Se la politica dimentica il dovere dell’onore

Stefano Rodotà
Repubblica, 7 maggio 2014

 Non possiamo distogliere lo sguardo dai mali profondi dell’Italia, quelli che continuano a corrodere la società. Abbiamo appena assistito all’accettazione strutturale della corruzione, visto che condannati e inquisiti non sono stati non dico almeno biasimati, ma dotati di un paracadute politico con candidature alle elezioni europee e locali. Vi è una morale da trarre da questa vicenda? Ve ne sono almeno tre. La prima riguarda il significato assunto dalle leggi in queste materie; la seconda evoca l’onore perduto della politica; la terza richiama l’impossibile ricostruzione di un’etica civile.

In tutti questi anni sono stati citati infiniti casi di politici in vista, spesso con grandi responsabilità pubbliche, che si sono prontamente dimessi per comportamenti ritenuti riprovevoli, senza che vi fosse alcuna legge che lo prevedesse. Fuori d’Italia, però. Ultima tra le tante, la notizia delle dimissioni del premier sudcoreano in relazione a un drammatico naufragio, dunque a qualcosa di estraneo alle sue dirette responsabilità, ma di fronte al quale la politica non poteva rimanere silenziosa. Dalle nostre parti, perduta da gran tempo la speranza di sane reazioni dettate dalla responsabilità politica e dalla moralità pubblica, si è stati obbligati, tra mille resistenze, a scrivere qualche norma per combattere almeno i casi più scandalosi. Ma questa scelta ha prodotto un effetto paradossale. Invece di considerare le nuove leggi come il segno di un cambiamento del giudizio collettivo sui doveri di chi esercita responsabilità pubbliche, si è cercato in ogni modo di limitarne l’applicazione; e, soprattutto, si è concluso che ormai solo i comportamenti lì previsti possano legittimare reazioni di biasimo. Vengono così derubricate, e collocate nell’area della irrilevanza, le “disattenzioni” nell’esercizio delle proprie funzioni, le ambigue reti di relazioni personali, le convenienze dirette e indirette procurate dal ruolo ricoperto, le dichiarazioni violente e razziste, e via dicendo.

È tornata così, in forme nuove, la consolidata e interessata confusione tra responsabilità penale e responsabilità politica. Quest’ultima è stata praticamente azzerata. Ogni invito a correttezza e senso di responsabilità, ogni richiesta di dimissioni occasionata da azioni socialmente censurabili e sicuramente fonte di discredito per la politica, vengono respinti con protervia: “non è questione penalmente rilevante”. Una formula frutto di miserabile astuzia, che irresistibilmente richiama l’amara ironia di Ennio Flaiano, all’indomani di uno degli scandali del passato, riguardante i terreni sui quali venne poi costruito l’aeroporto di Fiumicino: «scaltritosi nel furto legale e burocratico, a tutto riuscirete fuorché ad offenderlo. Lo chiamate ladro, finge di non sentirvi. Gridate che è un ladro, vi prega di mostrargli le prove. E quando gliele mostrate: “Ah” dice “ma non sono in triplice copia!”».

In tempi di dilaganti spinte verso revisioni costituzionali, si deve malinconicamente concludere che una riforma è già stata realizzata con la pratica cancellazione dell’articolo 54 della Costituzione. Nella prima parte di questo articolo si dice qualcosa che può sembrare scontato: “tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Costituzione e di osservarne la Costituzione e le leggi”. Ma leggiamo le parole successive. “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore”. Il bel linguaggio della Costituzione non dovrebbe lasciare dubbi. Chi svolge funzioni pubbliche, dunque i politici in primo luogo, non possono trincerarsi dietro l’affermazione di aver rispettato la legge penale, dunque di non aver commesso alcun reato. A tutti loro è imposto un “dovere” costituzionale ulteriore, indicato con parole forti, non equivoche – disciplina e onore. Nel momento in cui questo dovere non viene rispettato, i politici perdono l’onore, e con essi perde l’onore la politica. Di questo nessuno si preoccupa più, anzi ogni oligarchia, corporazione, grumo d’interesse fa quadrato intorno ai suoi “disonorati”, alza la voce e così certifica la concreta cancellazione di quella norma della Costituzione. Se così fan tutti, perché meravigliarsi se in una riunione sindacale della polizia si applaudono i condannati e se rimangono senza eco i richiami all’onore provenenti dalla moglie del commissario Raciti assassinato da un ultra calcistico?

Ma il riferimento all’onore sembra che abbia diritto di cittadinanza solo in questo ambito. L’Italia, infatti, continua a essere percorsa da condannati illustrissimi continuamente applauditi, che stipulano patti sul futuro del paese.

