Unione incompiuta, democrazia dimezzata

Felice Mill Colorni
www.confronti.net

Ancora una volta le elezioni europee sono state una somma di elezioni nazionali, ognuna delle quali si è svolta con regole proprie e soprattutto seguendo dinamiche interne e dispute politiche molto «provinciali», con una scarsa relazione con ciò che avviene nel resto dell’Unione europea.

Le elezioni europee non sono ancora mai state del tutto europee. Lo diventeranno se e quando eleggeremo il Parlamento con la stessa legge elettorale e voteremo per partiti europei, per formare un esecutivo europeo. Per ora sono le leggi statali a stabilire il sistema elettorale. Si eleggono, separatamente, e perfino in date parzialmente diverse, i deputati europei «spettanti» ai diversi Stati membri. E l’«esecutivo» europeo è ancora oggi nominato con una complessa procedura prevista dal trattato di Lisbona, che, se riconosce al Parlamento maggiori poteri di prima, non arriva al punto di richiedere che esista fra il Parlamento e la Commissione lo stesso rapporto di fiducia che è richiesto fra Parlamento e governo nelle democrazie dei paesi membri.

Per conseguenza, anche le campagne elettorali e il dibattito pubblico che le accompagna non rispondono ancora a una logica europea, e quasi sempre hanno più a che fare con la politica interna che con quella europea. Un importante passo avanti sono stati quest’anno i dibattiti fra i candidati alla Presidenza della Commissione designati dai rispettivi partiti europei, i quali cominciano anche così, un po’ timidamente, a prendere forma. Resta da vedere se il Consiglio – l’organo intergovernativo dell’Unione – e il Parlamento raccoglieranno queste indicazioni, dato anche che il voto ha prodotto diverse maggioranze possibili. Il che non sarebbe anomalo, dal momento che questa è la norma di ogni democrazia parlamentare inclusa quella italiana, checché ne dicano i politicanti della nostra cosiddetta «seconda repubblica». Ma resta il fatto che gli stessi «partiti» europei sono anch’essi per ora poco più che federazioni di partiti statali, dai quali, anziché dagli iscritti, traggono legittimazione le rispettive leadership. Per questo l’arena entro cui si decide la politica europea non è ancora un’arena europea, ma la risultante di ventotto diverse arene politiche statali. Naturalmente questo non giova per nulla alla razionalità delle scelte, e può capitare, come è capitato in questa occasione, che le tendenze politiche che si manifestano nel voto europeo non risultino omogenee nei diversi paesi.

In effetti l’ondata di populismo antieuropeo che ha travolto soprattutto Francia e Gran Bretagna si era già largamente manifestata in Italia in precedenza ed è quindi apparsa in (relativo) calo rispetto ad altri paesi.

In realtà, se si guardano le cose con maggiore distacco, il fenomeno è generale. Perfino il paese fin qui più immune dal fenomeno – la Germania – ha cominciato ad avvertirne i primi sintomi. Certo, non sarebbe stato eletto neppure il singolo deputato di estrema destra tedesco che alla fine l’ha spuntata, se la Corte costituzionale federale non avesse – e ben a ragione, a nostro avviso – dichiarato illegittima una soglia elettorale di ingresso non giustificata da alcuna esigenza di governabilità, rendendo sostanzialmente proporzionale la legge elettorale europea tedesca. Certo sarebbe difficile definire propriamente populista il nuovo partito Alternative für Deutschland, sostanzialmente nato per iniziativa di economisti accademici: conservatori sì, nazionalisti economici alquanto, ma certamente per nulla credibili come rappresentanti del «popolo minuto» contro le scelte di élites tecnocratiche: semmai una manifestazione del vero sogno inconfessato largamente diffuso in un paese tanto spesso accusato, del tutto a torto, di voler «dominare» i vicini, e il cui vero ideale politico irrealizzabile è all’opposto quello di diventare un’enorme Svizzera, prospera, neutrale, laboriosa, ultrapacifica – e quanto più possibile disinteressata ed estranea alle vicissitudini e ai travagli dei paesi vicini e lontani, visti più o meno tutti o come un po’ più zuzzurelloni e meno responsabili del dovuto, o come totalmente alieni. E tuttavia finora il populismo non era riuscito a penetrare ed affermarsi in Germania neppure in questa versione soft.

