Tra euforia riformista e nichilismo antigiuridista di D.Bilotti

Domenico Bilotti
http://approccicritici.blogspot.it

Il riformismo in campo ecclesiastico è tema assai risalente: lo è perché, nel processo di adattamento della struttura al reale, il percorso non è mai scritto, ma va compiuto passo dopo passo e, si spera, con un vero coinvolgimento di massa; lo è, più modestamente, perché, se accettiamo il noto paradigma “brocardico” della ecclesia sempre reformanda, c’è costantemente spazio per ricucire, rifinire, riadattare, rimodulare e riconsultare. Ci si permetta pure di ricordare una cosa, che riguarda lo specifico della cultura italiana più paludata: il mito della grande riforma, dell’impalcatura complessiva sostitutiva, ex novo, magicamente, per dare nerbo a situazioni destinate a perire, è mito pericoloso, ma buono a riempire pagine, editoriali e trasmissioni, senza che nulla, sotto il frenetico lavorio delle parole e delle formulette, si modifichi veramente.

E, mentre sfugge il disegno macroriformista, mai specificato, mai portato in piazza, in assemblea, davanti alla vita delle persone, ogni qualvolta un piccolo elemento del sistema va in crisi (la sicurezza, le assunzioni, l’immigrazione, l’uso e l’abuso di stupefacenti), si risponde con l’ennesima adozione di nuove leggi, leggicole e norme, per dare l’idea di una classe dirigente che si applica, lavora, risponde pragmaticamente a tutte le emergenze. Salvo poi rendersi conto che la modifica legislativa, tiepida o emergenziale che sia, in base ai casi, non funziona: non ha attitudine modificativa sui fatti che doveva regolamentare. A volte peggiora, a volte migliora frammenti, senza dar respiro al tutto (alla somma di tutti i frammenti, di tutti i cittadini, di tutte le persone).

L’ultima parte del pontificato di Benedetto XVI e, per intero, quello di Papa Francesco dimostrano l’ambivalenza del ragionamento. Già con Benedetto XVI erano state introdotte importantissime nuove norme su tanti aspetti (abusi commessi contro i minori, questioni finanziarie, questioni liturgiche), ma chi può dire che di questo sforzo sia rimasta durevole traccia nella memoria collettiva dei fedeli? Benedetto XVI, inoltre, era sul soglio, quando alcuni dei più eclatanti massacri, nella storia della cristianità moderna, sono stati compiuti. E ha risposto con perorazioni accorate, a volte di intensità testimoniale, alle altre più direttamente incentrate sul diritto di libertà religiosa.

Pur con le molte perplessità che può suscitare un pontificato, intervenuto in una fase particolarmente interlocutoria, a volere enumerare gli interventi di Benedetto XVI, il conto sarebbe senz’altro cospicuo. Rilanciamo, comunque sia: la memoria collettiva dei fedeli tesaurizzerà davvero qualcosa di questo passaggio? Papa Francesco si è presentato con modalità molto diverse e su certi temi (partecipazione alla vita ecclesiale, attenzione alla povertà, allentamento della stretta dottrinale, a volte “urlata”, a prescindere se condivisibile o meno, sulle scelte e sugli orientamenti sessuali) ha dato segno di un’emblematica discontinuità -mentre su altri, si conserva un approccio continuista e finanche simbiotico.

Ha dato vita a nuovi organi collegiali, ma ci pare, se volessimo stare allo stretto parallelismo con le nostre categorie concettuali psico-antropologiche, che tali lavori vadano fortemente nella direzione di una dimensione consultiva, non ancora prassi, tra l’altro di difficile condivisione di massa (anche sul metodo, se si vuole accogliere il principio che sul merito debba restare un’ipoteca di più ampia riservatezza). In più, grazie a Papa Francesco e a quanto emerso da non occasionali suoi interventi pubblici, sono stati squadernati dei temi importanti che meriterebbero il ragionamento loro sottratto -senza esagerare- per tutto l’ultimo secolo della cristianità, eccezion fatta per l’abbondante seminagione, non di rado svilita, del Concilio Vaticano II. Il rischio che immette nel dibattito questa singolare contingenza è che si creino due fronti opposti, inconsapevolmente opposti (cioè, motivati solo dall’atteggiamento, nemmeno da diverse ascendenze teoriche o da differenti pratiche ecclesiali).

Il primo sarebbe costituito dalla gioiosa enfasi verso il nuovo, che non si cura, però, di dotarsi dei contenuti minimi per potere davvero mettere in opera la novità che ci si aspetta e che si annuncia -non uso questo verbo a caso-, soprattutto nei tempi difficili. Il secondo, invece, preventivamente e anche consapevolmente, edotto di tutte le difficoltà del caso, potrebbe agevolmente ritenere questo dibattito incessante, energico, costantemente rifornito di spunti fluviali, inadeguato, incapace di spostare davvero gli assetti sostanziali della Chiesa e dei suoi rapporti col mondo, le esperienze religiose, i profili di una crisi fomentata dall’affarismo spregiudicato.

Ed entrambi i fronti, magari ricchissimi di buone ragioni, non meritano di entrare in gratuita belligeranza o di fomentare un dissenso artefatto, che poco ha a che fare con la genuinità, l’originalità e la radicalità dell’esperienza cattolica del dissenso (che non s’appuntava solo su questioni di metodo, tra l’altro). Come uscirne? Forse servirebbe, dei tanti cantieri con cui Papa Francesco sta sin qui disseminando ogni suo passo, dibattere direttamente su quelli che dovrebbero più urgentemente essere resi fecondi: nell’ecclesia sempre da riformare, non si può far tutto. Ci sarà sempre qualcosa da dover rifare o da fare meglio, magari il giorno dopo e con un maggior numero di persone. Ma il popolo di Dio, a patto che scelga davvero il corso su cui vuole posizionarsi, potrebbe essere non controparte subordinata, ma attore consapevole, di questo riformismo.