Contributo alla discussione dell’assemblea del 17 maggio a Roma sulla Lumen Gentium

Comitato promotore di “Chiesa di tutti chiesa dei poveri”

Siamo alla fase conclusiva del percorso iniziato nell’ottobre del 2012 con il ricco e variegato complesso di realtà ecclesiali che hanno accolto in questi anni la proposta del Comitato “Chiesa di tutti chiesa dei poveri”. Ci trovavamo allora in una situazione ecclesiale densa di nubi e contraddizioni. Ci incontrammo a Roma per ri-conoscerci, laici e consacrati, uomini e donne, parte attiva di un processo di rinnovamento ecclesiale cominciato 50 anni fa e di cui ci sentiamo ancora chiamati ad essere protagonisti. Abbiamo deciso di rinnovare quell’appuntamento, con un incontro annuale nei tre anni 2013, 2014, 2015 per riflettere sui passaggi fondamentali del Concilio, nel triennio che celebra i cinquanta anni dal suo svolgimento. Questo cammino si concluderà nella primavera del 2015 con il convegno dedicato alla Gaudium et spes, nella prospettiva dell’incontro mondiale di organizzazioni e di movimenti cattolici di “ispirazione conciliare”, che si terrà, sempre a Roma, il 13-15 novembre 2015. Oggi, in questa intensa giornata di ascolto e dibattito,riflettiamo– a partire dalla costituzione Lumen Gentium – su una tematica centrale per la comunità ecclesiale, quella dell’annuncio del Regno di Dio e, perciò, dell’autocomprensione che la Chiesa ha di se stessa, quindi, della sua funzione e della sua organizzazione.

Una Chiesa unita nella pluralità

Innanzi tutto siamo felici che il Concilio abbia ribadito con i Padri che la Chiesa è la famiglia universale di tutti i giusti di ogni tempo riuniti dallo Spirito di Cristo nel Padre; e che quindi la Chiesa di Cristo è una, santa, cattolica (cioè universale) e apostolica; che sussiste, ma non si identifica totalmente nella chiesa cattolica; e che essa è santa, ma insieme sempre bisognosa di purificazione e di continuo rinnovamento (cap. I).
Come sosteneva il teologo Karl Rahner, la trasformazione strutturale della Chiesa non è solo il compito, ma anche la prospettiva stessa di una Chiesa che intenda porsi in perenne stato di servizio e mantenere sempre aperte le proprie porte. Così abbiamo imparato soprattutto a pensare la Chiesa come popolo di Dio in cammino, come comunità in continua tensione verso la verità, che si cerca assieme, senza la presunzione di possederla da sempre e per intero. Ma la Chiesa è anche una istituzione storica, nella quale, dice la Costituzione conciliare, le Chiese locali sono formate ad immagine della Chiesa universale, ed è in esse e a partire da esse che esiste la Chiesa cattolica una e unica (LG 23) In essa i suoi membri sono uniti dal battesimo. L’edificazione e la salvaguardia di questa unità, nella quale la diversificazione arricchisce la comunione, è compito di tutti nella Chiesa, perché tutti sono chiamati a costruirla e rispettarla ogni giorno. Ciò avviene nella pluralità, nella “convivialità delle differenze” che sentiamo come costitutive dell’appartenenza ad un unico corpo ecclesiale. Unità e pluralità, contraddizione apparente, feconda realtà, iscritta dentro lo stesso mistero dell’Unico Dio Trinitario: Padre misericordioso, Verbo incarnato, Amore vitale.
L’unità non è data alla Chiesa solo nella successione apostolica, nei sacramenti, nella liturgia e nel magistero, è soprattutto lo Spirito di Cristo che ci rende uniti nelle nostre differenze e nelle nostre identità. La dimensione pneumatica della Chiesa deve prevalere rispetto a quella istituzionale.
Per questo, come credenti riuniti per riflettere sul valore della Lumen Gentium, riteniamo importante dare il nostro contributo al clima di speranza ed ai fermenti che nella Chiesa cattolica romana stanno nascendo nel corso del pontificato di Francesco, ma che devono ancora trovare risorse ed energie, strumenti e pratiche per trovare concreta realizzazione.