Ma naturalmente sono la Francia e la Gran Bretagna, i paesi in cui la democrazia liberale è nata e che l’hanno sostanzialmente impersonificata (in Francia con alterne vicende) nel corso del XX secolo, quelli in cui il successo populista suscita le maggiori apprensioni. La prima più che la seconda, dato che il successo del UK Independence Party di Nigel Farage non fa che estremizzare, anche se con toni davvero detestabili, tendenze ultraconservatrici, nazionaliste, xenofobe e antieuropee che allignano anche fra i Tories almeno dai tempi di Margaret Thatcher.

Il caso di Marine Le Pen è diverso. Perché può già vantare, a differenza della gran parte degli altri populismi europei, una sua «lunga durata» (lunga, naturalmente, sulla misura dei cicli elettorali) come partito di massa, dato che già il padre aveva scalzato a sorpresa l’algido candidato socialista Jospin dal ballottaggio delle presidenziali del 2002, poi vinte da Chirac: è difficile sperare che si tratti di una fiammata di risentimento anti-establishment destinata a esaurirsi in breve. Poi perché rappresenta una subcultura di destra estremista radicata nella storia, che, dopo la sconfitta del 1940, aveva vissuto una sua stagione di egemonia sulla società francese, e con cui – a differenza della Germania – la Francia ha cominciato a fare i conti solo dopo la fine dell’era Mitterrand, e mai davvero fino in fondo. Infine – e soprattutto – perché, come e meglio che altrove, Marine Le Pen, molto più abile del padre, ha saputo fondere nella sua proposta politica idee-forza tipiche delle politiche economiche della sinistra novecentesca con lo sciovinismo, la xenofobia e il razzismo propri della destra estremista, divenendo così un polo di attrazione per il disilluso elettorato tradizionale di sinistra. Farà scuola, come è già accaduto novant’anni fa. Il Front national sotto la sua guida ha perfino largamente attenuato il tradizionale legame con il clericalismo reazionario, per brandire la laicità come un’arma esclusivamente diretta contro i musulmani.

Fuori dalla cerchia delle più blasonate democrazie costituzionali, il populismo antieuropeo si è in qualche caso affermato senza neppure dissimulare il legame diretto con le forme più abiette di razzismo, come accade in Grecia con Alba Dorata, o in Ungheria con i neonazisti di Jobbik. La saldatura in un gruppo parlamentare unitario di questi populismi estremisti potrebbe ostacolare ulteriormente la nascita di una efficace democrazia europea.

Ovunque l’appeasement nei confronti di forme moderate di populismo, la riluttanza da parte delle forze democratiche a far valere le proprie buone ragioni, provocano una caduta ulteriore degli anticorpi, preparano sempre nuove e più minacciose manifestazioni di estremismo sempre più spinto e sguaiato. L’esasperazione diffusa che la grande crisi sta provocando, in mancanza di soluzioni alternative realisticamente praticabili su un piano meramente statale, si nutre di furori verbali che a loro volta si traducono in proposte politiche sempre più irragionevoli, avanzate con la consapevolezza che non saranno mai messe alla prova dei fatti dai loro ideatori. Qualche volta, per fortuna, il troppo stroppia, come è probabilmente accaduto con Grillo.

Quel che è paradossale è che queste disperate richieste di cambiamento, indirizzandosi contro la costruzione europea stessa anziché contro l’incompiutezza dell’integrazione, privano la politica della possibilità di effettuare scelte efficaci di qualunque segno, per le quali la dimensione continentale, nel mondo globale, sarebbe davvero quella minima necessaria. Allo stesso modo le campagne populiste contro le «caste» politiche hanno ovunque spesso l’effetto di attrarre alla politica solo chi tiene poco alla propria reputazione. Purtroppo i requisiti necessari a ben governare o a ben esercitare la rappresentanza politica si stanno sempre più allontanando da quelli necessari a vincere le elezioni. In questo processo degenerativo l’Italia è stata l’avanguardia mondiale per vent’anni.

