La moglie del prete

Paolo Rodari
Repubblica, 19 maggio 2014

C’è chi le ha chiamate per lungo tempo «le rivali di Dio». Ma oggi, nell’èra di Francesco, il Papa
che come Giovanni XXIII ritiene che la medicina della Chiesa sia la misericordia — senza la carità
«non sono nulla», scrisse san Paolo ai Corinzi — l’ignominia potrebbe finalmente essere cancellata.

Sono donne come tante, che a un certo punto del cammino si sono innamorate — ricambiate — di
un prete e, a motivo di questo amore, hanno patito sofferenze non da poco. Guardate con sospetto,
molte hanno capitolato soffocando i propri sentimenti. Altre hanno tenuto duro e, nella
clandestinità, hanno vissuto da amanti il resto della propria vita. Altre ancora, invece, sono uscite
allo scoperto assieme al proprio compagno, anch’egli tuttavia da subito schedato all’interno di una
precisa categoria, quella degli «spretati». “Le défroqué” (Lo spretato), non a caso, è il titolo con cui nel 1953 Leo Jannon portò nelle sale un film con epilogo drammatico dedicato alla vita di un prete
che lasciò l’abito. A significare che nel film, come nella realtà, lei e lui vivono il medesimo destino
di esclusi perché ribelli, gente che in qualche modo va oltre le regole del consentito.

Certo, dopo il Concilio Vaticano II molte cose sono cambiate. Anche se è pur vero che per tutti Giovanni Paolo II si batté il petto nel grande giubileo del 2000 (ebrei, scismatici, eretici e perfino streghe) ma non per i preti che hanno abbandonato l’abito per sposarsi, tantomeno per le rispettive consorti. Sono centomila i sacerdoti che negli ultimi cinquant’anni (oggi sono circa 70mila quelli in vita, 6mila soltanto in Italia) hanno lasciato il sacerdozio, la maggior parte di essi per amore di una donna.

Fra le ventisei donne che hanno scritto a Francesco chiedendogli di togliere l’obbligo del celibato
sacerdotale non c’è Anna Ferretti, moglie da più di trent’anni di un sacerdote della diocesi di
Napoli. Ma anche lei ritiene sia questo il tempo per ricordare che «il celibato non è un dogma ma
una legge. E che un prete che decide di sposarsi può portare nuovo amore anche dentro la stessa
Chiesa». Dice: «Ho conosciuto mio marito in parrocchia. A un certo punto abbiamo capito insieme
che dovevamo andare al di là di una amicizia. Da quel momento mio marito non ha più celebrato
per scelta. Siamo rimasti nella Chiesa, ancora adesso mio marito tiene un corso per fidanzati. Un
sacerdote a sua volta sposato, ci ha sposati. Il nostro matrimonio non è scritto nei libri della Chiesa. È scritto però in cielo, le carte sono relative».

Gianni Gennari, teologo, oggi non esercita più il ministero ma ancora, dice, «mi sento prete, sono
prete». Racconta: «Nell’84 mi ero appena sposato con una dispensa pro gratia di Giovanni Paolo II
che mi fu ottenuta direttamente dal cardinale Ratzinger. Ricordo che facendo un’intervista al
cardinale Martini per il Tg3, lui mettendomi una mano sulla spalla mi disse sorridendo: “Caro don
Gianni, forse sei arrivato troppo presto”. In quegli stessi anni, fra l’altro, io e mia moglie siamo stati amici di Jerónimo Podestá, vescovo argentino sposato con Clelia Luro. Quando venivano a Roma
spesso erano a pranzo a casa nostra». Podestà lasciò per Clelia l’episcopato. Ma Jorge Mario
Bergoglio non lasciò mai loro: fino alla morte di entrambi mantenne un contatto.

Gennari, circa l’obbligo del celibato, ha le idee chiare: «Il celibato obbligatorio non è un dogma,
non c’è di mezzo alcuna verità di fede, è una legge della Chiesa che pure per secoli ha avuto anche
preti sposati e Papi sposati e Papi figli di Papi. Tra l’altro le Chiese cattoliche di rito orientale hanno ancora oggi preti felicemente sposati. La legge fu fissata a metà del secolo decimo sesto dal
Concilio di Trento convocato da Papa Paolo III, Alessandro Farnese, padre di quattro figli ». Ma,
dice ancora, «io non contesto la validità della legge del celibato: da quando c’è e finché c’è va
osservata da tutti i preti di rito latino che ne fanno promessa. Chi pensa di non osservarla è tenuto a
cessare l’esercizio del ministero presbiterale. Tuttavia è bene ricordare che, come ripete spesso
Francesco oggi, i pericoli per la santità presbiterale non vengono solo dal “pansessualismo
violento”, ma anche da superbia, carrierismo, denaro, potere sulle coscienze altrui e pretesa di
comandare anche dove dovremmo ascoltare e servire… Il “peccato delle origini” non ha reso
“fragile” l’uomo, celibe o sposato, solo nella sessualità. È un problema aperto e rispettando tutti
serve pazienza e testimonianza ».