In tempi di proclamata volontà di “innovazione” proprio di questo si dovrebbe tenere grandissimo conto. Il vuoto della politica, e la sfiducia che così si alimenta, trovano le loro radici profonde proprio nella scomparsa di un’etica pubblica. E invece cadono nell’indifferenza politica quei veri bollettini di guerra che, da anni ormai, sono divenute le cronache di giornali e televisioni, che registrano impietosamente, ma purtroppo anche inutilmente, vicende corruttive grandi, medie e piccole, testimonianza eloquente della devastazione sociale. Il ceto politico distoglie lo sguardo da questa realtà scomoda. E nessun richiamo sembra in grado di scuoterlo.

Quando un bel pezzo dell’attuale classe dirigente è convenuta in pompa magna ad una udienza papale, ha dovuto ascoltare una dura reprimenda del Papa proprio sul tema della moralità pubblica. Ma pare che l’unica sua reazione sia stata quella dello sconcerto di fronte alla mancanza di ogni cordialità da parte del Pontefice alla fine di quell’incontro. Così, anche questa vicenda è stata rapidamente archiviata, e tutti sono tornati alle usate abitudini, senza dare il pur minimo segno di qualche intenzione di voler dare un’occhiata al dimenticato articolo 54. Ma una politica che ha dimenticato l’onore, ritenuto forse un inaccettabile segno del moralismo dei costituenti, quale prospettiva può offrire per una azione concreta di ricostruzione dell’etica civile?

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La grande palude governa il paese

Piero Bevilacqua

il manifesto, 9 maggio 2014

Le tan­genti sul grande affare dell’Expò e le rela­zioni poli­ti­che per pro­teg­gere un lati­tante col­pi­scono ma certo non mera­vi­gliano. Sono solo la con­ferma di quello che ogni anno la Corte dei Conti denun­cia sulla grande cor­ru­zione che divora le risorse del paese, e di quello che l’intreccio tra poli­tica e cri­mi­na­lità orga­niz­zata testi­mo­nia. E siamo sicuri che l’episodio dell’Olimpico di Roma del 3 mag­gio, di cui sono piene le cro­na­che, è solo uno squal­lido lacerto debor­dato dal mondo del calcio?

La scena di Genny ‘a Caro­gna, il capo-curva napo­le­tano che tiene in scacco una mani­fe­sta­zione spor­tiva a cui par­te­ci­pano decine di migliaia di spet­ta­tori, pre­sen­ziata da alcune fra le mag­giori cari­che dello Stato, seguita in tv da milioni di spet­ta­tori, è stata resa pos­si­bile solo dalla vio­lenza ple­bea e dallo ster­mi­nato squal­lore che carat­te­rizza da anni l’ambiente cal­ci­stico ita­liano? O non è piut­to­sto la mani­fe­sta­zione dram­ma­tica, l’ultimo gra­dino di degra­da­zione cui è giunta la decom­po­si­zione dello spi­rito pub­blico nazio­nale? Per­ché Genny ‘a Caro­gna, non è un epi­so­dio, un lazzo fol­klo­rico uscito dai bas­si­fondi della vita napo­le­tana. E’ un pezzo della nostra sto­ria, reso legit­timo dal filo rosso che mar­chia da decenni il nostro pas­sato e soprat­tutto pre­pa­rato dagli sfregi subiti dalla lega­lità repub­bli­cana negli ultimi anni.

Ma come si fa – lo fanno tele­vi­sioni e i gior­nali – a dare tanto spa­zio a que­sto epi­so­dio e ai soliti strom­baz­zati prov­ve­di­menti gover­na­tivi e non dire nulla, o quasi, di ciò che quell’episodio rap­pre­senta, quale ele­mento di con­ti­nuità allar­mante viene a rap­pre­sen­tare nel pro­cesso dege­ne­ra­tivo della vita civile ita­liana? Forse che la capa­cità di ricatto di un tifoso nei con­fronti dell’intero Stato è disgiun­gi­bile, ad esem­pio, dalla gara che tanti gior­na­li­sti ita­liani (pre­va­len­te­mente di sini­stra) hanno ingag­giato per inter­vi­stare Ber­lu­sconi nei loro pro­grammi tele­vi­sivi? I sem­plici di mente obiet­te­ranno: che cosa c’entra?

Ma Ber­lu­sconi ha subito una con­danna defi­ni­tiva per un reato grave con­tro la Pub­blica ammi­ni­stra­zione che egli doveva rap­pre­sen­tare e tute­lare. Non è dun­que un pre­giu­di­cato, che ha colpe nei con­fronti della col­let­ti­vità, e per que­sto, quanto meno, non deve essere reso pro­ta­go­ni­sta della scena pub­blica nazio­nale?

