Thailandia, il golpe dei tribunali

Mario Lombardo
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Dopo sei mesi di scontri e proteste di piazza, l’opposizione anti-governativa e i tradizionali centri di poteri thailandesi hanno ottenuto uno dei loro obiettivi principali nella giornata di mercoledì grazie ad una sentenza tutta politica del più altro tribunale del paese del sud-est asiatico. Quello che è avvenuto a Bangkok è stato nulla di meno di un golpe giudiziario, portato a termine dalla Corte Costituzionale contro il primo ministro, Yingluck Shinawatra, rimossa dal suo incarico con l’accusa di “abuso di potere”.

Il procedimento contro il capo del governo era stato avviato da alcuni senatori dell’opposizione ed era legato al trasferimento ad altro incarico del numero uno del Consiglio per la Sicurezza Nazionale, Thawil Pliensri, nel settembre del 2011 subito dopo la vittoria elettorale del partito Pheu Thai. Secondo l’accusa, Thawil era stato messo da parte per fare spazio ad un membro di quest’ultimo partito, nonché parente di Yingluck, Priewpan Damapong, con modalità che, appunto, avrebbero indicato un “abuso di potere”.

La decisione rischia ora di aggravare ulteriormente la situazione già tesa in Thailandia, soprattutto in vista delle annunciate iniziative dei sostenitori del governo nelle strade della capitale, Bangkok. Inoltre, la Corte Costituzionale ha declinato la nomina di un nuovo premier, così che un esecutivo già notevolmente indebolito e con un incarico ad interim dallo scorso dicembre si troverà a dover gestire una difficile uscita dalla crisi e a provare ad evitare il completamento di un colpo di stato sempre più probabile.

I nove giudici della Corte Costituzionale thailandese hanno dunque votato all’unanimità per condannare Yingluck e rendere nullo il suo status di primo ministro. Contemporaneamente, anche una decina di ministri in carica ora e durante i fatti incriminati sono stati sollevati dai loro incarichi, tra cui quelli delle Finanze, degli Esteri e del Lavoro.

Secondo la Corte, la rimozione di Thawil dalla guida del Consiglio per la Sicurezza Nazionale rientrava in realtà tra i poteri del premier, ma la decisione sarebbe stata presa in maniera precipitosa e, soprattutto, allo scopo unico di liberare l’incarico per un suo parente. La natura quanto meno bizzarra del procedimento contro Yingluck e le ragioni puramente politiche dietro ad esso sono confermate poi dal fatto che lo stesso Thawil era stato reintegrato lo scorso marzo al suo posto da un tribunale amministrativo thailandese, mentre egli stesso aveva più volte affermato le sue simpatie per il movimento di opposizione anti-governativo.

Anche se la sentenza di mercoledì incoraggerà le forze anti-governative a dare la spallata decisiva a quello che viene definito come il “regime degli Shinawatra”, alla maggioranza del Pheu Thai è stata riconosciuta la possibilità di scegliere un nuovo premier provvisorio per traghettare il paese verso nuove elezioni. Poche ore dopo il verdetto, così, un vertice del partito ha nominato il ministro del Commercio, Niwatthamrong Boonsongpaisarn, alla carica di premier ad interim al posto di Yingluck.

L’opposizione politica dominata dal Partito Democratico e quella attiva nelle piazze, organizzata nel cosiddetto Comitato Popolare per la Riforma Democratica (PDRC), intendono invece rimandare la data del voto, così da creare un esecutivo di transizione non eletto che operi una serie di “riforme” volte a sradicare l’influenza della famiglia di Yingluck e dell’ex premier in esilio Thaksin.

Proprio settimana scorsa, l’ex primo ministro Democratico, Abhisit Vejjajiva, aveva incontrato i vertici supremi delle forze armate thailandesi – finora ufficialmente neutrali anche se con chiare simpatie per l’opposizione – proponendo una sorta di “road map” per superare lo stallo, con contenuti virtualmente simili a quelli avanzati da mesi dai leader del PDRC.

La data del voto era stata in ogni caso stabilita recentemente per il 20 luglio prossimo tra il governo e la Commissione Elettorale. Ciò si è reso necessario dopo che sempre la Corte Costituzionale aveva invalidato l’elezione dello scorso febbraio vinta dal Pheu Thai, poiché non si era potuta tenere in un unico giorno in tutto il paese a causa proprio delle manifestazioni di protesta messe in atto dai gruppi di opposizione.

Dopo la sentenza di mercoledì, la premier Yingluck ha respinto le accuse di abuso di potere, mentre molto dura è stata la reazione del numero due del partito Pheu Thai, Phokin Palakul, il quale ha definito il parere della Corte Costituzionale come un tentativo di distruggere la sua formazione politica. Phokin ha poi invitato tutti i thailandesi “che amano la democrazia ad esprimere la loro opposizione alla sentenza in modi pacifici”, mentre ha affermato che il voto di luglio servirà a “risolvere la crisi politica in maniera democratica”.