La pazienza non è mai troppa. E serve ancora oggi seppure impercettibili spiragli di cambiamento
nel tempo del Papa kerigmatico che è Francesco ci sono. Monsignor Erwin Kraeutler, vescovo di
origine austriaca, missionario in Brasile, prelato di Xingu nella regione amazzonica, ha riferito di
aver parlato con Bergoglio, che lo ha ricevuto in udienza lo scorso quattro aprile, dell’ipotesi che
vengano ordinati i cosiddetti “viri probati”, uomini sposati di provata fede, per assicurare
l’assistenza spirituale in un territorio sconfinato con 700mila fedeli, 800 comunità e soli 27 preti.
Cosa le ha detto il Papa? «Che noi vescovi locali conosciamo nel modo migliore i bisogni delle
nostre comunità e dovremmo fargli per questo proposte concrete. Dovremmo essere “corajudos”, ha
detto in spagnolo, coraggiosi».

Un altro lieve segnale viene della diocesi di Roma. L’altro ieri un circuito di comunità d’ispirazione
conciliare, che spinge sui temi della riforma, di cui fa parte anche Noi Siamo Chiesa ha organizzato
un incontro dal titolo “Chiesa di tutti, chiesa dei poveri”. E i lavori sono stati significativamente
aperti con un saluto del vescovo ausiliare Guerino di Tora. Un gesto a suo modo non trascurabile
per un rappresentante dell’istituzione. Racconta Vittorio Bellavite, portavoce di Noi Siamo Chiesa:
«Noi vogliamo stare con fiducia sulla linea di Francesco e dal basso favorire i cambiamenti
necessari alla Chiesa».

La comunità ecclesiale opera dal basso. Fra questa, le comunità cristiane di base. Il loro riconoscersi
nel Vangelo e nella pratica di una Chiesa “altra” rispetto a quella istituzionale — secondo loro più
evangelica e più credibile — non è stato sempre apprezzato. Ma, dice Elena Inguaggiato, sposata
con Rosario Mocciaro, prete della comunità di base di San Paolo e ridotto allo stato laicale senza
che egli avesse chiesto dispensa, «Francesco è un nuovo inizio per tutti perché sa parlare al cuore
della gente. Si pone in modo diverso, con uno stile nuovo, e sono sicura che saprà come agire».

Come ha vissuto il suo amore? «Inizialmente avevo un po’ di senso di colpa. Poi, invece, tutto è
stato fatto alla luce del sole, grazie anche all’aiuto della comunità. Siamo felici. Oggi abbiamo
anche due figli». Il senso di colpa, la paura di svelarsi. Giancarla Codrignani — nel 2005 ha scritto
“L’amore ordinato”, Edizioni Com-Nuovi Tempi — trovò tempo fa su un sito italiano “Donnecosi”
(“donne contro il silenzio”) una testimonianza pubblicata per errore contro la richiesta di
riservatezza dell’interessata che ben mette in luce quel tormento interiore di chi si sente nel peccato
per amare un prete. «Sto male…malissimo! Sono stata sbattuta fuori dal confessionale da un mio
coetaneo, fresco di seminario, impietrito dal fatto che non voglio né vorrò mai chiedere perdono per
aver amato e per amare, perché chiedere perdono sarebbe commettere un peccato ancor più grande,
quello di non aver visto la grazia di saper amare fino in fondo e darsi totalmente a chi si è amato e si continua ad amare».

In Vaticano è Gianfranco Girotti, reggente emerito della Penitenzeria apostolica, a dire che
«nonostante le tante aperture mostrate su temi scottanti, Bergoglio manterrà la situazione immutata
sul celibato». Eppure soluzioni ci sarebbero. Una su tutte la fa sua don Giovanni Nicolini, storico
amico di don Giuseppe Dossetti, che spiega come un uomo sposato con famiglia e figli grandi,
insieme alla partecipazione diretta della moglie, potrebbe essere ordinato sacerdote. Dice: «Sono
consapevole che la tradizione della Chiesa latina non è questa, ma si tratta di un’ipotesi che
andrebbe tenuta aperta. Ho visto delle comunità dell’Oriente con preti insieme alle loro spose che
servono Dio in maniera splendida. Ed erano bellissimi ».

