Cinque minuti di vergogna
Fabrizio Casari
www.altrenotizie.org
I cinque minuti di vergognosi applausi del Sap ai suoi affiliati condannati sono la cifra reale di chi ritiene che l’Italia sia una sorta di fattoria degli animali di sapore orwelliano, dove tutti sono uguali ma qualcuno è più uguale degli altri. Quel qualcuno indossa un’uniforme e plaude ai colpevoli della morte di una persona innocente. Sono diversi i casi ormai nei quali l’abuso reiterato di potere si esprime con l’uso incontrollato della violenza su singoli malcapitati fermati dalle cosiddette forze dell’ordine.
Federico Aldrovandi, 18 anni, fermato e pestato fino a morirne da quattro poliziotti a Ferrara la notte del 25 Settembre 2005; Stefano Cucchi, 31 anni, letteralmente ammazzato di botte durante il fermo il 22 Ottobre del 2009; Giuseppe Uva, 43 anni, muore dopo una notte in caserma a Varese il 14 Giugno 2008; Michele Ferrulli, 51 anni, morto per arresto cardiaco mentre quattro poliziotti lo stanno arrestando a Milano; Riccardo Magherini, 40 anni, morto a Firenze mentre i carabinieri lo stanno arrestando, sono solo alcuni, i più eclatanti e recenti casi di morti sotto le mani di agenti che avevano il totale controllo dei rispettivi arrestati.
Non è più un caso isolato ormai: troppo spesso accade che i fermati da inermi si trasformano in inerti. A questo già insopportabile elenco potrebbero poi aggiungersi altri nomi, luoghi e nazionalità, per non parlare di persone pestate a sangue che sono però in qualche modo sopravvissute all’incubo.
E ancora, si può elaborare una lunghissima lista di morti e feriti in operazioni di piazza, quasi sempre destinatari di un livello di violenza completamente inutile ai fini dell’allontanamento dei manifestanti ed al ripristino del controllo di strade e piazze e alla loro agibilità, che dovrebbe essere la funzione primaria delle forze di polizia impegnate nel servizio d’ordine pubblico. Da anni non c’è corteo che non veda protagonisti agenti maneschi, armati di odio e impunità, scagliarsi con inaudita violenza contro chi non può reagire.
Quei cinque minuti d’infamia durante il congresso del Sap, dimostrano però che l’annosa lamentela sulle difficilissime condizioni in cui operano (ma quali sarebbero mai?) che porterebbe ad eccessi incontrollati i tutori dell’ordine pubblico, regge poco. In quella riunione sindacale non c’era nessun pericoloso nemico a fronteggiare “gli eroi”. L’applauso liberatorio e solidale verso i colleghi accusati di omicidio ribadiva invece, oltre al fastidio per la madre di Aldrovandi, un sentiment fascistoide dello spirito di corpo, che quando viene messo in violazione delle leggi, sia chiaro, diventa spirito di casta.
Della protezione della comunità, della tutela dei cittadini a quei convenuti plaudenti non interessa affatto: interessa invece ribadire che nessuno può giudicarli, che le loro azioni e i loro eccessi debbono godere di impunità e le ridicole dichiarazioni a discolpa assumano valore d’intangibilità. Pagati da tutti noi, si sentono contro di noi.
Nessuno si sarebbe adombrato se il Sap avesse voluto offrire sostegno alla vicenda giudiziaria degli agenti coinvolti nell’uccisione di Federico Aldrovandi: certo non sarebbe stato possibile applaudire all’iniziativa, ma sarebbe rimasta nella cornice dello scontro processuale e della tutela del sindacato nei confronti dei propri iscritti. Invece no.
L’applauso è stato diretto non a presunti agenti innocenti, ma ad agenti colpevoli, così come dichiarato da una sentenza del tribunale. Colpevoli di aver ucciso un ragazzo innocente che dunque, a detta del Sap, sarebbe morto per pura casualità mentre veniva fermato.
Con l’eccezione di Giovanardi, che è il lato macchiettistico della politica, la dimostrazione di come questa sia ormai da tempo relegata nei bassifondi dell’intelletto, il resto del sistema politico ha in qualche modo espresso il suo sdegno per quei cinque minuti che gettano vergogna sull’insieme delle forze dell’ordine. Dal Presidente Napolitano al Ministro dell’Interno Alfano, fino al Capo della Polizia Pansa, non si può negare che le affermazioni di condanna verso i plaudenti si sia manifestata ampiamente.
