Lettera a Paolo apostolo di CdbSanPaolo

Il gruppo biblico della comunità cristiana di base di San Paolo in Roma

Paolo carissimo, fratello in Cristo,

siamo un piccolo gruppo di cristiani emarginati che si riuniscono in assemblea -tu diresti in chiesa- vicino al luogo in cui -come narra una lunga tradizione- fosti martirizzato.
Ti scriviamo dopo quasi 2000 anni dalla tua venuta a Roma in catene e della tua permanenza in libertà vigilata – oggi diremmo agli arresti domiciliari – per ringraziarti di tutto ciò che hai detto e fatto per noi in questa nostra città.

Come certo saprai, il tuo nome è noto e onorato dovunque viene invocato il nome del Signore nostro Gesù Cristo. In particolare chi presiede alla Chiesa di Roma ti considera, insieme a Pietro, una delle due colonne su cui essa è fondata (e già questo dovrebbe farti arricciare il naso, visto che tu hai sempre raccomandato di non porre alla chiesa altro fondamento che il Cristo). Ben sei vescovi, tra i tanti che si sono proclamati successori del principe degli apostoli si sono chiamati col tuo nome. Le loro solenni benedizioni sono impartite “sull’autorità degli apostoli Pietro e Paolo”. In realtà la storia ci mostra che il tuo insegnamento, riassunto in modo mirabile proprio nella lettera che inviasti, poco prima della tua venuta, “ ai diletti di Dio e santi per vocazione” che erano in Roma prima di te, fu in gran parte dimenticato.

Nella chiesa di Roma ha infatti preso il sopravvento quella mentalità giuridica e di potere, che per altri versi aveva reso famosa questa città, e che tu invano contrastavi richiamandoti alla preminenza della fede che nasce dall’accoglienza consapevole della grazia profusa mediante lo Spirito. Lo stesso Spirito poi, tu ci insegnasti, tutto pervade e vivifica, conferendo a ciascuno un carisma per l’edificazione della comunità nel rispetto reciproco dei ruoli perché si possa dire veramente che la chiesa è il corpo di Cristo, dove la testa ringrazia i piedi e viceversa.

In breve, nonostante i richiami ideali, questa chiesa oggi sembra fondata più su Pietro che su Cristo, e il suo vescovo -nel corso del tempo e per diversi fattori divenuti poi più determinanti del Vangelo- ha assunto il titolo di successore del primo e vicario del secondo, con diritto di decidere in ultima istanza -come un tempo spettava all’imperatore al quale ti appellasti- qualunque cosa su qualunque chiesa, cosa inaudita ai tuoi tempi e per almeno un secolo dopo di essi.

Ma nonostante le vicende della storia, le tue lettere e il vangelo che abbiamo, anche per il tuo tramite, ricevuto, come fonte viva non possono a lungo rimanere nascosti e, come certi fiumi che compiono un lungo percorso sotterraneo, prima o poi dovranno riemergere limpidi e freschi.
Così è successo che noi, come molte altre piccole comunità in Italia e nel mondo, ci troviamo convocati nel nome di Cristo non in un’ampia basilica, ma in luoghi e contesti che ricordano proprio le comunità alle quali tu scrivevi e che specialmente nel primo giorno della settimana, quello dedicato al Signore risorto, si incontrano per ascoltare la sua Parola e le esortazioni tue e degli altri apostoli e profeti; per esprimere le loro gioie e preoccupazioni; per offrire a Dio queste preghiere e infine per spezzare insieme il pane.

A darci fiducia e speranza pur nella nostra condizione marginale, oltre ad alcune parole del nostro nuovo vescovo, alle quali speriamo che seguano i fatti, è stata proprio lo studio della tua lettera alla quale facevamo riferimento in principio, e della quale vorremmo in particolare ringraziarti per alcuni significativi insegnamenti.
Ecco, il nostro gruppo intende condividere con quanti si sono convocati a Roma il 17 maggio 2014 per la terza assemblea della Chiesa di tutti, Chiesa dei poveri, a 50 anni dal Concilio Vaticano II e in particolare dalla Costituzione sulla Chiesa, per quanto è possibile, le informazioni e le suggestioni che sono scaturite da questa lettura, anche aiutati dal libro Paolo e la Chiesa di Roma di un tuo profondo ammiratore, Romano Penna.

