Iran, lo stallo dei negoziati

Michele Paris
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Un nuovo round di negoziati sul nucleare iraniano è andato in scena questa settimana a Ginevra senza particolari progressi, nonostante le crescenti pressioni per raggiungere un accordo definitivo entro la scadenza fissata per il 20 luglio prossimo. Mentre da Teheran cominciano a circolare le richieste di un prolungamento di sei mesi dell’accordo ad interim siglato lo scorso novembre, le prospettive per una soluzione positiva all’annosa questione sembrano tutt’altro che rosee.

Ciò a causa principalmente della rigidità mostrata dagli Stati Uniti e dai loro alleati circa la necesità di ridurre in maniera drastica le capacità di arricchimento dell’uranio da parte della Repubblica Islamica.

Dopo l’ultimo summit tenuto a Vienna alla metà di maggio, i giorni scorsi hanno visto un valzer di incontri tra le varie delegazioni impegnate nelle trattative. Lunedì pomeriggio, per cominciare, gli iraniani hanno trascorso cinque ore nella stessa stanza con i rappresentanti di Stati Uniti e Unione Europea, mentre il giorno successivo è andato in scena un incontro bilaterale con gli americani, guidati dal vice-segretario di Stato William J. Burns, già protagonista dei colloqui segreti dello scorso anno con la Repubblica Islamica che portarono all’accordo provvisorio entrato in vigore a gennaio.

Separatamente, nella giornata di mercoledì la delegazione iraniana ha poi visto quella francese, mentre il capo degli inviati di Teheran, il viceministro degli Esteri, Abbas Araqchi, ha incontrato la sua controparte russa, Sergei Ryabkov, sempre mercoledì a Roma. Sabato, infine, il capo-delegazione della Germania presso il gruppo dei cosiddetti P5+1 (USA, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania), Hans Dieter Lucas, si recherà nella capitale iraniana per ulteriori colloqui.

Le discussioni di questi giorni dovrebbero servire a preparare il terreno per il nuovo incontro tra l’Iran e i P5+1, previsto a Vienna tra lunedì e venerdì della prossima settimana, quando risulterà ancora più chiaro se rimangano speranze residue per mandare in porto un accordo definitivo entro il 20 di luglio.

Nonostante gli iraniani abbiano definito costruttivi i più recenti colloqui, l’impasse appare ormai evidente. Lo stesso ministro dgli Esteri, Mohammad Javad Zarif, sul suo account Twitter ha chiarito quale sia il punto centrale dello scontro, vale a dire le restrizioni che soprattutto i paesi occidentali – nonché Israele – vorrebbero imporre al numero di centrifughe utilizzate dall’Iran per l’arricchimento dell’uranio.

Teheran dispone attualmente di circa 19 mila centrifughe, di cui poco più della metà in funzione. Mentre il governo iraniano sostiene di avere bisogno di almeno altre 10 mila centrifughe per produrre l’uranio arricchito necessario a fare funzionare le centrali nucleari pianificate, l’Occidente vorrebbe lasciarne attive soltanto alcune centinaia, ufficialmente per il timore che si renda disponibile una quantità di uranio arricchito sufficiente ad essere convertito ad uso militare.

L’intero dibattito ruota cioè attorno al concetto di “breakout”, cioè il periodo di tempo che servirebbe teoricamente all’Iran per arricchire abbastanza uranio al livello necessario per renderlo adatto all’impiego in un singolo ordigno nucleare.

Se la questione appare di cruciale importanza, essa è in realtà pressoché interamente un’invenzione degli Stati Uniti e dei loro alleati, poiché si basa su premesse fabbricate ad arte, così da creare un comodo pretesto per esercitare pressioni sull’Iran e ottenere concessioni sempre più gravose.

Come ha spiegato il giornalista investigativo americano Gareth Porter, in un’approfondita analisi uscita qualche giorno fa sul settimanale The Nation, l’amministrazione Obama ha ereditato, senza metterlo in discussione, il concetto di “breakout” dall’amministrazione Bush, la cui posizione si fondava sulla falsa premessa dell’esistenza di un precedente programma nucleare militare segreto della Repubblica Islamica.