In questo scenario piuttosto deprimente, per una volta proprio dall’Italia arriva un messaggio europeo meno catastrofico: l’inizio – si spera – della fine del berlusconismo, una battuta d’arresto del grillismo (però va tenuto conto che avevamo già dato) e dell’antieuropeismo radicale. Ha vinto, credo, un populismo diluito, che non si è scontrato con progetti alternativi sufficientemente credibili, e che non gradisce voci critiche al proprio interno. Che non capisce il valore dei freni e contrappesi costituzionali e delle minoranze per la salvaguardia delle libertà di oggi e di domani. Ipercinetico, magari, come Fanfani. Dopo la catastrofe antropologica di vent’anni di berlusconismo era difficile attendersi granché. Ma poteva anche andar peggio.

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L’Italia, l’Europa e gli… ex voto

Giuseppe Panissidi
www.micromega.net

In margine alle recenti elezioni europee, si avverte la necessità, civile ancor prima che politica, di dedicare un barlume di attenzione a un dato oltremodo significativo, ma pressoché ignorato: il picco dell’astensionismo. Il fenomeno, infatti, ampiamente studiato e variamente interpretato, richiama, per analogia, un’idea classica profonda: “Il Signore, il cui oracolo è a Delfi, non dice e non nasconde: significa”.

Certo è che, comunque le si voglia intendere, le percentuali della volontaria rinuncia al voto, notevolmente cresciute negli anni della (cosiddetta) “seconda Repubblica”, fanno registrare un costante aumento a partire dagli anni ’70. Solo in parte, però, sono riconducibili al “tramonto delle ideologie” e allo sfaldamento/frammentazione delle organizzazioni politiche. Ora, sebbene si possa comprendere che la passione politica degli anni immediatamente successivi alla sconfitta dei totalitarismi sia irripetibile, non può tuttavia sottacersi che essa è andata progressivamente, anzi regressivamente, declinando ben oltre la soglia fisiologica di una democrazia governante e partecipata. In ogni caso, allo stato sembra in caduta libera. Né può ascriversi al caso che la parabola discenda in connessione sincronica con l’insorgenza e l’estensione della “questione morale”, e della connessa “occupazione delle istituzioni”, quando la corruzione si fa Stato dentro e contro lo Stato, per l’appunto dalla fine degli anni ’70: il focus epocale di Enrico Berlinguer. Oggi, essa ha ormai assunto un aspetto tentacolare, inducendo un radicale scetticismo in molti, troppi cittadini, fino ad apparire, a causa della sua capillare pervasività, e in un crescendo poco rossiniano, pressoché irresolubile. Come in una perenne Repubblica da “eterno ritorno dell’identico”, con gli immancabili… aggiornamenti. Da qui, un vero e proprio exodus, l’uscita in massa dal voto, da vent’anni non più sanzionabile, ma pur sempre integrante un “dovere civico” di pregio costituzionale (art. 48). Per la memoria storica dei distratti, la sentenza n. 96/1968 della Corte Costituzionale, presieduta da Aldo Sandulli, nelle considerazioni in diritto, già statuiva che “in materia di elettorato attivo, l’articolo 48, secondo comma, della Costituzione ha, poi, carattere universale ed i princìpi, con esso enunciati, vanno osservati in ogni caso in cui il relativo diritto debba essere esercitato”. Malgrado ciò, resta il fatto che la “democrazia elettorale” non può farsi coincidere tout court con la ressa alle sezioni elettorali.

