Che cosa alimenta la disoccupazione

Luciano Gallino
Repubblica, 10 giugno 2014

Non è affatto vero che lo Stato spende troppo e bisogna quindi tagliarne le spese per tornare sul terreno virtuoso dello sviluppo. È vero invece che lo Stato spende troppo poco rispetto a quanto incassa, venendo così a mancare all’impegno di restituire ai cittadini le risorse che da loro riceve. Il danno maggiore questo squilibrio lo reca all’occupazione. Di fatto, da quasi due decenni la disoccupazione è spinta in alto dal fatto che lo Stato preleva ogni anno dal reddito degli italiani decine di miliardi in più di quanti non ne restituisca loro in forma di beni e servizi, mentre per lo stesso motivo l’economia è spinta in basso. Stando ai dati del ministero dell’Economia sul bilancio dello Stato relativi al 2013, ad esempio, lo Stato stesso ha imposto ai cittadini di versargli 516 miliardi in forma di tributi e altro. Però ha messo in conto di spendere a loro favore, sotto forma di spese correnti (al netto degli interessi sul debito) e in conto capitale, soltanto 431 miliardi. La differenza a scapito dei cittadini è di 81 miliardi. Le previsioni, stando ai dati ufficiali del bilancio dello Stato, sono anche peggiori. Per il 2014 esse dicono che ai cittadini saranno sottratti 55 miliardi, rispetto a quanto loro dovuto, che saliranno a 86 nel 2015 e a 104 nel 2016.

I governi in carica degli ultimi vent’anni e la maggior parte dei media sono riusciti a diffondere nella popolazione l’idea insensata che la spesa dello Stato serva quasi soltanto a mantenere un po’ di burocrati dei quali non si vede bene che lavoro svolgano. In realtà la spesa dello Stato è costituita dagli stipendi di insegnanti e medici, ricercatori e forze dell’ordine; da un fiume ininterrotto di acquisti di beni e servizi; da investimenti infrastrutturali come scuole e ponti, argini dei fiumi e tutela dei beni culturali. Sottrarre a tutto ciò decine di miliardi l’anno significa per l’intera economia un colossale salasso, insieme con una forte spinta alla disoccupazione, perché ogni stipendio o salario speso in consumi crea altri stipendi o salari, e ogni acquisto di merci, materiali o servizi serve a dar lavoro a qualcuno. Se vengono tagliate o soppresse le risorse che equivalgono, direttamente o indirettamente, a parecchie centinaia di migliaia di posti di lavoro, i risultati sono quelli drammatici che ormai riempiono le cronache.

Il suddetto squilibrio tra le maggiori risorse sottratte agli italiani e le minori risorse ad essi restituite sotto forma di beni e servizi si chiama, nel linguaggio della contabilità, “avanzo primario”. Da questo punto di vista l’Italia è il paese più virtuoso d’Europa. Infatti nessun altro paese europeo fa registrare da così tanti anni un avanzo primario così elevato. Sarebbe forse il caso di cominciare a riflettere se questo primato supposto positivo non abbia qualche relazione con un altro primato sicuramente negativo: il tasso di disoccupazione, giovanile e non, visto che a parte casi marginali come Irlanda o Grecia, quello italiano, in piena sintonia con l’andamento dell’avanzo primario, risulta pur esso il più alto d’Europa.

Dobbiamo far fronte all’onere del debito, si obbietterà, e per ridurre questo serve appunto un crescente avanzo primario. Di certo gli interessi sul debito sono colossali. Quasi 90 miliardi nel 2013, più di 93 previsti per il 2014, mentre quasi 97 e poco meno di 99 figurano nel bilancio di previsione dei due anni successivi. Il punto è che il debito, al pari della possibilità di ripagarlo, sono fortemente influenzati dall’andamento dell’economia. Se lo Stato insiste nel sottrarre sistematicamente ad essa varie decine di miliardi l’anno, dopo averli tolti dal portafoglio dei cittadini che in tal modo non li possono spendere, lo Stato stesso comincia ad assomigliare a un maratoneta che per correre più in fretta si spara sui piedi.

Quanto al debito, si può osservare che a forza di asfissiare l’economia perseguendo un avanzo primario sempre più elevato, con relativa caduta della domanda aggregata (consumi più investimenti) perché il cosiddetto “avanzo” assorbe risorse sia pubbliche che private (che sono i soldi sottratti ai cittadini con le imposte e non restituiti in veste di beni e servizi), lo Stato italiano potrebbe essere ormai caduto nella spirale infernale dell’interesse composto. Sebbene sia difficile scomporre contabilmente i due elementi, l’irrefrenabile aumento del debito a fronte di spese dello Stato stagnanti induce a sospettare che lo Stato sia costretto a prendere a prestito denaro non solo per pagare gli interessi sul debito, ma pure per pagare gli interessi sugli interessi – che è appunto l’inferno in cui cadono sovente coloro che contraggono prestiti da qualche usuraio. In forza della spirale dell’interesse composto, combinata con le politiche economiche regressive che questo governo appare perseguire come tutti i precedenti dalla fine degli Anni 90, il debito pubblico italiano appare ormai impagabile.