Ber­lu­sconi non ha solo subito que­sta con­danna. Com’è noto — e ci si dimen­tica volen­tieri — si è mac­chiato di sva­riati delitti infa­manti, alcuni accer­tati, altri pre­scritti, altri oggetto di pro­cessi in corso — dalla cor­ru­zione dei giu­dici allo sfrut­ta­mento della pro­sti­tu­zione, dall’”acquisto” di par­la­men­tari alla con­cus­sione. Ora, non tutto è stato penal­mente san­zio­nato o è rile­vante. Ma il pedi­gree poli­tico di Ber­lu­sconi è indub­bia­mente quello di un capo-curva, per così dire, della vita poli­tica nazionale.

In qua­lun­que paese civile d’Europa e del mondo egli sarebbe oggi in car­cere e comun­que tenuto lon­tano dalla vita pub­blica. Da noi suc­cede l’impensabile: viene addi­rit­tura rice­vuto dal pre­si­dente della Repub­blica, il 3 aprile scorso, per la seconda volta dopo la con­danna. La mag­giore carica dello stato riceve un pre­giu­di­cato che ha inferto ferite gra­vis­sime al senso della lega­lità del nostro paese, a par­tire dal con­flitto di inte­ressi.

Ma qual­che super­stite per­sona one­sta è in grado ancora di doman­darsi quale effetto pro­duce un simile evento nell’immaginario civile degli ita­liani ? Ber­lu­sconi è un con­dan­nato o è stato gra­ziato? O addi­rit­tura è inno­cente e il col­pe­vole potrebbe essere Napo­li­tano? Da che parte è il torto da che parte è la ragione? Chi ha fro­dato il fisco per cen­ti­naia di milioni? La magi­stra­tura ita­liana com­mina dav­vero san­zioni a chi delin­que, o chiude un occhio se il delin­quente è un potente?

E allora di che stu­pirsi se i poli­ziotti applau­dono i loro col­le­ghi assas­sini, come hanno fatto a Rimini, visto che essi sono rien­trati in ser­vi­zio dopo aver pestato a morte un ragazzo inerme? Di che stu­pirsi se Giu­seppe Sco­pel­liti, ex pre­si­dente della regione Cala­bria, con­dan­nato a 6 anni in prima istanza, viene can­di­dato dal suo par­tito, mem­bro del governo, alle ele­zioni euro­pee? Nel nostro paese i ser­vizi segreti di uno sta­ta­rello dit­ta­to­riale pos­sono seque­strare una per­sona (la Sha­la­bayeva) e il mini­stro respon­sa­bile (Alfano) , restare al suo posto. E’ ancora mini­stro dell’Interno del governo che “com­batte la palude”.

E’ que­sta la melma a cui è stato ridotto lo spi­rito pub­blico del nostro paese. E’ que­sto il can­cro che si sta man­giando la nostra amata Ita­lia, la causa vera e pro­fonda del nostro declino: l’inosservanza uni­ver­sale delle regole della vita comune, la legge del più forte come prin­ci­pio di rego­la­zione sostan­ziale del rap­porto fra le classi e fra le per­sone.

Qual­cuno sa dire con quale auto­re­vo­lezza un ceto poli­tico che ha scon­volto l’etica civile e la decenza poli­tica del nostro paese può chia­mare i cit­ta­dini a con­cor­rere a uno sforzo col­let­tivo di cam­bia­mento e addi­rit­tura di sal­vezza? E non è vero che Renzi sta cam­biando verso, come va recla­miz­zando tra gli schia­mazzi della sua petu­lante corte gover­na­tiva e par­la­men­tare. Le sue scelte e la sua stessa para­bola por­tano l’illegalità dif­fusa della società ita­liana e dei par­titi den­tro le isti­tu­zioni. Senza essere stato eletto è a capo del governo e pre­tende di rifor­mare la Costi­tu­zione con un par­la­mento pri­vato di legit­ti­mità da parte della Corte costi­tu­zio­nale. Come ha ricor­dato con argo­menti inop­pu­gna­bili Ales­san­dro Pace. (Repub­blica, 26/3/2014)

L’arbitrio e lo scon­vol­gi­mento delle regole, vale a dire la morale di base della cri­mi­na­lità orga­niz­zata — che non a caso da noi, unici al mondo, dura e pro­spera dalla metà del XIX secolo — si espande anche nelle isti­tu­zioni, pla­sma la vita dei par­titi, si fa strada den­tro lo stato.