Ma la questione, qui ed ora, non è quanto possa essere netta bensì concreta la condanna. Indicare cioè cosa fare per invertire il cammino dell’immunità di fatto. E allora bisognerebbe avere il coraggio di dire alcune cose in maniera chiara, la prima delle quali è che la democratizzazione della polizia è stato un percorso compiuto a metà e rapidamente abbandonato nel ventennio delle destre che hanno guidato governi e scritto leggi votate a ristabilire l’accanimento contro la devianza sociale e l’ultragarantismo verso i potenti. Sì è rafforzato l’impianto giustificazionista e perdonista verso gli abusi del potere, mentre si è alzata a livelli cileni la durezza delle sanzioni per chi manifesta idee e comportamenti giudicati “antagonisti”.
In questo quadro ideologico, che ha riproposto in buona sostanza una concezione di classe della giustizia, sono cresciute due leve di agenti e carabinieri. Ed è impossibile non notare come l’accanimento violento di alcuni agenti di pubblica sicurezza nei confronti dei fermati, dei manifestanti, di qualunque cittadino essi ritengano vada controllato, indica che il sottofondo “culturale” nel quale vengono educati preveda considerare chi l’uniforme non l’indossa, come altro da loro, come un potenziale pericolo, un possibile nemico.
Dunque i responsabili degli abusi non sono solo gli agenti che li compiono, ma anche chi ha indicato un’area d’impunibilità per loro, chi li ha istruiti alle maniere spicce nei confronti di chi si trovano di fronte, chi ha spiegato loro che l’autorità non può essere discussa e che il solo manifestare sia già in qualche modo un atto d’insubordinazione sociale che va represso.
Per cambiare questo stato di cose serve una formazione qualificata dal punto di vista culturale e non solo tecnica e vanno stabilite norme molto più stringenti e severe nei confronti di chi, ignorando i doveri che comporta l’indossare una divisa, possa dar luogo ad abusi coperti dal diritto de facto ad esercitarli.
Nessuno può morire o venire pestato quando si trova nelle mani delle forze dell’ordine. La condizione di fermato non può diventare quella di ostaggio. Servono sanzioni amministrative e penali, servono provvedimenti chiari che indichino la violazione dei compiti di tutela dei cittadini come elemento d’incompatibilità con la divisa.
Non esiste autorità che non abusi senza la minaccia delle leggi che li sanzionano. Per fortuna i poliziotti che svolgono degnamente il loro lavoro sono la grande maggioranza. Se il convincimento di svolgere il proprio lavoro con passione e professionalità è il merito degli agenti migliori, sarà il timore di essere giudicati con almeno pari severità di ogni altro cittadino a fermare le ansie bellicose dei bulli in uniforme. Di fronte alla violazione delle leggi e agli abusi di potere l’uniforme non può essere un’attenuante, semmai un aggravante. Se non altro per uscire da un paradosso di un Paese in gran parte in mano alla criminalità, nel quale però gli abusi delle forze dell’ordine sono contro gli innocenti.
——————————————————-
Alle radici degli appalusi del Sap: la democrazia autoritaria e l’idea di Europa
Lorenzo Guadagnucci
www.micromega.net
Qui sotto il testo dell’intervento che ho preparato per intervenire alla Festa del 1 maggio organizzata dall’Istituto De Martino di Sesto Fiorentino, che cura la memoria e la custodia della tradizione del canto popolare e politico.
Come qualcuno di voi saprà il Comitato Verità e Giustizia per Genova è nato all’indomani del G8 di Genova, un evento che fu definito da Amnesty International la più grave violazione di massa dei diritti civili avvenuta in Europa negli ultimi decenni. In questi anni ho imparato a conoscere da vicino il mondo delle forze dell’ordine. Sia nelle aule di tribunale, durante i processi Diaz e Bolzaneto, sia fuori, per gli approfondimenti che ho condotto per i miei libri, per la ricerca che ho avviato – secondo lo spirito della nonviolenza – al fine di conoscere l’altro, la mia controparte.
E’ sulla base di queste esperienze che non mi sono affatto stupito, nei giorni scorsi, di fronte all’ovazione tributata dal sindacato Sap a tre degli agenti condannati per la morte di Federico Aldrovandi. Non mi sono stupito, perché la protervia manifestata da quegli agenti, il loro rifiuto del verdetto dei tribunali, la loro indifferenza per il dolore della famiglia , la viltà che un gesto del genere porta allo scoperto, vengono da lontano, e potrei dire anzi che vengono dall’alto.
