San Giovanni Paolo II? Un ricordo dal 2000 di D.Bilotti

Domenico Bilotti
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Probabilmente mancano studi sistematici sulle diverse canonizzazioni compiute dalla Chiesa Cattolica; ciò si realizza perché, anche con la maggiore destrezza giuridica, un medesimo (o, comunque sia, tendenzialmente omogeneo) modulo procedurale si presta a una pluralità di fattispecie singolari che tolgono carattere universalistico e che, invece, corroborano le tipicità inscindibili e ineliminabili di ciascuna canonizzazione. Uno studio sistematico, perciò, che cercasse di ricomporre dalla pluralità biografica e agiografica, scaturita, in un percorso inverso, dalla pretesa identità delle procedure esperite, una nuova armonia sistematica, priva di qualsivoglia di aporia logica, sarebbe anche troppo ambizioso, monumentale, frutto di un’inesausta -e fin quanto utile?- elaborazione teologica.

Perciò, non sulla dialettica tra procedura e valore in questa assai specifica componente del diritto ecclesiale ci si soffermerà, quanto, più modestamente, su un profilo particolare di uno dei due pontefici da ultimo canonizzati.

Se ai più è parsa una via di mezzo tra l’ossimoro e il paradosso, tra il divino e il non giuridico, che a reggere la situazione fossero, ex parte ecclesiae, Papa Francesco e l’emerito Benedetto XVI, non si affronterà più di tanto questo rilievo: anch’esso è frutto della assoluta singolarità della rinuncia pontificia, compiuta da Benedetto, e pure della delicata dinamica continuità-innovazione impostata da Bergoglio, ancor più problematica rispetto al rapporto con Joseph Ratzinger, simbiotico o divergente o, secondo i temi, entrambi.

Ben poco da rilevare, invece, su Roncalli. Nel passaparola generazionale che davvero lega l’ossatura delle esperienze del cattolicesimo di base in Italia, i giudizi sono essenzialmente inequivoci e danno conto, anche sul piano canonistico e storiografico (più specialistico), di una personalità che ha inaugurato una reale primavera ecclesiale, sulla cui raccolta, al contrario, forte e conteso è il dibattito teologico, dottrinale e storico-ecclesiastico.

Giovanni Paolo II ha lasciato, al contrario, maggiori perplessità. In parte per la sua figura mediatica a dir poco ingombrante, per i detrattori frutto di personalismo esibito e per altri, comunque sia, conseguenza di un approccio carismatico di grandissima visibilità e di intesa trasmissione testimoniale. In parte per il ruolo non del tutto chiarito sulla fine del comunismo nei Paesi dell’Europa Orientale, dove il vero sforzo sarebbe dovuto e potuto essere non il “rovesciare il nemico”, quanto (e ben meglio) gestire, favorire, mitigare, umanizzare, la transizione. In parte per le posizioni durissime sui temi bioetici, che dettano una linea ma che rischiano di dividere la collocazione del popolo di Dio, quando paiono giudicanti, nette, se non addirittura di accusa contro le espressioni di sensibilità radicalmente dissenzienti (e, però, non solo per questo di “malafede”).

E, visto che Bergoglio viene dall’episcopato latino-americano, ambiente composito e nient’affatto monolitico, un altro tema scottante è stato il recepimento della o il contrasto, a volte “draconiano”, alla teologia della liberazione: un filone teologico dei Sud che metteva in questione il privilegio e lo sfruttamento, eppure troppo spesso stigmatizzato negli anni Ottanta come braccio pastorale (o braccio armato?) del marxismo più eterodosso. Le riabilitazioni postume non coprono sempre le incomprensioni di un tempo e, in quelle incomprensioni, Giovanni Paolo II e il cardinale Ratzinger non furono i testimoni del disincanto, ma fautori di una divaricazione posizionale, probabilmente non devolvibile alla “bonaria ricomposizione”.

