Di che “gender” straparlano?

Gianni Geraci
http://gruppodelguado.blogspot.it

Non c’è modo peggiore di ferire le persone che parlare di loro dicendo cose in cui queste persone non si riconoscono senza dare loro la possibilità di spiegare che le cose non stanno così. Chi è cattolico lo sa bene quando si sente dire che: “Credere significa mettere da parte la ragione”, oppure che: “La scienza e la ragione smentiscono la fede e solo chi non ha competenze scientifiche sufficienti può pensare a un Padre creatore e a un Figlio redentore”.

Parlo della sofferenza che può provare un cattolico quando sente certe frasi, perché da un po’ di tempo sento molti che si dicono cattolici e che parlano di me, del mio orientamento sessuale, della mia omosessualità, dicendo cose in cui non mi riconosco e in cui non mi sono mai riconosciuto.

In particolare mi colpiscono le imprecisioni e le approssimazioni di quanti, per parlare del mio orientamento sessuale vanno a recupera una fantomatica “teoria del gender” che, non solo con l’omosessualità non ha niente a che fare, ma che troppo spesso viene citata in maniera approssimativa, con la stessa superficialità di chi si sente un esperto di teologia solo perché ha letto l’ultimo libro sulla fede scritto da un fisico come Piergiorgio Odifreddi.

Sono indignato perché si parla di me e del mio orientamento sessuale a sproposito. Sono indignato perché, mentre io ho gli strumenti per smascherare gli spropositi che leggo sulla mia omosessualità, so che ci sono milioni di persone che non la conoscono a sufficienza per capire come non esista nessuna “teoria del gender” capace di spiegarla.

Io sono un uomo di sesso maschile, non ho mai avuto dubbi sul fatto di essere un maschio e sono omosessuale. Da piccolo giocavo a calcio (piuttosto male, è vero, ma non è che i miei compagni giocassero molto meglio) e non ho mai giocato alle bambole. Quando mi chiedevano cosa volevo fare da grande rispondevo: il muratore, il benzinaio, il calciatore, il prete, tutte professioni che, a parte l’ultima (scusate la battuta, ma sono particolarmente arrabbiato), non potevano certo far pensare a un futuro omosessuale.

Alle medie, visto che ero grande e grosso, ho abbandonato il calcio per darmi al lancio del peso e qualche cosa di buono, come lanciatore, l’ho anche combinato. Sono però sicuro di essere stato l’unico lanciatore della mia squadra che si è poi scoperto omosessuale. Maneggiare palle di metallo che pesavano più di cinque chili non ha avuto infatti nessuna conseguenza sul mio orientamento sessuale.

Mi spiace deludere gli opinionisti che, come padre Giordano Muraro, scrivono certe sciocchezze su Il Nostro Tempo, su Avvenire e su tutti gli altri giornali in cui si straparla di “complotto del gender”: io sono un maschio, non ho mai avuto dubbi sulla mia mascolinità, né da bambino né da adulto, sono cresciuto in una famiglia inguaribilmente normale: ricordo mio papà che mi prendeva in braccio e contava le rondini con me durante le sere di primavera, ricordo mia mamma che mi preparava una buonissima crema di cioccolata, ricordo l’importanza che, a casa mia, veniva data allo studio e, se penso a un trauma, nella mia infanzia, quel trauma è uno zero preso in un dettato all’inizio della terza elementare (ancora adesso ricordo che la maestra, invece di scrivere la cifra, ha scritto il voto per esteso, sottolineandolo e coronandolo con un punto esclamativo).

Ricordo il dramma che è stato far firmare a casa quello zero: l’ho nascosto per tutto il pomeriggio e l’ho fatto vedere a mia mamma solo la sera, prima di andare a letto. Lei ha chiamato mio papà e, insieme a lui, ha iniziato a prospettarmi le peggiori conseguenze della mia abissale ignoranza.

Se qualcuno vuole andare a cercare un trauma infantile di cui imputare la mia omosessualità potrebbe prendere in considerazione quello zero. Ma come spiegare il fatto che l’omosessualità ha continuato ad esistere anche quando i voti sono spariti? Quello zero è stato senz’altro un trauma, ma non ha niente a che fare con il mio orientamento sessuale, anche perché, se fossero gli zero a determinare l’omosessualità di una persona, al mio paese saremmo tutti gay.

Eppure tutti quei giornali che credono di difendere la famiglia dando notizia dei rosari fuori dalle cliniche in cui si praticano aborti o delle veglie delle sentinelle in piedi, ospitano articoli in cui si sostiene che, se la mia omosessualità non è collegata a un misterioso “complotto legato alle teorie del gender” è senz’altro la conseguenza di un trauma infantile che può essere risolto.

