Nigeria: l’ipocrisia occidentale

Michele Paris
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Il nuovo fronte della campagna selettiva dell’Occidente per la difesa dei diritti umani nei paesi del Terzo Mondo è diventato da qualche giorno la Nigeria, balzata sulle prime pagine dei giornali internazionali in seguito all’ormai noto rapimento di oltre duecento giovani studentesse da parte della formazione fondamentalista Boko Haram.

La risposta iniziale del governo nigeriano al rapimento, avvenuto il 14 aprile scorso in una scuola di Chibok, nel nord del più popoloso paese africano, era stata in realtà molto blanda, riflettendo lo scarso interesse delle autorità centrali per le impoverite regioni settentrionali a maggioranza musulmana, da tempo abituate a convivere con le atrocità dei guerriglieri islamisti e delle forze di sicurezza.

Gli stessi comandanti militari indigeni non avevano alzato un dito per difendere gli abitanti del villaggio in questione dai militanti islamici, nonostante fossero stati avvertiti con svariate ore di anticipo circa l’arrivo di questi ultimi.

Il rapimento, però, è sembrato avere da subito le caratteristiche necessarie per trasformarsi in un’occasione d’oro per la propaganda dei governi occidentali, i quali non hanno perso tempo ad orchestrare l’ennesima campagna “umanitaria” in un paese di grande importanza strategica in una regione del continente africano segnata dalla crescente competizione internazionale.

In ogni caso, gli ultimi sviluppi della vicenda includono la pubblicazione lunedì di un video da parte dell’agenzia di stampa AFP, nel quale il leader di Boko Haram, Abubakar Shekau, sostiene di essere disposto a liberare le giovani rapite in cambio della scarcerazione di prigionieri appartenenti alla sua organizzazione. In precedenza, Shekau aveva invece minacciato di volere vendere come schiave le oltre 200 ragazze rapite.

Dietro le pressioni internazionali, il presidente nigeriano, Goodluck Jonathan, ha finito per allinearsi alla campagna contro Boko Haram, promettendo di mobilitare le forze dello stato per individuare i reponsabili del rapimento. Lo stesso governo della Nigeria ha fatto sapere nei giorni scorsi di avere già inviato due divisioni dell’esercito nel nord del paese.

Annusando la possibilità di avere una presenza militare sul territorio della prima economia africana, paesi come Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia non hanno esitato a inviare vari contingenti di “consiglieri” ed “esperti” di anti-terrorismo nel paese. Più recentemente, anche Israele ha offerto l’assistenza dei propri “esperti”, accettati formalmente da Jonathan nella giornata di domenica.

Il presidente francese Hollande, da parte sua, ha annunciato che sabato prossimo si terrà a Parigi un summit speciale per discutere del rapimento e delle misure da mettere in atto per contrastare il dilagare di Boko Haram in Nigeria. Al vertice dovrebbero prendere parte, oltre ai padroni di casa e al governo nigeriano, i leader di paesi vicini come Benin, Camerun, Ciad e Niger, così come – ovviamente – Stati Uniti, Gran Bretagna e Unione Europea.

L’accordo per l’invio di personale americano in Nigeria era stato raggiunto già la settimana scorsa tra Obama e Jonathan ed è stato da allora propagandato dai principali media e da personalità politiche occidentali di spicco, tutti uniti nel promuovere l’ennesimo intervento “umanitario”, ufficialmente motivato soltanto dagli scrupoli per la sorte delle ragazze rapite e dalla più che giustificata angoscia delle loro famiglie.

I falchi dell’intervento “umanitario” si sono messi dunque in moto, come il senatore repubblicano John McCain, già protagonista di varie apparizioni nei mesi scorsi a fianco degli “eroi” neo-fascisti del golpe anti-Yanukovich in Ucraina. L’ex candidato alla Casa Bianca ha già assicurato che il governo nigeriano non dispone delle capacità per liberare le studentesse rapite e, di conseguenza, ciò che serve è l’invio di personale USA, la cui generosità dovrebbe essere manifestata con l’impiego di soldati e velivoli senza pilota (droni).

Il presunto disinteresse di Washington – così come di Londra o Parigi – nel soccorrere il governo nigeriano potrebbe essere però messo in dubbio anche solo da alcuni dati fondamentali relativi al paese dell’Africa occidentale. La Nigeria, come già ricordato, è infatti il primo paese africano per popolazione e dimensioni dell’economia, oltre ad essere il primo produttore di petrolio del continente. Inoltre, la Nigeria – dalla quale gli Stati Uniti ricevono il 5% delle proprie importazioni di petrolio – è l’ottavo esportatore di greggio del pianeta e il quarto di gas naturale.

Più in generale, la nuova campagna dei governi occidentali in Nigeria rientra nella strategia avviata da qualche anno per aumentare la loro presenza in un continente che sta assumendo sempre maggiore importanza strategica, soprattutto per le enormi risorse del sottosuolo in gran parte non ancora sfruttate di cui dispone.

