Simboli e realtà di E.Rindone

Elio Rindone
www.italialaica.it

Non si può dire che abbia avuto molto successo l’impegno profuso dall’attuale capo dello Stato e dal suo predecessore per valorizzare i simboli della Repubblica italiana. Del resto, come immaginare che basti l’esposizione della bandiera tricolore negli edifici pubblici o il canto dell’inno nazionale perché i cittadini possano riconoscersi in quei simboli e apprezzarli? Bandiera e inno sono, appunto, simboli, cioè segni che dovrebbero evocare una realtà, quella della nazione italiana composta di milioni di uomini e donne che vivono assieme nel rispetto dei principi sanciti nel patto costituzionale.

Ma se quei principi non vengono tradotti in pratica e anzi, a partire dalle classi dirigenti, vengono quotidianamente smentiti, se è in atto una caduta senza precedenti del senso civico e dell’etica pubblica, al punto che la società italiana sembra disgregarsi sotto i nostri occhi, non è ovvio che i simboli perdano la loro valenza evocativa e finiscano col provocare un rigetto, come un crocifisso sul petto di un vescovo corrotto? E le autorità non farebbero bene a interrogarsi sulle ragioni profonde del malessere della società, di cui l’impopolarità dei simboli è solo una conseguenza?

La nostra Costituzione, per esempio, esige che i cittadini siano persone capaci di partecipare, in condizioni di libertà e uguaglianza, alla vita della collettività, e quindi che siano rimossi gli ostacoli di ordine economico che di fatto impediscono di raggiungere tali obiettivi. Milioni di italiani hanno invece sperimentato sulla propria pelle, negli ultimi venti anni, un aumento delle diseguaglianze: la ricchezza si è concentrata in poche mani mentre è diminuito il potere d’acquisto dei salari, tanto che oggi il patrimonio delle dieci famiglie più facoltose è pari a quello di cinquecentomila famiglie di operai.

La Costituzione non solo afferma che il lavoro è un diritto ma chiede anche che tale diritto sia reso effettivo. Ormai da tempo, invece, governi di ogni colore sembrano più interessati a garantire la libertà d’impresa, favorendo la flessibilità – o forse sarebbe meglio dire la licenziabilità – piuttosto che il diritto al lavoro, la cui retribuzione dovrebbe assicurare un’esistenza dignitosa al lavoratore e alla sua famiglia, e non essere fissata in base al gioco della domanda e dell’offerta.

È percezione comune che il prezzo della crisi economica si stia facendo pagare alle fasce più deboli della popolazione, con tagli che non toccano l’acquisto di costosissimi bombardieri – in effetti, dall’11 settembre del 2001 siamo in guerra, violando la Costituzione, contro un Paese asiatico accusato di ospitare terroristi – ma si abbattono soprattutto sulla scuola e sulla sanità, tagli che riguardano cioè campi particolarmente rilevanti per la vita dei cittadini: il diritto alla salute e quello all’istruzione. Si tratta di provvedimenti abilmente presentati come lotta agli sprechi, che invece continuano ad aumentare, così come la grande evasione fiscale, che ha come conseguenza un livello di tassazione esorbitante per chi le imposte le paga.

Insomma, chi sta in basso ha l’impressione che chi sta in alto non abbia alcuna intenzione di adempiere i doveri di solidarietà politica, economica e sociale di cui parla la Costituzione. Anzi, appena può, approfitta della propria posizione di potere per arricchirsi in maniera illecita: l’intreccio tra affari e politica – ma non va dimenticato il prezioso contributo delle organizzazioni mafiose – ha prodotto un tale livello di corruzione da consentire all’Italia di primeggiare in Europa.

Eppure, il problema non sembra preoccupare i governanti, per anni impegnati semmai a ostacolare le inchieste della magistratura e a impedire che la scoperta del verminaio di una tangentopoli che sembra non finire mai – e che coinvolge soprattutto i maggiori partiti, in teoria contrapposti ma di fatto uniti nel malaffare – abbia un adeguato risalto sui mezzi d’informazione. Non è certo un caso se, quanto a libertà di stampa, ci piazziamo agli ultimi posti tra i Paesi democratici.

A provocare la crescente indignazione di un buon numero di cittadini sono poi l’inamovibilità di quella che ormai viene considerata una ‘casta’ e l’impunità che essa cerca di garantire a se stessa e ai propri amici. La mobilità sociale, infatti, sembra essersi da tempo arrestata, mentre stipendi da capogiro sono riservati ai più incapaci e immeritevoli, quando non a chi ha già collezionato condanne penali o è stato almeno inquisito: sembra che ciò faccia punteggio in una graduatoria la cui logica resta incomprensibile per i comuni mortali.

Che piaccia o no, è naturale che i cittadini tendano a identificare la nazione con chi svolge funzioni di particolare rilievo e visibilità, e quindi con la classe politica, che per i padri costituenti dovrebbe segnalarsi per disciplina e onore. La nostra, purtroppo, è la più corrotta e screditata d’Europa, tanto che periodicamente deve rinnovare i suoi rappresentanti, sommersi dal disprezzo degli elettori. Ma l’impressione è che cambino le facce, ma non gli interessi da difendere e i comportamenti, sempre nascosti dietro mirabolanti promesse di un radicale rinnovamento, in una gara davvero appassionante tra vecchi e nuovi bugiardi.

Le Camere, inoltre, sembrano specializzate nell’approvazione di leggi regolarmente cassate dalla Consulta e, persino in una materia delicata come quella elettorale, hanno imposto una normativa chiaramente incostituzionale e ne stanno partorendo un’altra forse ancora peggiore della precedente ma fortemente voluta da due leader, uno vecchio e uno nuovo, che vorrebbero addirittura riscrivere la Costituzione. Peccato che il primo sia stato espulso dal Senato perché condannato in via definitiva per un reato infamante, mentre il secondo sembra non rendersi conto di quanto sia devastante per l’etica pubblica trasformare un pregiudicato in padre costituente. Illuminati da tali esempi, i cittadini non si rafforzeranno nella convinzione che è normale occuparsi con ogni mezzo solo dei propri interessi e che, in fondo, delinquere conviene?

E allora, se questa è la società italiana e questi sono i suoi rappresentanti, non ci si può stupire che le bandiere esposte, per esempio, sulle facciate delle scuole siano ridotte a stracci di cui nessuno si cura e che l’inno di Mameli sia sonoramente fischiato, com’è accaduto di recente alla presenza delle più alte autorità dello Stato. I simboli possono evocare la realtà, non sostituirla: se la nazione italiana è tanto degradata da sentir compromessa la propria identità e avere sempre meno fiducia in se stessa, è inevitabile che nel generale discredito siano coinvolti anche i suoi simboli.