Ti rivolgevi innanzi tutto ai fedeli ebrei: alcuni abbracciavano la fede in Gesù; altri la respingevano, accusandoti di empietà –come prima a Gerusalemme- ora anche a Roma, e forse causando indirettamente la tua morte. E tuttavia hai sempre pensato che “Dio non ha ripudiato il suo popolo, poiché Dio non si pente dei suoi doni e della sua chiamata”. Forse solo ora, da poco, chiamando gli ebrei ‘fratelli maggiori’, stiamo capendo questo mistero, cui tu alludevi nella lettera ai Romani (c. 11).
Senza voler ripercorrere tutta la tua bellissima lettera, soprattutto nella ricca prima parte piena di fede per il tuo e nostro Signore, ci piace però ricordare il tuo atteggiamento nei confronti del ‘mondo’, della vita della città, in certo senso della politica e dell’etica sociale, improntate alla legge dell’amore, come ci dici in tre importantissimi capitoli (12-15). Obbedivi in linea di massima alle leggi romane; e poi volevi, e ti gloriavi di lavorare, per non essere di peso a nessuno.
Grazie per questi richiami, tutt’ora di grande attualità.

Ma per noi è stata di vivo interesse la lettura del c. 16, quello finale dei saluti, che rivela la tua profonda relazione, caro Paolo, con le chiese di Roma.
Giustamente S. Giovanni Crisostomo notava nel commento alla tua lettera ai Romani: “Molti, anche di quelli che sembrano assai valenti, trascurano a mio parere questa parte dell’epistola, ritenendo che sia superflua e che non contenga niente di importante; poiché infatti è un elenco di nomi, credono che non se ne ricavi nessun grande guadagno. Ma mentre i garzoni degli orefici si preoccupano meticolosamente anche dei minuscoli frammenti d’oro, costoro trascurano masse d’oro così grandi” (PG 60, 667).

Conoscere la composizione e il funzionamento della Chiesa o meglio, delle chiese di Roma alla metà circa del I secolo, cioè dopo poco più di 20 anni dalla morte di Gesù, non si è rivelata soltanto una ricerca storica, ma ha fornito anche interessanti spunti di riflessione per la nostra vita personale e comunitaria.

Si è detto chiese di Roma. Scrivendo ai Romani, infatti, tu Paolo non ti rivolgi mai (come avevi fatto invece per es. rivolgendoti ai Corinzi o ai Tessalonicesi) alla loro “chiesa”, ma “a quanti sono in Roma diletti di Dio e santi per vocazione” (a quel tempo il termine “cristiani” non era ancora usato). Dal capitolo 16 si deduce infatti che le ecclesiae in Roma negli anni 56 o 57 d.C., già formate prima del tuo arrivo, erano almeno 5; si riunivano in case private e con tutta probabilità non potevano contare più di 30 persone per gruppo, per un totale al massimo di 150 persone. Esse erano sparse in diversi punti della città, come già le sinagoghe da cui provenivano, che erano apposite sale di riunione e che anch’esse erano numerose, dovendo ospitare un complesso di circa 20.000 ebrei. Quando giungeva una lettera come questa di Paolo, essa doveva circolare ed essere letta successivamente presso i diversi gruppi. Altri rapporti tra loro dovevano essere tenuti tramite forme leggere di collegamento, ma mai in riunioni comuni non essendovi alcuno spazio utilizzabile a questo fine. Il culto domenicale era dunque domestico e presieduto presumibilmente dal padrone o dalla padrona di casa, a meno che non fossero presenti personaggi ragguardevoli (apostoli, profeti, ecc,). Non sono mai nominati, nelle tue lettere autentiche, ministeri fissi o di carattere sacrale come “vescovi”, “presbiteri” o “sacerdoti”, (con le connesse funzioni “sacre”). Solo nella lettera ai Filippesi nomini di sfuggita “vescovi e diaconi”, ma considerando che quella comunità avrà avuto tutt’al più poche decine di componenti, la presenza di più vescovi fa intendere che le funzioni erano ben diverse da quelle che oggi siamo abituati a intendere.