Assistiamo, al contrario, all’emergenza sempre più diffusa della voice, della sfiducia/protesta del voto inespresso, com’è opportuno definire l’astensione, non già del non-voto, anche in considerazione del numero esorbitante di schede bianche e nulle. Si tratta, con tutta evidenza, di un grande partito di maggioranza relativa, un’opposizione reale di uomini e donne titolari dei valori di cittadinanza, la cui libera, quasi necessitata rinuncia alla partecipazione non può essere tranquillamente bandita dalla discussione pubblica, né rimossa dalla doverosa attenzione dello Stato costituzionale e democratico. E non è plausibile che questa opposizione, chiaramente espressa mediante il voto inespresso, in qualche modo incorpori anche il rifiuto del “mussolinismo nazionale”, di cui parlava Piero Gobetti, assicurando che “il problema non è Mussolini”? Oppure l’esigenza di quella “profonda riforma intellettuale e morale del popolo italiano”, iniziata nel fuoco dell’antifascismo e della Resistenza e presto interrotta, vagheggiata da Antonio Gramsci, e non solo da lui? “Nemo propheta in patria (sua), in conformità ai vangeli? Non si direbbe, se, nel 1943, Pietro Nenni poteva auspicare “la bonifica morale del carattere e della coscienza nazionale, posta l’inutilità della sola ricostruzione materiale” e, nello stesso anno, Benedetto Croce diagnosticare, a chiare lettere, una “malattia morale”, giudizio ribadito ancora l’anno successivo e nel 1947. Sulla medesima lunghezza d’onda, entro una comune temperie ideale, il gotha dell’intelligencija nazionale, da Luigi Einaudi a Gaetano Salvemini, da Guido De Ruggiero a Luigi Salvatorelli.

La ricostruzione materiale è un fatto compiuto. E tuttavia, il Paese non è guarito dagli “antichi mali”, che anzi si sono esacerbati, nel sentire comune criticamente orientato e consapevole, istruito da intransigenti evidenze contrarie. Ha quanto meno seriamente provato a curarsi? Magari in uno slancio coraggioso di autotutela, in forme, per dir così, di “autosovversione” alla Hirschman, “un’attività utile e gioiosa”, socialmente sana e culturalmente imprescindibile? Oppure considera la sua al pari di una rara malattia… autoimmune?

Ed ecco l’Aventino di massa – astensione per impedimento a parte – dettata, e spesso esplicitamente motivata, con un’insofferenza, aspra e forte, rispetto alla chiacchiera impotente e mistificatoria, eccellente placebo per levigare superfici, inefficace per mordere su livelli di realtà più profondi. I fondamentali di una Civiltà a misura d’uomo, come si suol dire. Quale, solo per trarre qualche esempio dal mare nostrum, la crescente divaricazione tra governanti e governati, acuita dallo splendido isolamento dei primi in una turris eburnea di poteri oligarchici, ciechi e autoreferenziali, entrambi, governanti e governati, talora accomunati soltanto da forme inquinanti e contagiose di malcostume sistemico o di sapida impunità. Oppure l’inaudito aumento delle diseguaglianze, per nulla o scarsamente utilizzate per migliorare la condizione degli svantaggiati (J. Rawls). O il collasso della giustizia, asse strategico dello Stato di diritto, nefasta interfaccia della corruzione morale e politica. Ovvero, ma non da ultimo, su un terreno diverso ma contiguo, quell’inquietante 80% di “analfabetismo funzionale” che affligge la Nazione, causa latente di molteplici, aspre criticità. Se è vero, com’è vero, che la cultura come tale, non quella specifica della legalità, rappresenta – è la convinzione di recente espressa, tra gli altri, dal procuratore nazionale antimafia – l’antidoto più efficace rispetto ai poteri criminali, e al dominio di questi su interi territori dello Stato democratico che – ancora il procuratore nazionale – assuefatto alla convivenza, non ha ancora “deciso” di debellarli.

Analfabetismo funzionale, si diceva, misteriosamente avvolto in un silenzio istituzionale ovattato. E concertato? “Di ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”, suggerisce L. Wittgenstein, entro un contesto toto caelo remoto dal nostro, che ha ben poco di logico ed etico o mistico ed inesprimibile.