Eppure, anche ai critici più intransigenti o con le argomentazioni più sostanziose e sostanziali, Giovanni Paolo II viene in luce più chiara e meno ostile per l’immane sofferenza della sua dipartita, sulla cui spettacolarizzazione becera, trasformata in sfibrante diretta televisiva, ben poca colpa pur aveva il diretto interessato. Al più, se assecondiamo i rilievi non scentrati attribuiti al cardinal Martini, Giovanni Paolo II avrebbe potuto “anticipare” Benedetto XVI e rinunciare, all’alba del suo travaglio distruttivo e defatigante.

Uno dei massimi picchi della popolarità di Giovanni Paolo II fu il periodo del 2000 (primavera, estate e autunno) in cui si svolse il grande Giubileo della Chiesa Cattolica. Folle di giovani invadevano festanti Roma, Roma stupenda e imbottita come un uovo di pellegrini che volevano strappare alla loro esistenza almeno un pezzo di quella gioia contagiosa, universale, tumultuosa, euforica, di sollievo. E i “papa Boys”, nobilitati mediaticamente forse pure a causa del desiderio di riconnettersi sentimentalmente ad essi, da parte di un ex radicale (e allora sindaco in sella) come Rutelli, riposizionato nella rincorsa alla guida del centro e della sinistra, sfilavano per le vie, con ritmi, stili, abitudini e forme esistenziali ed espressive a volte radicalmente diverse da come le/li descrivevano i media.

C’era già l’attenzione al fenomeno migratorio, c’era il divertimento spontaneo della convivialità e, persino sui temi etici (sessualità inclusa), l’atteggiamento, la pratica e la teoria mai avrebbero potuto essere ricondotti ad una e ad una sola visione caratteristica ed omologante.

Nella stessa estate, il Gay Pride: Roma sgargiante, folle senz’altro meno nutrite e atteggiamento collettivo ben meno tollerante, ma folle colorite. Folle che in parata, accanto a tutti gli eccessi simbolici, estetici e figurativi che si vorrebbero ribadire ogni volta (e che, certo, un fondamento possono averlo!), reclamavano diritti e la fine di discriminazioni, vessazioni, pestaggi: magari non di massa, ma gravissimamente episodici. E ogni episodio del genere, anche nella sua frammentaria pochezza, va interpretato come offesa a tutti -e non solo alle categorie svillaneggiate, sprangate o inibite.

C’era una certa simbiosi tra frange e singoli esponenti di quei movimenti, stranamente. Anche perché il loro scintillante clamore spingeva a incuriosirsi, a informarsi, a prendere parte. Persino chi scrive, quindicenne all’epoca, aveva la voglia e l’entusiasmo di prendere parte a entrambe le manifestazioni di una gioventù così apparentemente diametrale che si schierava. Ed effettivamente, accanto a travestimenti di ogni natura o ad attivisti del mondo omosessuale di radicatissima tempra antidiscriminatoria e anti-“omofobica” (non è questa la sede per tornare sulla pessima etimo di tale aggettivo), insieme alla denuncia di decine di migliaia di relazioni affettive, composte da persone con la colpa di avere, reciprocamente, lo stesso genere sessuale, non erano così infrequenti i ragazzi che avevano vissuto entrambe le adunate oceaniche, compreso l’epocale ritrovo giubilare. Quel ritrovo giubilare da cui la Chiesa voleva uscire mondata dalle proprie colpe e attraverso cui si spingeva a parlare a chiare lettere persino del problema del debito estero nei Paesi del Terzo Mondo: vera e definitiva mannaia per generazioni di africani, asiatici e sud-americani. Tema su cui, peraltro, andava affermandosi, e oggi è a florida maturazione, un significativo filone di studi teologici.

Beh… le due folle, forse e forse fugacemente, si incontrarono. Qualcuno di quelli che si erano beccati senza troppa convinzione l’etichetta di “papa boys” (e le girls, tanto per cambiare?), dopo essersi abbeverato alla spiritualità magica di ogni singola Chiesa di Roma, ognuna cattedrale nelle notti miti di vento e danze, davvero era finito nei vicoli nel centro storico a chiedere parità di diritti per tutti, anche per quei fratelli così mattacchioni, chiassosi e, secondo qualcuno, troppo esibizionisti, ma creativi nell’estro e ingiustamente deprecati ogni giorno. Politici di alto lignaggio, burocrati e, persino, gerarchie non ebbero il tempo (o la voglia) di accorgersene.