati di dimensione continentale: Usa, Cina, India, Brasile, Russia, nei confronti dei quali l’Europa unita avrebbe possibilità di competere molto maggiori rispetto alla situazione attuale, eliminando gli ostacoli di pastoie burocratiche dovute al persistere degli stati nazionali. Infine, è fuori luogo pensare che il confronto fra il mondo protestante nordico e quello cattolico/ortodosso del sud potrebbe approfondirsi e fare passi avanti più facilmente con reciproco vantaggio?