L’appello alla mobilitazione del leader del partito Pheu Thai fa eco alle minacce dei vertici delle cosiddette “Camicie rosse” filo-governative di portare centinaia di migliaia di thailandesi nelle strade di Bangkok. Alcuni giorni fa, in previsione della decisione della Corte su Yingluck, il numero uno delle “Camicie rosse”, Jatuporn Prompan, aveva annunciato una manifestazione nella capitale per sabato prossimo, anche se già giovedì potrebbero esserci i primi cortei a sostegno della deposta premier.

I simpatizzanti del governo in carica vengono in larga misura dalle aree rurali della Thailandia tradizionalmente emarginati dalla borghesia della capitale e delle provincie meridionali del paese, da dove il Partito Democratico, la casa regnante, le Forze Armate e la burocrazia statale traggono il proprio sostegno.

Queste ultime forze si sentono da tempo minacciate dall’irruzione sulla scena politica thailandese del clan Shinawatra, a cominciare dal successo elettorale nel 2001 di Thaksin che lo portò per la prima volta alla guida del governo. Il magnate delle telecomunicazioni ha da allora coltivato una solida base elettorale tra i ceti più disagiati del suo paese, soprattutto attraverso limitate politiche di riforma sociale.

Avendo perso ogni elezione da due decenni a questa parte, il Partito Democratico, con l’appoggio dei centri di potere ad esso vicini, ha allora utilizzato i militari e i tribunali per cercare di liquidare dapprima lo stesso Thaksin e in seguito i governi e i partiti che lo hanno succeduto.

Un ruolo di primo piano in questo senso lo ha giocato proprio la Corte Costituzionale, le cui prerogative erano state ampliate dalla nuova Costituzione redatta nel 2007 da una commissione nominata dalla giunta militare dopo il colpo di stato dell’anno precedenti ai danni di Thaksin.

Sempre nel 2007, poi, per via giudiziaria venne sciolto il partito di Thaksin – Thai Rak Thai – con l’accusa di violazione della legge elettorale e più di 100 suoi membri furono banditi dall’attività politica per cinque anni. Nel 2008, la Corte Costituzionale avrebbe messo fuori legge anche il successore del Thai Rak Thai, il Partito del Potere Popolare, e rimosso contestualmente dalla carica di primo ministro Somchai Wongsawat, cognato di Thaksin. Poche settimane prima, la stessa sorte di quest’ultimo era toccata al suo predecessore, il defunto Samak Sundaravej, colpevole di non avere abbandonato la conduzione di un programma culinario in televisione dopo la nomina a primo ministro.

Queste iniziative giudiziarie si sono risolte infine nell’ascesa al potere senza passare attraverso il voto popolare del Partito Democratico sotto la guida di Abhisit, responsabile assieme al suo vice e all’attuale leader del PDRC, Suthep Thaugsuban, della durissima repressione avvenuta a Bangkok nel 2010 delle “Camicie Rosse”, tra i cui sostenitori si contarono un centinaio di morti.

Se, ad esempio, Suthep rimane oggi in libertà nonostante un mandato di arresto per avere ordinato il massacro, i tribunali thailandesi sono tornati a perseguire i vertici del nuovo governo a partire dall’autunno scorso, quando sono riesplose le proteste di piazza in seguito ad un fallito tentativo da parte del partito di maggioranza di modificare la Costituzione e di fare approvare un’amnistia che avrebbe permesso a Thaksin di rientare in patria nonostante una condanna per abuso di potere.

Oltre al procedimento che ha portato mercoledì alla destituzione di Yingluck, la ormai ex premier e vari parlamentari del suo partito erano finiti al centro di altri procedimenti motivati politicamente, usati come strumento per operare un cambio di governo.

Yingluck è accusata anche di avere gestito in maniera sconsiderata un piano di acquisto di riso dai coltivatori indigeni a prezzi superiori a quelli di mercato, mentre decine di parlamentari del Pheu Thai erano stati indagati sostanzialmente per avere fatto il loro dovere, presentando cioè la già citata proposta di modifica costituzionale per rendere interamente elettivo il Senato thailandese.

La situazione nel paese dell’Asia sud-orientale rischia dunque di precipitare nei prossimi giorni, oltretutto con gli indicatori economici continuamente ritoccati verso il basso a causa del persistere delle tensioni interne.

Nelle ultime settimane erano perciò aumentate le voci preoccupate per lo stallo a Bangkok, con gli ambienti politici e finanziari internazionali sempre più orientati a tollerare – almeno tacitamente – un colpo di mano per togliere di mezzo il governo di Yingluck e favorire uno sblocco della situazione che, contestualmente, potrebbe portare alla fine definitiva delle politiche populiste favorite dal Pheu Thai e incanalare anche la Thailandia sulla strada dell’austerity.