Certo, anche le chiese di Roma dovevano avere una qualche forma di organizzazione leggera, forse sulla falsariga di quelle ben conosciute dalla sinagoga, come “gli anziani” (presbiteri) o persone che si assumevano vari incarichi di servizio (diaconi). Ma figure autorevoli erano quelle di alcune donne come la tua carissima Prisca che insieme al suo sposo Aquila ti ospitò nella sua casa; e poi Febe ‘diacona’ e soprattutto Giunia, da te chiamata espressamente “apostola”.
A tal proposito non è superfluo ricordare quanto sempre il Crisostomo sosteneva:
“Di nuovo Paolo addita a esempio una donna e di nuovo noi uomini siamo sommersi dalla vergogna! O meglio, non solo siamo sommersi dalla vergogna, ma siamo anche onorati. Siamo onorati, infatti, perché abbiamo con noi donne del genere; ma siamo sommersi dalla vergogna perché siamo molto indietro nei loro confronti.”(PG 60, 668).
Nelle comunità, a differenza dei collegia religiosi o professionali romani, erano ammessi uomini e donne di tutti gli strati sociali, che dovevano anzi sovvenire gli uni agli altri con le loro sostanze. La mancanza di questa solidarietà è ripresa con parole molto dure dalla tua lettera ai Corinzi.
Peraltro, di fronte a questa carenza di strutture, e in particolare di strutture normative e sacrali, vedevi vivo in queste comunità un forte senso di fede, di responsabilità. Soprattutto di consapevolezza per essere al centro di una rivoluzione epocale. “Voi siete il tempio di Dio”; “chi mangia e beve” disprezzando il suo fratello o sorella “mangia e beve la propria condanna”. Infatti “voi siete, ciascuno per la sua parte, il corpo di Cristo”, intendendosi con ciò il complesso della comunità.

Oltre a trattare ampiamente, in particolare dal punto di vista teologico, dei problemi connessi con la recente e certamente dolorosa separazione dai fratelli e dalle sorelle ebree rimasti in sinagoga, tu Paolo invii ai fedeli di Roma, che ti ripromettevi di visitare quanto prima – e infatti vi giungesti circa un anno dopo– una serie di esortazioni. Tra queste ve n’è una, che ci ha fatto molto discutere: “siate sottomessi alle autorità costituite, perché non c’è autorità se non da Dio”. Ma questo insegnamento di “buon senso”, visto che tendeva innanzi tutto a evitare di dare pretesto per interventi repressivi contro gli aderenti a una setta che non godeva più dello scudo dell’appartenenza al giudaismo, religio licita, va visto nel complesso della fede che tu Paolo andavi diffondendo. Una fede che riservava al proprio Signore, morto in croce come una schiavo per una condanna eseguita dai romani, il titolo di Kurios, ufficialmente riservato all’imperatore; che aspettava la venuta di un regno di Dio inclusivo anche dei pagani; che intanto diffondeva un concetto di solidarietà inusitato nella struttura sociale romana; che sosteneva essere meglio, nei momenti di scelta cruciale, “ubbidire piuttosto a Dio che agli uomini”.

Oggi tra noi molte cose sono cambiate, dalla struttura sacrale, patriarcale, gerarchica e monarchica assunta della chiesa cattolica, al diffondersi di una concezione diversa di società ormai secolarizzata, laica, tesa a riconoscere l’eguaglianza di tutte le persone in tutti gli ambiti, e ispirata all’ideale della libertà, e anche a quella fraternità e sororità che tu con gioia e passione annunciavi.
Ma possiamo ancora trarre alcuni preziosi insegnamenti dalla tua lettera, caro Paolo, scritta anche per noi che, pur essendo a Roma una piccola comunità marginale, come erano piccole e marginali quelle chiese primitive che tu visitasti, intendiamo tuttavia rappresentare – pur consapevoli delle nostre fragilità e infedeltà- il corpo di Cristo, come lo rappresentano intero tutte le altre singole chiese sparse nel mondo e anche tutti i credenti in Cristo che lo riconoscono nel pane spezzato e lo seguono spendendo la propria vita per gli altri.