Il Vangelo nel tempo dell’incertezza di B.Salvarani

Brunetto Salvarani
Adista n. 20 del 31/05/2014

Da una parte, il sociologo francese Alain Touraine nel suo recente saggio La fin des sociétés; dall’altra, papa Francesco, nell’esortazione postsinodale Evangelii gaudium. Questa la coppia di riferimenti che, suggeriti dal direttore di Missione Oggi p. Mario Menin, introducendo il convegno “Dire il Vangelo oggi nel tempo dell’incertezza” (Brescia, chiesa di San Cristo, 10 maggio scorso), risultano utili per la loro critica all’attuale deriva sociale, in chiave di rilancio dell’etica. Entrambi, peraltro, per abbandonare questa fase di stallo non parlano di “crescita” come via d’uscita dal pressoché totale caos e declino dell’odierna società occidentale: usano piuttosto espressioni come «necessaria rinascita e nuovo inizio», che alludono a un vigoroso cambio di atteggiamento da parte di chi governa il mondo e di chi lo abita da cittadino globale.

Nella giungla di valori e istituzioni in via di decomposizione, è necessario pertanto cercare nuovi attori sociali, capaci di rinascita e di nuovo inizio, nel Sud e nel Nord del pianeta. Su tale linea, il tradizionale appuntamento annuale organizzato dalle riviste saveriane riunite nello Csam (Cooperativa Saveriana di Animazione Missionaria) ha inteso interrogarsi in primo luogo su quale parte abbiano i cristiani – e il Vangelo che essi si ostinano a dire al mondo – nel tempo dell’incertezza, dentro la crisi e dopo l’esaurimento delle grandi narrazioni. Da qui il titolo dell’iniziativa, le cui principali relazioni sono state tenute, nella mattinata, da Salvatore Natoli, già docente di Filosofia teoretica alla Bicocca, accademico assai sensibile ai temi dell’etica e sempre aperto al dialogo fra (cosiddetti) credenti e non credenti; e da John Sivalon, statunitense missionario di Maryknoll con una corposa esperienza in Tanzania, autore del recentissimo Il dono dell’incertezza. Perché il postmoderno fa bene al Vangelo (Emi, 2014), presentato in anteprima nell’occasione.

Natoli ha riflettuto su “Dire il Vangelo oggi con papa Francesco. Una primavera in attesa?”, a partire dalla constatazione lampante per cui, almeno nell’emisfero occidentale, si vive in una società ormai definitivamente secolarizzata. La secolarizzazione coincide con un progressivo processo di immanentizzazione dell’eskaton: dall’attesa del ritorno del Signore si passa perciò al saeculum, al mondano. Ora, tra i tanti tratti distintivi della modernità, quelli più transitati nella nostra contemporaneità sono due: la perdita del passato e l’emancipazione della soggettività. Da qui la dissoluzione dei legami di comunità e il rafforzarsi di una concezione sempre più pattizia della società. Ora, si è chiesto il filosofo, in questo passaggio d’epoca è ancora possibile annunciare il Vangelo? E se sì, come? Il cristianesimo annuncia il Risorto e, insieme, il fatto che noi tutti risorgeremo. Cosa questo significhi, a suo parere, appare però sempre meno evidente, mentre la proposta cristiana, nella sua dimensione più alta, si viene sempre più formulando essenzialmente come pratica di carità.

L’annuncio è: Deus caritas est. Certo, ciò ha contraddistinto il messaggio cristiano sin dalle origini, e in questo nulla di nuovo; nuovo, al contrario, è il rischio di una riduzione di tale messaggio a un’ortoprassi caritatevole in cui la resurrezione della carne non è altro che l’involucro mitico di un’etica di comunione. Tanto più che, in una società in cui i legami di comunità diventano sempre più labili, se ne sente acuta la mancanza… Ebbene, il Cristo che Bergoglio predica e il cristianesimo che propone incrociano un reale bisogno, il che spiega la forte carica persuasiva di tale messaggio: non più, secondo Natoli, la promessa di una definitiva liberazione dal dolore e dalla morte (cosa che, semmai, resta sullo sfondo), ma piuttosto l’annuncio di un Cristo che cammina in compagnia degli esseri umani. Non li riscatta dal dolore, ma aiutarli a sostenerlo apporta comunque gioia; e può liberare dal male, se per male s’intende quello che le persone reciprocamente s’infliggono. Così, il cristianesimo educa al perdono che, se autentico e non puramente sentimentale, è tutt’altro che facile e rimane un fatto eversivo: ma – ha concluso – se le cose stanno così, chi mai, come diceva già Croce, non può non dirsi cristiano?