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Io sacerdote e priore con Elena ho riscoperto la vocazione

intervista ad Alberto Stucchi, a cura di Giacomo Galeazzi
La Stampa 18 maggio 2014

«Mi hanno eletto alla guida della comunità perché ero il più giovane dei monaci e quindi potevo
portare novità. Poi, quando, ho proposto di creare una realtà che includesse celibi, eremiti e
coniugati mi hanno opposto il muro delle leggi ecclesiastiche». Padre Alberto Stucchi è sacerdote e
religioso, priore del monastero di Chiaravalle, nel Milanese, dove vive un’antica comunità
dell’ordine cistercense. Dopo 11 anni di vita monastica condotta, per ammissione stessa dei suoi
superiori, in modo esemplare, ha conosciuto Elena, con la quale è nata una storia d’amore. Dopo
aver chiesto e ottenuto un periodo di riflessione fuori dal monastero ha deciso di non interrompere
la sua relazione. «I consigli peggiori me li hanno dati in monastero. Erano arrivati anche a
“giustificare” la mia relazione. Mi dissero che ero priore, che avevo tante responsabilità, che forse
avevo bisogno di uno sfogo, insomma “Fai quello che vuoi, ma di nascosto”. L’importante era che
non si sapesse in giro».

A chi ha detto della sua relazione?
«Appena ho capito di amare Elena prima ne ho parlato con i miei confratelli, poi con i superiori
dell’ordine. Ho avvertito subito il loro terrore. Ho capito che dovevo scegliere: o lei o il monastero.
Dovevo rinunciare all’amore per conservare il patentino necessario a predicare l’amore: un
paradosso. Il diritto canonico concede un anno di riflessione e andai a vivere con Elena. Mi fu detto
di chiedere la dispensa dal sacerdozio».

Vuole la dispensa?
«No, sarebbe come ammettere di non essere stato consapevole al momento dei voti. In pratica, un
errore. Invece io non rinnego nulla di quello che ho vissuto. Davanti a me si era aperta una nuova
strada. Sono uscito dall’ordine ma sono ancora sacerdote. Se un vescovo o il generale di una
congregazione mi accogliessero, potrei tornare a svolgere la mia missione. Elena è morta 5 mesi fa
per un tumore alle ossa».

E’ stata una crisi di vocazione?
«La crisi non era legata al mio ministero. Non stavo perdendo la vocazione, anzi la stavo scoprendo
più che mai. Dopo l’incontro con Elena ho riconosciuto la bellezza della vita religiosa, e avrei
desiderato continuare a condurla in un nuovo villaggio monastico. Per questo ho provato a più
riprese, con la mia compagna, a dialogare con l’istituzione ecclesiastica, cercando di spiegare
l’assurdità di un celibato vissuto non come scelta ma come obbligo. E lasciare Elena per tornare
come se nulla fosse alla mia precedente vita non era una soluzione possibile. Il mio desiderio di
amore si è scontrato con la rigidità delle leggi ecclesiastiche, con la contraddizione di essere fuori
dalle regole canoniche e allo stesso tempo sempre più coinvolto in un’esperienza che mi faceva
sentire più monaco, prete e priore che mai. Tra due opzioni inconciliabili ho scelto Elena».

Cosa avevate chiesto?
«Abbiamo cercato di rivendicare come l’amore per Dio e l’amore per una donna non siano in
contraddizione. Su questo punto con i miei superiori non c’è stata alcuna possibilità né di dialogo,
né di comprensione. Io e Elena abbiamo rifiutato di mantenere segreta la nostra relazione, di
accettare quella che è divenuta, nella vita religiosa, una consuetudine tollerata o suggerita».

E la risposta?
«”Di nascosto si ruba e si uccide, non certo si ama”, ho replicato a chi mi proponeva di vivere la
mia storia nell’ambiguità, nel compromesso. Il principio agostiniano “Ama e fa’ quel che vuoi” si
trasforma drammaticamente in “Fa’ quello che vuoi, ma di nascosto”. Confido che le donne in cerca
di vera limpidezza trovino in papa Francesco un coraggioso difensore della trasparenza».