Il capo della polizia, il ministro dell’interno, il presidente del consiglio e il presidente della repubblica – giustamente – hanno espresso indignazione e hanno telefonato o inviato messaggi alla madre di Federico: hanno interpretato, in questo, un sentimento comune. Ma Patrizia ha chiesto loro gesti concreti e non parole. Ecco, gesti concreti – e a dire il vero anche parole – sono mancati in questi anni che ci separano dal G8 di Genova: ed è proprio dall’assenza di gesti concreti e di parole chiare che nasce l’orrore al congresso del Sap dell’altro giorno.
Il Sap, in fondo, non ha fatto che seguire la linea tracciata in questi anni dai capi della polizia, dai ministri degli interni e dai capi di governo che si sono succeduti. Tutti hanno evitato con cura di fare i conti con il G8 di Genova e quello che aveva da dirci in termini di degenerazione dei processi democratici. Abbiamo scoperto che la polizia italiana era in grado di violare, nell’arco di pochi giorni, numerosi articoli della Costituzione, oltre che tutte le principali regole di comportamento nella gestione democratica di una manifestazione pubblica. Abbiamo scoperto – con il caso eclatante di Bolzaneto – che in Italia si pratica con disinvoltura la tortura sui detenuti.
Abbiamo avuto processi – caso unico nella storia d’Italia – che hanno portato alla condanna decine di agenti per i maltrattamenti sui detenuti a Bolzaneto – maltrattamenti definiti come tortura dai giudici dle tribunale – e altissimi dirigenti di polizia per le violenze, i falsi e le calunnie alla scuola Diaz. La sentenza del 2012 ha decapitato il vertice della polizia italiana, si sono salvati, nelle altissime alte sfere della polizia, solo i due capi della polizia che si sono succeduti: De Gennaro e Manganelli, entrambi non imputati nel processo Diaz (ma De Gennaro è stato assolto, poi condannato in appello, infine assolto in Cassazione dall’accusa di induzione alla falsa testimonianza nel processo Diaz).
Ebbene di fronte a fatti storici accertati così gravi – il pestaggio brutale di decine di persone alla Diaz, poi arrestate sulla base di prove false; le torture sistematiche su decine di persone – e più tardi a sentenze così clamorose, in qualsiasi paese democratico sarebbe successo un terremoto. Avremmo avuto un repulisti ai vertici delle forze dell’ordine, sarebbero cadute le teste di ministri e sottosegretari, il parlamento avrebbe avviato una commissione d’inchiesta per capire che cosa accade all’interno delle forze dell’ordine. E così via.
Paolo Pietrangeli ha cantato alla Festa del 1 maggio a Sesto Fiorentino
Niente del genere è avvenuto. I dirigenti responsabili di quei fatti sono stati addirittura promossi, a inchieste e processi aperti, nel dispregio totale delle più banali esigenze di tutela della credibilità dell’istituzione. Le inchieste della magistratura sono state apertamente ostacolate. E – incredibile a dirsi – anche a processi conclusi non è successo praticamente niente, se si esclude l’effetto concreto stabilito dai giudici per chi ha avuto condanne superiori a tre anni, cioè l’interdizione per 5 anni dai publici uffici. Ma è un provvedimento che ha colpito un pugno di persone su circa 70 condannate fra Diaz e Bolzaneto. Si tratta peraltro dei dirigenti di più alto grado, i quali in quetso preciso momento si trovano agli aresti domiciliari.
E’ questo un dettaglio che pochi conoscono ma che ci dice molto sull’origine di fatti gravi come gli applausi al congresso del Sap. Questi altissimi dirigenti sono agli arresti domiciliari, per scontare il residuo di pena non coperto dall’indulto – da 6 a 12 mesi all’incirca – perché il tribunale di sorveglianza ha negato loro l’affidamento ai servizi sociali. Possiamo ben dire: è stato costretto a negarlo, perché questi dirigenti hanno dimostrato di non riconoscere le proprie responsabilità, hanno rifiutato di fare un gesto di scuse – come chesto dal giudice – verso le vittime degli abusi e anche di simbolico risarcimento. Di fatto hanno rifiutato la condanna; hanno proseguito in quel pericoloso corpo a corpo ingaggiato con la magistratura da loro stessi come imputati – avvalendosi ad esempio della facoltà di non rispondere – e dal corpo di polizia come istituzioni.