La successione laicale

Nell’elencare brevemente alcuni dei nodi che permangono irrisolti in merito alla ricezione dell’ecclesiologia della Lumen Gentium e del Concilio, rileviamo in particolare come ancora non sia passata, nella concreta azione politico-pastorale dei preti e dei vescovi, così come in una parte non trascurabile del “popolo di Dio”, il concetto che tutti “siamo Chiesa”, non comunità gregaria.
A nostro parere rimane ancora non sufficientemente compreso da molti membri della nostra comunità il rapporto tra sacerdozio comune dei fedeli e sacerdozio ministeriale e gerarchico.
A livello ecclesiale si vive, insomma, ancora lo schema di una Chiesa come bipartita a due dimensioni (sacrale- profana; docente-discente), per cui troppo spesso i fedeli (e anche il clero) si chiedono che cosa “pensi” la Chiesa su un qualche problema teologico, morale, pastorale, senza rendersi conto che anche loro sono Chiesa, partecipi del “sensus fidelium”; sicché tutti siamo chiamati a dare il nostro contributo alle risposte che la complessità del mondo contemporaneo ci chiede come cittadini e come credenti.
C’è nella Lumen Gentium uno specifico riferimento ai laici (LG 30-40), dove si afferma il dovere dei pastori di “riconoscere i loro servizi e i loro carismi”, così che i laici possano svolgere pienamente “la loro missione nella Chiesa e nel mondo”. Al di là delle differenze di funzioni, doni e carismi vige fra tutti i componenti del popolo di Dio “una vera eguaglianza riguardo alla dignità e all’azione comune di tutti i fedeli”. Anche perché, come ci ricordava Raniero La Valle nella sua relazione conclusiva all’assemblea del settembre 2012, «la tradizione della Chiesa, e quindi anche del Concilio, non si trasmette solo attraverso la via della successione apostolica, ma anche attraverso il succedersi delle generazioni di fedeli». Una “successione laicale” che fonda una particolare vocazione all’impegno nel mondo. I laici, dice infatti ancora la Lumen Gentium, sono partecipi dell’opera salvifica della Chiesa e in funzione della “dignità sacerdotale, regale e profetica” di cui sono rivestiti, “hanno il diritto”, “anzi talora anche il dovere, di far conoscere il proprio parere su ciò che riguarda il bene della Chiesa” (LG 37) attraverso le istituzioni a questo scopo stabilite.