Ma a chi giova? E qual è il senso della festa di questa Repubblica, oggi, quando è appena trascorso il 2 giugno? E’ ancora una festa condivisa? Buchi neri, dunque. Non sarebbe il caso, in via eccezionale, di fare… un salto nel buio? Di converso, in campo aperto dominano retoriche parolaie, amenità curiosamente speculari all’impotenza rabbiosa di non trascurabili segmenti del voto espresso. Per dirla in breve, le estenuanti diatribe intorno ai “massimi sistemi” e il bonus fiscale di ottanta euro non sono sufficienti. Evidentemente. Queste vaste frazioni di popolo meritano l’offerta di una seria alternativa, un’opzione finora indisponibile, in luogo di politici posticci e arrembanti o identità stagnanti e sclerotizzate. Vanno, ossia, ricondotte alla politica, quale cura della polis, che non si travesta da antipolitica. Oltre il principio di sopravvivenza, se, domani e ancora dopo, non vorremo trovarci punto e daccapo. O peggio.

Non sono, dunque, consentiti, e si rivelano anzi pericolosi, i ricorrenti, sinergici tentativi di occultare o relativizzare la portata devastante del fenomeno in tema, magari mediante un farisaico, autoconsolatorio nihil sub sole novi o la misera conta dei voti espressi. E questo in ragione delle conseguenze, palesemente critiche, che interpellano, dovrebbero interpellare, la coscienza civile, etica e politica insieme, della nostra identità collettiva. In democrazia, infatti, usa contare le teste, anziché tagliarle. Tutte le teste, però, non alcune soltanto, a pena di frode contabile, il caro estinto falso in bilancio.

Invero, ci configuriamo, ormai, come una (complessa) democrazia del 20%, ossia della rinuncia, ancorché ed auspicabilmente non rassegnata e dissociata, per quanto concerne la legittimazione popolare della governance, e del restante 80%, sul crinale delle opposizioni e, soprattutto, del voto inespresso. Ulteriore riprova del fatto, empiricamente attestato, che esistono le democrazie, non la democrazia e, a scanso di equivoci, che democrazia, da Pericle in avanti, significa governo “per il popolo”, non “del popolo”. Ed altresì dell’idea, intuitiva e controfattuale, che i voti, espressi e/o inespressi, non si equivalgono, come hegeliane “fredde, lisce palle di biliardo”, se è vero, è l’assunto di Alcide De Gasperi, che il responso delle urne “fa legge per tutti, salvi i principi supremi della morale”. Insomma, l’eguale valore del voto implica semplicemente l’elezione del candidato più votato, in virtù del principio dell’”equivalenza”, che fonda il governo rappresentativo. Altro dalla democrazia rappresentativa e, ancor più, dalla “qualità” etico-politica delle assemblee elettive, e salvi i casi di “tirannia della maggioranza”. Ragion per cui, incidenter tantum, sono più democratici quei sistemi politici che, per garantire la governabilità, “infliggono al criterio proporzionale ferite minori di altri”, come ragionevolmente sostiene G. U. Rescigno, sulla medesima linea di pensiero che ha ispirato la recente pronuncia della Consulta in ordine al famigerato “porcellum”.

Come esito maturo della grande lotta anti-totalitaria d’antan, dunque, l’approdo odierno non è particolarmente esaltante, né foriero di improbabili percezioni ed emozioni trionfali, a fronte di torsioni populistiche tenaci e variegate, finanche esilaranti, più o meno smaliziate e raffinate, ma ontologicamente vane. Con una riserva rispetto al “populismo liberal-democratico”, secondo una terminologia invalsa di recente. Neppure, in ipotesi, sotto l’astratto profilo del principio liberale, peraltro non condiviso, oltre che, come s’è visto, incostituzionale, dell’eguale diritto e dignità della partecipazione e della non-partecipazione. In una prospettiva di sinistra democratica, quei buchi neri rappresentano contraddizioni e sfide oltremodo impegnative, oltremodo, per i gruppi dirigenti della società e dello Stato. Di certo non proibitive.

A nulla, poi, rileva che l’astensionismo suoni come condanna anche per i principali attori dello scenario europeo, qualora si consideri la specifica complessità dei sistemi e delle poste in gioco nazionali, pur entro il comune terreno della costruzione europea. Come, del resto, tutti hanno riconosciuto in campagna elettorale e ora, vincitori e vinti, confermano.