Proviamo a tirare le fila. Dopo quasi due decenni in cui il tenace perseguimento di un sempre crescente avanzo primario si è accompagnato a un disastroso aumento della disoccupazione; una situazione dell’economia che appare in complesso gravemente deteriorata; un rilevante aumento del debito pubblico, più un cospicuo incremento dell’interesse sul debito, parrebbe giocoforza riconoscere che la strada sin qui seguita è del tutto sbagliata. Trovare alternative non sarà facile, tenuto anche conto che i burocrati di Bruxelles e i maggiori governi Ue non sembrano avere imparato niente dal risultato delle recenti elezioni per il Parlamento europeo, per cui continuano a battere e ribattere sui loro rugginosi – e ormai pericolosi – chiodi del pareggio di bilancio e simili. Quanto a idee provocatorie: se i 55 miliardi di avanzo primario previsti per il 2014 venissero spesi per assumere subito 3 milioni di disoccupati e metterli al lavoro in numerose opere di interesse collettivo – una tra tante: la messa in sicurezza delle scuole, ad esempio, visto che se ne parla – qualcuno può essere sicuro che l’economia, l’occupazione e la questione del debito andrebbero peggio di quanto non stiano andando al presente?

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Così muore l’economia italiana

Guglielmo Forges Davanzati
www.micromega.net

Che il declino economico italiano sia essenzialmente imputabile alla caduta della produttività è cosa nota da tempo, e sorprende che il Ministro Padoan se ne accorga solo ora o che lo renda noto solo ora, al Festival dell’Economia di Trento il 31 maggio scorso. La riduzione della produttività è imputabile a numerosi fattori, fra i quali, non da ultimo, la caduta della domanda aggregata che si è registrata, in Italia, almeno a partire dagli ultimi venti anni, aggravata dalle politiche di austerità, dalla rilevante riduzione della quota dei salari sul Pil e dalla altrettanto rilevante contrazione della produzione industriale.

La Fig.1 evidenzia che il tasso di crescita della produttività, dal 2001 al 2010, è stato, per l’Italia, sistematicamente inferiore a quello registrato in tutti gli altri Paesi europei e negli Stati Uniti. Data l’ampiezza del periodo considerato, il fenomeno può considerarsi strutturale, derivante da una dinamica di lungo periodo che ha generato la progressiva desertificazione industriale dell’economia italiana; dinamica che si è prodotta ben prima della crisi, e che ovviamente la crisi (e le politiche economiche messe in atto) ha contribuito ad amplificare. Confindustria rileva, a riguardo, che dal 2008 al 2013 la produzione industriale in Italia si è ridotta di circa il 25%.

Il nesso che lega la dinamica della domanda a quella della produttività passa attraverso questi meccanismi.

1) Se aumenta la domanda, le imprese sono incentivate a produrre di più, dunque ad accrescere le loro dimensioni. L’aumento delle dimensioni d’impresa genera aumenti di produttività, per l’operare di economie di scala, ed è di norma associato a più alti salari. Vi è di più, dal momento che la dinamica della domanda aggregata ha anche effetti sulla produttività tramite variazioni della struttura demografica. Ciò a ragione del fatto che riduzioni di domanda di beni di consumo e di investimento si associano a riduzioni della domanda di lavoro (soprattutto a danno di individui giovani) e, per conseguenza, accentuano i flussi migratori (prevalentemente di giovani con elevati livelli di scolarizzazione), determinando una condizione di progressivo invecchiamento della popolazione. Una popolazione con età media elevata genera, con ogni evidenza, una forza-lavoro meno produttiva rispetto a una condizione nella quale è più bassa l’età media degli occupati [1].

2) La caduta della domanda incide anche sulla specializzazione produttiva. Nel caso italiano, essa si è associata all’intensificazione del processo di specializzazione produttiva dell’economia italiana in settori a bassa intensità tecnologica (oltre ad aver generato ondate di fallimenti d’impresa), tipicamente il made in Italy, l’agricoltura, il turismo. Si tratta di settori nei quali operano imprese con bassa propensione all’innovazione, che non occupano lavoratori con elevata dotazione di capitale umano. I Governi che si sono succeduti negli ultimi anni si sono, per così dire, limitati ad assecondare questo processo (ovvero a dequalificare la forza-lavoro), con una decurtazione di fondi alla ricerca scientifica di entità tale da mettere seriamente a rischio la tenuta del sistema formativo italiano. E poiché è innegabile che la ricerca scientifica è la necessaria pre-condizione per l’attivarsi di flussi di innovazione, non vi è da sorprendersi se – anche per questa via – le politiche economiche hanno significativamente contribuito alla progressiva desertificazione produttiva del Paese alla quale stiamo assistendo.