La corresponsabilità disattesa

Una piena corresponsabilità laicale restituisce anche ai vescovi il loro diritto-dovere di ricevere consigli e critiche, utili a dissolvere quel “muro di fogli e di incenso” che troppo spesso li tiene lontani, anche per responsabilità dei collaboratori che li circondano, dalla realtà. «La critica ai cardinali e ai vescovi – scrive Lorenzo Milani – è lecita», anzi addirittura «doverosa: un preciso dovere di pietà filiale. E un nobile dovere anche, proprio perché adempierlo costa caro. Criticheremo i nostri vescovi perché vogliamo loro bene. Vogliamo il loro bene, cioè che diventino migliori, più informati, più seri, più umili. Nessun vescovo può vantarsi di non aver nulla da imparare. Ne ha bisogno come tutti noi».
Eppure questa “corresponsabilità” così chiaramente definita e promossa dal Concilio è stata una delle intuizioni più disattese del Vaticano II. Una spiegazione alla mancanza di partecipazione dei laici alla vita della Chiesa può certo essere la tendenza ormai consolidata in molti di loro a ritirarsi nel proprio particolare con scarso coinvolgimento diretto nella dimensione collettiva e comunitaria, nella Chiesa come nella società. Ma questa tendenza è anche e soprattutto figlia della mancata richiesta da parte di vescovi e preti di una collaborazione non meramente “strumentale” dei laici, ciò a cui spesso si unisce una scarsa considerazione del loro lavoro. Va invece promossa con forza la presenza dei laici nei Consigli pastorali e diocesani, negli uffici di Curia, il loro coinvolgimento nella pastorale, nella riflessione teologica, ma anche nell’amministrazione e nella gestione dei beni della Chiesa. E va riconosciuta la ricchezza di carismi di cui molto spesso lo Spirito ha colmato il nostro laicato, mentre va promossa una partecipazione critica, che non dia solo la possibilità di un confronto ampio e plurale all’interno della comunità ecclesiale, ma che restituisca – come nelle comunità ecclesiali primitive – anche ai laici la facoltà di partecipare alla fase deliberativa e decisionale. Se i laici non possono infatti contare, anche per il loro numero, nelle decisioni, ogni richiamo alla loro importanza ed al valore del loro contributo rischia di essere vuoto e retorico.
Un esempio di corresponsabilità disattesa l’abbiamo vissuto recentemente nell’elaborazione delle risposte al Questionario preparatorio all’Instrumentum laboris del prossimo Sinodo straordinario di ottobre su “Le sfide pastorali sulla famiglia nel contesto dell’evangelizzazione”; vi sono, infatti, dubbi e perplessità sul modo in cui le diocesi hanno tradotto le istanze del questionario, su come hanno raccolto, selezionato e sintetizzato i contributi che sono arrivati dai loro territori. Anche perché in molti casi nulla è stato detto sull’effettivo livello di partecipazione popolare all’interno delle diocesi.

La sinodalità

Strettamente legato al nodo della Chiesa intesa come una comunione c’è anche il tema della “sinodalità”. È un termine che mette assieme due parole greche: syn (con, insieme) e odòs (strada, cammino). Il Concilio ha reso questo concetto attraverso l’immagine della Chiesa-popolo-di-Dio che cammina insieme nella storia, per essere segno concreto ed efficace del regno di Dio offerto a tutta l’umanità. Il fatto che la parola sia stata sinora abbinata per lo più ad adunanze di membri della gerarchia ecclesiale può ingenerare l’idea che non riguardi tutti i battezzati.
Se lo Spirito Santo ci riunisce in un corpo solo, la sinodalità deve divenire un modo plurale di esprimere la nostra unicità, di vivere gli uni per altri, di cercare assieme, nel confronto e nel dialogo, nella ricerca dialettica del bene comune. La forma sinodale dovrebbe così divenire la dimensione essenziale e la forma basilare della comunità ecclesiale, come suggerisce la suggestiva formula coniata da Giovanni Crisostomo, secondo cui «la Chiesa ha nome sinodo» («Ekklesía […] synodu estin onoma », Expl. In Psalm. 149,1).
Del resto, le basi della sinodalità sono state rilanciate dall’ecclesiologia che si è affermata a partire dal Vaticano II e che, come si è detto, è un’ecclesiologia di comunione, oggi condivisa da tutte le chiese cristiane, con la conseguente nascita di diverse strutture sinodali a vari livelli: sinodo dei vescovi, conferenze episcopali, consigli presbiterali e pastorali, sinodi diocesani e altre strutture meno formali. A noi tocca oggi riprendere quelle intuizioni. E dar loro nuova e rinnovata linfa, anche con un rinnovato e maggiormente qualificato contributo dei laici, in particolare su tutti i temi etici quali quelli di inizio e fine vita, sulla condizione ecclesiale di coloro che vivono in situazioni canonicamente irregolari (conviventi, ecc.), degli omosessuali, e infine sul riconoscimento della parità di genere in tutti gli ambiti: la questione femminile è infatti questione prioritaria nella Chiesa di Cristo, costituito Luce delle Genti.