L’accelerazione di queste manovre è legata alla necessità di Washington e alleati di contrastare la crescente influenza di paesi emergenti – a cominciare dalla Cina, il cui governo in questi giorni ha anch’esso offerto assistenza alla Nigeria – in molte regioni del continente africano, dove hanno stabilito importanti partnership strategiche e investito decine di miliardi di dollari. A fornire poi la giustificazione del rinnovato impegno africano dell’Occidente è quasi sempre la necessità di combattere instabilità e terrorismo, allo stesso modo quasi sempre causati proprio dalle politiche occidentali.

La storia delle studentesse nigeriane, inoltre, offre per l’opinione pubblica internazionale un appeal irresistibile e difficilmente uguagliabile dalle vicende di altri paesi interessati dagli interventi occidentali. I fatti di queste settimane hanno anche un evidente parallelo con la campagna organizzata nel 2012 contro il signore della guerra ugandese Joseph Kony e sostenuta da svariate celebrità americane e non solo.

In quell’occasione, a suscitare l’indignazione selettiva dell’Occidente era stato l’impiego di bambini-soldato rapiti in vari paesi dell’Africa centrale dall’organizzazione di Kony (Esercito di Resistenza del Signore), per combattere il quale gli Stati Uniti avevano inviato in Uganda centinaia di militari delle forze speciali e velivoli da guerra.

Tutte queste battaglie sono perciò selezionate con cura dai governi occidentali, mentre i media “mainstream” sono complici nell’occultare sia le complesse realtà politiche e sociali che si nascondono dietro alle varie crisi, sia il fatto che altre atrocità – in Africa, come altrove, frequentemente causate proprio dagli Stati Uniti o dai loro alleati – non sembrano meritare lo stesso livello di attenzione e mobilitazione.

In relazione alla Nigeria, ad esempio, il governo nigeriano ha più di una responsabilità nell’esplosione della violenza per mano di Boko Haram. Innanzitutto, le diversità etniche e religiose del paese sono state spesso alimentate con conseguenze disastrose per dividere una popolazione in larghissima parte costretta in condizioni di miseria estrema nonostante le ricchezze petrolifere a disposizione.

Nella battaglia contro i militanti del gruppo integralista, inoltre, Abuja continua a utilizzare metodi repressivi, ricorrendo a torture, detenzioni illegali e omicidi deliberati di migliaia di innocenti, facendo aumentare il risentimento verso le autorità centrali soprattutto tra la popolazione di fede islamica.

Il governo della Nigeria non è però il solo responsabile di una situazione di crescente precarietà che si estende a tutta la regione del Sahel. Boko Haram, infatti, come altre formazioni islamiste è sembrata beneficiare della destabilizzazione di tutta l’area in seguito ad un’altra impresa “umanitaria” occidentale, il rovesciamento del regime di Gheddafi in Libia nel 2011.

Gli effetti di questa campagna si erano fatti sentire inizialmente in Mali, dove un’organizzazione legata ad Al-Qaeda e gli indipendentisti Tuareg avevano preso il controllo del nord dello sterminato paese, richiedendo un altro intervento esterno, questa volta condotto dalla Francia.

La suddivisione del lavoro svolto dai governi occidentali nel gettare le basi della rioccupazione dell’Africa sta vedendo proprio Parigi in prima fila, essendo la ex potenza coloniale di vari paesi nei quali è stato deciso l’invio di truppe straniere.

Come ora in Nigeria, così era stato in Costa d’Avorio e più recentemente nella Repubblica Centrafricana, gettata nel caos guarda caso proprio da un colpo di stato favorito almeno tacitamente dalla Francia contro un presidente già protetto da Parigi e successivamente macchiatosi, tra l’altro, di eccessive aperture economiche e diplomatiche verso la Cina.

Gli Stati Uniti, com’è ovvio, rimangono però la forza trainante del riallineamento strategico occidentale in Africa, come dimostra l’impegno assunto in questi giorni in Nigeria con il pretesto delle studentesse rapite. Solo di qualche giorno fa è ad esempio l’annuncio di un accordo tra Washington e il governo di Gibuti per il prolungamento decennale della concessione alle forze USA di una gigantesca base nel piccolo paese affacciato sul Golfo di Aden, nel Corno d’Africa.

Lo strumento della politica statunitense in questo continente è il Comando Africano (AFRICOM), attivato ufficialmente dall’amministrazione Bush nell’ottobre del 2008, attraverso il quale Washington ha aumentato enormemente il proprio impegno militare e non solo, fino ad avere oggi almeno 5 mila uomini stanziati in maniera più o meno permanente in oltre trenta paesi.

A livello formale, i contingenti americani assumono spesso il ruolo di “consiglieri” dei vari governi ospitanti o svolgono incarichi “umanitari”, principalmente per evitare l’opposizione popolare all’impiego di forze armate degli Stati Uniti entro i confini dei propri paesi, come conferma il fatto che, a quasi sei anni dall’inaugurazione, il quartier generale di AFRICOM continua a rimanere in una base nella lontana Stoccarda.