Non sono state avviati procedimenti disciplinari nei confronti dei condannati, la prescrizione che ha evitato conseguenze penale a quasi tutti i 44 processati nel processo per Bolzaneto, è stato vissuta come un’assoluzione. Governo e parlamento non hanno mosso un dito per trarre qualche insegnamento dalla lezione di Genova, non si sono chiesti se ci siano riforme da introdurre, ad esempio i codici di riconoscimento sulle divise o una legge sulla tortura vera, non quella oggi in discussione in parlamento, frutto di una sbagliatissima mediazione al ribasso, col risultato di depotenziarne il suo valore etico e formativo.
Il pm Enrico Zucca, durante il processo, ha detto a chiare lettere che i vertici di polizia hanno tenuto un comportamento omertoso, facendo somigliare il processo Diaz a un processo per mafia. E a processi conclusi, commentando il dopo, ha detto che “la cosa che ancora oggi mi sconcerta è il perdurare del silenzio, l’assenza di qualsiasi reazione all’interno dei corpi istituzionali. Non ci sono segnali di ripresa. E non c’è molta speranza perché il riferimento ai valori della costituzione non è sentito in maniera forte come in altri paesi. Non c’è un patrimonio ideale da presevare, c’è la doifesa del proprio potere personale”.
Ecco quali sono le radici degli applausi ai tre poliziotti condannati durante il congresso del Sap. E’ nell’esempio che viene dall’alto. C’è una coerenza di fondo con la condotta seguita dal vertice di polizia e purtroppo dagli stessi sindacati di polizia – si può dire tutti i sindacati, con deboli e parziali eccezioni – in questi anni. Logica corporativa, assenza assoluta di trasparenza, indisponibilità a rendere conto del proprio operato, rigetto della funzione di garanzia della magistratura e dei suoi stessi verdetti.
Ne viene fuori il ritratto di forze dell’ordine pressoché estranee alla cultura democratica e costituzionale. Di questo parliamo quando parliamo degli appluasi al congresso del Sap. Le nostre forze di polizia non hanno bisogno d’essere blandite nel loro autismo, devono semmai essere aiutate a trovare forme di dialogo con la società; non hanno bisogno d’essere assecondate nel rifiuto del giudizio esterno, ma devono essere spinte a rendere sempre conto del proprio operato. Tocca alla politica, al parlamento svolgere questo ruolo, se vogliamo che la nostra democrazia – già debilitata, già in cattiva salute – non sia travolta da violenze crescenti, da limitazioni sempre maggiori alla libertà d’espressione e di azione politiche. Mentre si rifiutano i codici di riconoscimento e si svuota dall’interno il reato di tortura, mentre si protegge il sistema di potere che guida con protervia la polizia di stato da almeno 15 anni, si comincia a parlare di cortei da limitare, da confinare ai margini delle città, di regolamenti al diritto di manifestare.
Di questo, io credo che parliamo quando evochiamo l’idea di democrazia autoritaria. E’ il tema di oggi in Italia come nel resto d’Europa. Sotto questo profilo, siamo un paese speciale per la straordinaria indisponiblità del corpo di polizia a rendere conto del proprio operato, ma non facciamo eccezione rispetto all’impoverimento della qualità delle democrazie nel continente europeo.
La questione delle polizie e dell’ordine pubblico è oggi particolarmente importante, proprio perché viviamo una fase di crisi ideale e politica, oltre che di recessione economica, una fase nella quale il ruolo degli stati nazionali è ridotto ai minimi termini: nell’Europa governata dalle oligarchie finanziarie e tecnocratiche, agli stati è affidato il compito di applicare le “ricette” economiche concepite da quelle oligarchie – riduzione della spesa pubblica, privatizzazioni, riduzione del ruolo dello stato nell’economia, smantellamento progressivo dello stato sociale e così via, secondo i dettami dell’ideologia neoliberale, motivati in primo luogo dalle catene del debito – e di garantire l’ordine pubblico.
Abbiamo sistemi democratici sempre meno titolari di consenso popolare, vedi la sempre più scarsa partecipazione al voto, e in contesti simili la storia insegna che il potere si tutela restringendo gli spazi di libertà. Le proteste popolari sono ancora temute e vengono affrontate con un misto di criminalizzazione mediatica e di pugno di ferro in piazza e nei tribunali. Succede in Italia, succede forse ancora di più in altri paesi, attraversati da movimenti di contestazione imponenti (vedi Grecia e Spagna negli anni scorsi). La mobilitazione popolare è guardata con sospetto; le forze di polizia tornano ad essere il principale strumento di gestione del potere senza o con poco consenso: perciò, nel caso italiano, non si osa dire la verità su quel che è accaduto dopo Genova 2001, perciò si permette che la democrazia resti sulla porta delle forze di sicurezza.