Da parte sua, il missionario e missiologo John Sivalon ha invitato a leggere la missione, elemento cruciale dell’essere Chiesa, in prospettiva di missio Dei (missione di Dio), come processo dinamico di Dio, cui siamo invitati a partecipare in quanto cristiani e, specificamente, istituti missionari. Gli istituti non sono più i soggetti esclusivi (i “padroni”) della missione, ma i servi e testimoni della missio Dei, che è anzitutto un modo di essere che esige un cambiamento radicale del modo di fare missione, d’accordo con l’altrettanto radicale svolta nella comprensione di Dio, secondo le categorie della relazionalità e della alterità (si veda soprattutto il magistero di Jacques Derrida, cui Sivalon si rifà largamente).

Il fare missione oggi implica un modo inedito di accettazione dell’altro, come parte integrante, ineliminabile, della missione stessa. Non c’è missione cristiana senza l’accettazione dell’altro! Quando si nega l’altro, la missione è destinata al fallimento. Fondati al tempo della moderna certezza, in cui la missione era propaganda e proselitismo, gli istituti missionari – ma i cristiani tutti, in realtà – sono chiamati a fare i conti con il dono dell’incertezza, che considera la missione come un’attività di ricerca e di scoperta dell’altro. Fondati nel tempo dell’identità, della verità assoluta, sono chiamati a valorizzare l’alterità, il pluralismo, come parte integrante della missione, come un dono che ci aiuta a definire chi siamo, anche come missionari. Fondati nel tempo in cui vigevano le nozioni coloniali di espansione, crescita e protezione della Chiesa, sono invitati dalle categorie della postmodernità a contemplare in maniera innovativa l’amore di Dio che si svuota di sé, kenoticamente, nel mistero pasquale di Gesù.

Questa chiave postmoderna di comprensione della missione vale anche, si badi, per leggere profeticamente la crisi degli istituti stessi, segnati, soprattutto in Italia, dal dono della morte (invecchiamento e drastica diminuzione delle vocazioni). È solo accettando la morte, ha sostenuto a più riprese Sivalon, che mostriamo di credere e di sperare davvero che il nostro futuro sta nelle mani di Dio e non nelle nostre.

Nel pomeriggio, gli stimoli della mattina sono stati declinati su diversi piani dalla biblista Marinella Perroni (“Dire il Vangelo in Europa con parole di donna”), dal missionario saveriano in Giappone Tiziano Tosolini (“Postmoderno, tra buddhismo giapponese e cristianesimo”) e dalla docente di scuola superiore Maria Luisa Damini (“Oggi a scuola con quale Vangelo?”). È toccato infine a don Paolo Boschini, parroco a Modena e docente di Filosofia presso la Facoltà teologica dell’Emilia-Romagna, tirare – in maniera quanto mai suggestiva – le fila del ricco confronto. Cominciando con il sottolineare che nulla sarà come prima, per cui i credenti sono convocati alla rottura e alla reinvenzione, fino ad abbandonare definitivamente l’idea di un Dio onnipotente per abbracciare quella di un Dio che sta alla soglia dell’esistenza.

Occorre dialogare per credere: risignificare il pluralismo, ritornare al Creato, amare l’incertezza nella ricerca di un senso, nella convinzione che la verità non è un possesso; e che Dio – nel tempo dell’incertezza, appunto – si dice nel movimento di impregnarsi, mescolarsi, donarsi, per ritrovare nell’altro le ragioni perdute dell’essere comunità e del tessere legami. Ecco dunque il senso profondo del dono dell’incertezza: che apre al dubbio, inaugura spazi per la contemplazione e il discernimento, consente la nascita dell’immaginazione e della creatività, del cambiamento e della crescita. Ed ecco perché, a conti fatti, e a dispetto degli ancora troppi “profeti di sventura” (fratelli ideali di quelli deprecati da Giovanni XXIII mentre introduceva il Vaticano II con la Gaudet Mater Ecclesia), il postmoderno non solo non dovrebbe spaventare, ma può fare del bene al Vangelo, nel tempo di Francesco vescovo di Roma.