Ecco! Vorrei ribadire (al martellamento a cui veniamo sottoposti occorre replicare con un martellamento altrettanto intenso) che, pur essendo omosessuale, non ho mai avuto dubbi sul mio essere maschio, che ho fatto tutte le cose che facevano gli altri maschietti della mia età e che mi rifiutavo di aiutare la mamma in cucina “perché era una cosa da femmina”, mentre ero costretto a tagliare l’erba del prato “perché era una cosa da maschio”. E anche se facevo tutte queste cosa, sono sempre stato omosessuale e non ho mai pensato di essere eterosessuale.

Qualche volta, a dire il vero, ho pensato di poter provare ad avere dei rapporti sessuali con una donna, ma quando qualche amico mi suggeriva di abbordare qualche ragazza che, di sicuro, “ci sarebbe stata”, non riuscivo a non dimenticare una raccomandazione che ci faceva monsignor Maggiolini (che sarebbe poi diventato vescovo di Como) quando ci salutava il venerdì sera: “Ragazzi! Mi raccomando! Se vi divertite cercate comunque di non fare peccato, ma se peccate, almeno, divertitevi!”. Visto che ero convinto che l’omosessualità non esistesse ho provato a pensare a me stesso come a un eterosessuale, ma l’illusione è crollata quando mi sono innamorato di un altro uomo (Innamorato! Prendete nota. Altro che omosessuali malati di sesso. Al sesso, quando ho scoperto la mia omosessualità non ci pensavo in nessun modo).

Non è stata una scoperta tranquilla. Ho rifiutato la cosa per anni. Per anni pensavo di essere sbagliato e sono anche andato da uno psicologo per “curare” la mia omosessualità. Mi sono fatto spillare un paio di milioni di lire (allora erano tanti), naturalmente senza ricevuta fiscale (chi chiederebbe mai al proprio salvatore di pagare le tasse sui soldi con cui paghiamo le sue parcelle?) prima di sentirmi dire che “non guarivo perché, in realtà non volevo guarire” (e uno che non vuole guarire paga centomila lire alla settimana un tipo che lo fa stare su un lettino a ravanare nel suo inconscio?).

Non è stata una scoperta tranquilla e soprattutto, non è stata una scoperta facile da condividere: quando mio padre l’ha saputo è stato male per mesi, mia mamma, invece, ha pianto e si è chiesta cosa aveva sbagliato nel tirarmi su (“Niente, mamma! Non hai sbagliato niente! Non so perché sono gay, ma a parte il famoso zero nel dettato preso all’inizio della terza elementare non ricordo altri momenti drammatici nella mia infanzia”).

Non è stata una scoperta facile da condividere nemmeno con il mio confessore (ne sa qualcosa il posacenere che ho distrutto durante il colloquio di due ore in cui, con giri di parole infiniti, ho detto la fatidica frase: “Credo di essere omosessuale”). Ma soprattutto non è stata una scoperta facile da condividere con gli amici, con i conoscenti, con le persone del mio paese, con tutti.

Eppure credo di aver iniziato a vivere la mia omosessualità alla luce del Vangelo proprio in quel giorno in cui ho deciso di raccontarla a tutti. E contro il parere di chi sostiene che chi “ostenta” la propria omosessualità non è altro che un complice del complotto del “gender” che ha come obiettivo “la distruzione della famiglia”, io ricordo perfettamente di aver trovato il coraggio per fare il mio Coming out proprio davanti a un altare in un momento di adorazione.

“Signore! – ho pregato in quel momento – Io non so cosa pensi della mia omosessualità, ma so cosa pensi dell’ipocrisia con cui la vivo. Ho una paura tremenda, ma dammi il coraggio di superare la paura e di uscire da questa ipocrisia”.
Queste cose, certi opinionisti, però non le scrivono e preferiscono parlare di “complotto del gender” aggiungendo che noi gay siamo attratti dagli altri maschi perché non abbiamo accettato fino in fondo la nostra mascolinità.

Mi piacerebbe invitarli a una delle tante cene che i miei amici organizzano a Milano in qualche pizzeria: una dozzina di maschi barbuti e sovrappeso che mangiano, bevono, ridono, e scherzano insieme. E a quelli che, incuriositi da questa combriccola in cui non ci sono donne, si avvicinano timidi e ci chiedono: “Siete una squadra di Rugby?” rispondiamo ridendo che non siamo giocatori di Rugby, ma siamo una compagnia di amici gay.

Peccato che quelli come padre Muraro non siano mai venuti in una delle pizzeria in cui andiamo noi.