Viviamo probabilmente mesi, anni decisivi per il futuro della democrazia nel nostro continente. E’ una stagione pericolosa, e non c’è giurista, filosofo, sociologo che non guardi con allarme all’impoverimento dei nostri sistemi democratici, espropriati dai grandi istituti finanziari e da organismi sovranazionali che in alcun modo rispondono ai cittadini del proprio operato.
La politica è svuotata dall’interno, perché privata della sua vocazione autentica: definire i fini, gli scopi della società; dare corpo, per quanto riguarda la nostra parte, a quegli ideali di uguaglianza, di giustizia sociale, di solidarietà che sono il motore della vita pubblica, dell’organizzazione sociale. Oggi in politica non esistono più gli ideali. Le grandi questioni – come l’obiettivo dell’uguaglianza o la preservazione sul pianeta di buone condizioni di vita per le prossime generazioni – sono più che subordinate alle regole di un sistema economica che si presenta come immodificabile e privo di alternative; le grandi questioni sono state sfrattate dal discorso pubblico.
Io credo che la democrazia in Italia e in Europa possa essere salvata dalla sua deriva autoritaria solo se saremo capaci di recuperare la dimensione ideale della politica. Se sapremo chiamare le cose con il loro nome. George Orwell diceva che la corruzione di un regime si misura dalla sua incapacità di chiamare le cose con il loro nome. Noi dobbiamo saper dire che viviamo in regimi a-democratici, la democrazia sta diventando solo forma, come una maschera che nasconde i veri poteri; dobbiamo chiamare la tortura con il suo nome, qualificandola per quello che è; dobbiamo tornare a dire che i parlamenti sono i luoghi del confronto e della rappresentanza, e non fastidiosi impicci ereditati dalla stagione delle costituzioni antifasciste e orientate a sinistra, come ha scritto qualche mese fa in un suo rapporto la banca d’affari JP Morgan; dobbiamo saper reagire al presidente della Banca europea quando dice, con leggerezza ma svelando il senso vero di quel che sta avvenendo, che il modello sociale europeo, cioè lo stato sociale universale, è finito: quando parla così, Mario Draghi, sta in realtà minando le stesse ragioni del processo di unificazione europea.
Un’ultima parola proprio sull’Europa. In questa stagione corrotta, in cui – come appunto diceva Orwell – non riusciamo a chiamare le cose con il loro nome, perché il nostro sguardo è distorto o forse paralizzato, stanno rinascendo in Europa nuove forme di nazionalismo e perfino di fascismo. La persecuzione del popolo rom è un termometro eloquente della rinascita di un razzismo che trova spesso, sempre più spesso, forme di legittimazione istituzionale. Per chiamare le cose con il loro nome, credo che sia giusto dire che lo stato sociale europeo – pur con tutti i suoi difetti, le sue mancanze, la sua non omogeneità nei 28 pesi che attualmente formano l’unione – è probabilmente il più importante e più prezioso risultato politico e sociale ottenuto dalle democrazie europee nel secolo scorso e forse nella storia: andrebbe semmai migliorato e replicato in altre zone del pianeta, e non ridotto se non liquidato come vorrebbero le oligarchie che al momento ci governano. E possiamo anche dire che l’idea, quell’apparente follia di un’Europa federalista concepita nell’isola carcere di Ventotene è fra le idee più ardite, più originali, più proiettate nel futuro che siano state concepite in seno alla sinistra europea, in una corrente che era a dire il vero marginale nella sinistra europea, ma che oggi può essere riconosciuta per quel che è: un avanzatissimo progetto di pace e di trasformazione radicale delle nostre società; un progetto di democrazia radicale che rischia d’essere svuotato e ridotto a mero simulacro: dobbiamo invece riprenderlo in mano, tornare a quell’idea originaria d’Europa.
Se vogliamo essere fedeli a quelle idee, se vogliamo salvare l’Europa dall’involuzione autoritaria che l’assedia, io credo che dobbiamo osare più democrazia. Non possiamo accontentarci di un parlamento che rimane l’ultima, per peso politico, fra le istituzioni europee. La democrazia nel nostro continente sta deperendo a vista d’occhio, ci stiamo piano piano abituando ad accontentarci del suo simulacro – il voto ogni qualche anno e tutto il potere agli oligarchi, salvo la maschera dei governi nazionali o della Commissione europea. Osare più democrazia, pretendere più democrazia, chiamare le cose con il loro nome: se vogliamo gli Stati Uniti d’Europa dobbiamo tornare a pensare in grande e ingaggiare una lotta delle idee che superi la rassegnazione e il conformismo di questi anni.