3) La caduta della domanda è anche all’origine della restrizione del credito. Ciò a ragione del fatto che, riducendosi i mercati di sbocco, si riducono i profitti e, per conseguenza, si riduce la solvibilità delle imprese, rendendo sempre meno conveniente per le banche finanziarle. Date le piccole dimensioni aziendali delle nostre imprese (soprattutto nel Mezzogiorno), risulta per loro sostanzialmente impossibile attingere risorse nei mercati finanziari. Il che comporta una contrazione dei fondi destinabili per investimenti e, a seguire, la riduzione degli investimenti – in quanto accresce l’obsolescenza degli impianti – ha effetti negativi sulla dinamica della produttività.

4) La caduta della domanda aggregata agisce negativamente sulla dinamica della produttività anche a ragione del fatto che, accrescendo il tasso di disoccupazione, e riducendo conseguentemente il potere contrattuale dei lavoratori, incentiva le imprese a competere riducendo i costi di produzione (salari in primis), ovvero disincentiva le innovazioni [2].

Le opzioni di politica economica che derivano da queste considerazioni sono essenzialmente riconducibili a misure di stimolo della domanda, soprattutto per gli effetti che questi producono dal lato dell’offerta. Per contro, la Commissione Europea ha recentemente (ri)proposto una linea di politica fiscale di segno esattamente opposto, ovvero: per accrescere l’occupazione occorre “lo spostamento del carico fiscale dal lavoro alle imposte ricorrenti sui beni immobili, sui consumi e sull’ambiente, in modo da rafforzare il rispetto dell’obbligo tributario e combattere l’evasione fiscale”.

Si tratta, a ben vedere, non solo della reiterazione di proposte che si sono rivelate palesemente inefficaci (se non del tutto controproducenti), assumendo, contro ogni evidenza, che sia sufficiente la detassazione del lavoro per spingere gli imprenditori ad assumere; ma si tratta anche di provvedimenti che accrescono le diseguaglianze distributive, dal momento che l’aumento dell’imposizione indiretta grava con uguale incidenza su percettori di redditi alti e bassi [3]. Ed è anche poco difendibile l’idea che solo rendendo sempre più regressiva la tassazione che si rende possibile un aumento delle entrate fiscali, dal momento che questa misura, accrescendo le diseguaglianze distributive, deprime ulteriormente i salari reali, potendo incidere negativamente sulla produttività del lavoro, sul tasso di crescita e sulla stessa base imponibile.

Ma soprattutto, la detassazione del lavoro pone semmai le imprese nella favorevole condizione di competere tramite riduzione dei costi e, se il problema italiano è il problema della caduta della produttività, questa linea di politica economica non può che accentuarlo [4].

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NOTE

[1] A ciò si aggiunge che la riforma pensionistica voluta dal Governo Monti ha significativamente contribuito ad accrescere l’età media dei lavoratori, con effetti di segno negativo sull’occupazione giovanile.
[2] Come osserva Alain Parguez, “a full employment policy automatically pushes for increased investment and therefore for the embodiment of more and more technology-innovations in the stock of equipment. It is tantamount to the proposition that a full employment policy sustains the growth of productivity in the long run” (A.Parguez, Money creation, employment and economic stability: The monetary theory of unemployment and inflation, “Panoecnomicus, 1, 2008, p.50). E’ rilevante, su questo aspetto, sgombrare il campo da un equivoco. L’indicazione prevalente, in materia di politiche del lavoro, suggerisce di commisurare i salari all’andamento della produttività del lavoro, data la duplice tacita assunzione secondo la quale i) la produttività del singolo lavoratore è quantificabile, ovvero è isolabile il suo specifico contributo alla produzione ii) le variazioni della produttività del lavoro sono interamente imputabili all’intensità lavorativa. Il punto qui in discussione è che, anche accettando l’ipotesi che la produttività del singolo lavoratore sia misurabile, il suo salario reale non può dipendere dal suo impegno individuale, giacché dipende, in ultima analisi, dalle decisioni autonome delle imprese in merito alla scala e alla composizione merceologica della produzione (ovvero al cosa e al quanto produrre). E’ del tutto evidente che una riduzione della produzione di beni di consumo riduce i salari reali, indipendentemente dal contributo del singolo lavoratore alla produzione. Cfr. A.Graziani, The monetary theory of production, Cambridge, Cambridge University Press, 2003.
[3] Si tratta anche di un un’impostazione tecnicamente discutibile. E’ infatti difficilmente difendibile l’idea che si possano raggiungere due obiettivi (accrescere l’occupazione e ridurre l’evasione fiscale) con un solo strumento (l’aumento dell’imposizione indiretta).
[4] Per una trattazione approfondita di questi aspetti si rinvia a P.Pini, Regole europee, cuneo fiscale e trappola della produttività, “Quaderni di Rassegna Sindacale”, 2, 2014.