Polizia violenta: un decalogo contro impunità e omertà

Patrizio Gonnella
www.micromega.net

La standing ovation degli iscritti al Sindacato Autonomo di Polizia verso i colleghi condannati per la morte di Federico Aldrovandi ha un sapore antico, pre-repubblicano, nonché intrinsecamente violento. Quell’applauso segna un’idea ben poco democratica di cosa deve essere il lavoro di polizia: sregolato, aggressivo, duro, feroce.

Quell’applauso ha riportato le forze di Polizia indietro di decenni, quando il corpo e l’anima delle persone erano nelle loro mani. Ieri il Sap è rimasto solo. E’ stato abbandonato da Matteo Renzi, dal capo della Polizia Alessandro Pansa e finanche da Angelino Alfano. Nel difendere e rivendicare quell’applauso il segretario del Sap ha sostenuto che la sentenza di condanna dei poliziotti sarebbe un errore giudiziario. Anch’io lo penso.

Effettivamente è difficile credere all’ipotesi di omicidio colposo e a ritenere equa una condanna a soli tre anni e mezzo di galera. Più ragionevole sarebbe stata una condanna per omicidio preterintenzionale. Ogni qualvolta a essere giudicato è un uomo in divisa per fatti di violenza da lui commessi il processo diventa difficile, lungo. I parenti della vittima vengono trasformati in colpevoli. Intorno all’imputato si stringe un cerchio di difesa pregiudiziale e corporativa. Si rischia spesso di arrivare alla prescrizione. Le indagini sono complicate.

I testimoni hanno paura di possibili ripercussioni. Quando le violenze accadono nelle carceri, nelle stazioni di polizia o nelle caserme dei carabinieri non vi sono telefonini o videocamere che riprendono le scene del delitto, come nel caso Magherini. Gli unici testimoni possibili sono i detenuti e i poliziotti. L’omertà prevale. Se non si azzera lo spirito di corpo la verità è ridotta a obiettivo irraggiungibile. Non poche volte, come nel caso Uva, lo spirito di corpo si irradia verso l’alto fino a ricomprendere anche quei pm che hanno compiti di investigazione.

Patrizia Moretti è una donna straordinaria, coraggiosa con un senso della giustizia fuori dal comune. Il Sap, come prima l’altro sindacato il Coisp, ritengono invece che la divisa costituisca una sorta di patente di impunità, una garanzia di immunità totale. In una democrazia fortunatamente non è così. I sindacati autonomi di Polizia, compresi quelli di Polizia Penitenziaria, sono una retroguardia culturale. Li abbiamo sempre visti collocarsi in difesa neo-corporativa di tutti gli accusati e condannati per violenze nei confronti di persone finite nelle loro mani. Allora come tacitare per sempre quell’applauso? Ripropongo un decalogo di cose da fare che è anche un appello al premier e al capo della Polizia.

1) Si introduca subito il delitto di tortura nel codice penale in modo che fatti gravi non siano trattati giudizialmente come minimali o secondari.

2) Si prevedano tempi non brevi di prescrizione. I processi per casi di questo genere sono difficili, lunghi. Richiedono dunque indagini meticolose che rompano il muro dell’omertà.

3) I Ministeri competenti avviino procedimenti disciplinari nei confronti dei presunti responsabili senza attendere gli esiti lunghi dei processi penali.

4) La prescrizione giudiziaria non deve mai essere valutata in sede disciplinare quale causa giustificativa di una decisione di assoluzione e di permanenza in servizio.

5) Si approvi un codice etico di condotta come quello suggerito dall’Onu per chiunque operi nei settori dell’ordine pubblico e della sicurezza.

6) Presso le Procure si istituiscano sezioni specializzate in fatti di questo genere che usino nelle indagini personale inter-forza di polizia il quale a sua volta sia adeguatamente esperto e formato.

7) Non si unifichino i processi per le violenze con quello per calunnia nei confronti della persona che ha sporto denuncia. L’unificazione dei procedimenti rende indistinguibili vittime e carnefici.

8) Una volta arrivati a dibattimento lo Stato si costituisca parte civile in modo da sottrarre le mele marce alla difesa pregiudiziale del corpo di appartenenza.

9) Si proteggano i testimoni che hanno il coraggio di raccontare quanto visto. Se i testimoni sono a loro volta detenuti li si trattenga in luoghi del tutto sicuri dove non entrino mai in contatto con le persone sotto accusa.

10) Infine, a maggior ragione dopo l’applauso del Sap, lo Stato interrompa le relazioni sindacali con quelle organizzazioni che offrono tutela legale a coloro i quali si macchiano di delitti di questo genere.

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Gli applausi del disonore

Giuseppe Giulietti

Mai come in questi giorni ci sembra giusto mandare un abbraccio alle famiglie Aldrovandi, Cucchi, Ferulli, Uva, per citarne solo alcune delle tante che al dolore per la “morte indotta” dei loro familiari, hanno dovuto aggiungere l’insulto postumo e codardo; perché questo é stato il vergognoso applauso tributato da alcuni poliziotti di un sindacato autonomo ai loro colleghi condannati in via definitiva per le violenze commesse contro Federico Aldrovandi.

Per questa manifestazione sediziosa non possono esserci né attenuanti, né giustificazioni.

Quell’applauso non é stato solo un oltraggio alla memoria delle vittime, ma anche un tradimento nei confronti del giuramento e del vincolo di fedeltà che deve legare ogni persona in divisa allo stato di diritto e alla Costituzione.

Forse quei poliziotti si sono sentiti legittimati dopo aver visto un condannato in via definitiva comiziare a reti unificate ed insultare i suoi giudici.

Sia come sia quella ferita non può essere sanata solo a colpi di solidarietà.

Quali provvedimenti saranno assunti?

Gli agenti condannati per il caso Aldrovandi resteranno a Ferrara e magari un giorno potranno chiedere i documenti a Patrizia Moretti, la mamma di Federico?

Saranno subito votate le leggi per introdurre il reato di tortura ed i codici identificativi per gli agenti?

Nel frattempo sarebbe auspicabile che i tanti poliziotti che hanno sempre onorato la Costituzione cominciassero a fischiare quelli che hanno disonorato la divisa e il giuramento.