In altre parole, secondo Porter, l’attuale richiesta fatta all’Iran di abbattere sensibilmente il numero di centrifughe “non si basa su un’analisi obiettiva del programma nucleare” di Teheran, ma ha al contrario delle implicazioni di natura interamente politica.

Poiché l’Iran sostiene da tempo che per alimentare il proprio programma nucleare civile sono necessarie migliaia di centrifughe, è inevitabile che la richiesta americana di ridurne il numero a poche centinaia continuerà ad essere fermamente respinta.

In un’intervista rilasciata la scorsa settimana allo stesso Porter, il ministro iraniano Zarif aveva spiegato che il suo paese, oltre a rassicurare i P5+1 circa l’assenza di interesse nel perseguire la capacità di “breakout”, intendeva proporre la conversione immediata dell’uranio ad un basso livello di arricchimento in una forma tale da renderne praticamente impossibile l’uso a scopi militari, trasformandolo poi in combustibile per reattori nucleari.

Con un’attitudine che rivela tutta la doppiezza americana, l’amministrazione Obama continua però a sostenere che l’Iran non ha bisogno di produrre da sé il combustibile per le centrali nucleari che intende costruire. Teheran, bensì, potrebbe contare sulle forniture di altri paesi, come Russia o Francia.

Negli ultimi decenni, tuttavia, questi stessi paesi con cui l’Iran aveva firmato accordi per la fornitura di combustibile nucleare si sono tirati indietro proprio a causa delle pressioni americane, convincendo la Repubblica Islamica della necessità di sviluppare internamente un programma di arricchimento dell’uranio.

Queste limitazioni che si vorrebbe imporre all’Iran, nonostante il paese mediorientale sia firmatario del Trattato di Non Proliferazione, continuano ad essere motivate in primo luogo dalla presunta esistenza di un programma nucleare militare segreto attivo almeno fino al 2003. Visto che le autorità di Teheran avrebbero tenuto nascosti i test eseguiti, gli USA e i loro alleati sostengono che esse siano ora inaffidabili e non debbano essere garantite loro nemmeno le capacità teoriche di produrre un solo ordigno.

Come ricorda Porter, questa tesi è accettata interamente sia dall’apparato della sicurezza nazionale americano sia dalla stampa ufficiale, i quali per rafforzare la propria posizione si riferiscono puntualmente a due serie di più che discutibili documenti di intelligence diffusi dall’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) che rappresenterebbero la prova dell’esistenza di un programma nucleare militare condotto dalla Repubblica Islamica.

Alcuni di questi documenti erano apparsi nel 2004 e, secondo la versione ufficiale, provenivano dal computer di uno scienziato iraniano che lavorava al programma nucleare. Secondo l’intelligence americana e, successivamente, l’AIEA, i documenti erano autentici, anche se gli schemi che apparivano in essi descrivevano un tipo di veicolo di rientro dei missili iraniani Shahab-3 che era stato abbandonato da Teheran nel 2000, cioè due anni prima della presunta stesura dei documenti stessi.

A questo proposito, il giornalista americano cita la testimonianza di un importante ex funzionario del ministero degli Esteri tedesco, Karsten Voigt, il quale ha rivelato che i documenti in questione erano stati consegnati ai servizi segreti tedeschi dall’organizzazione terroristica iraniana Mujahedin-e-Khalq (MEK), la quale si batte con metodi violenti contro il regime della Repubblica Islamica fin dai primi anni Ottanta.

Secondo Voigt, un veterano dell’intelligence tedesca aveva espresso seri dubbi sulla fonte dei documenti e gravi preoccupazioni circa l’intenzione dell’amministrazione Bush di basare la propria politica nei confronti dell’Iran proprio su di essi. Tanto più che gli stessi documenti originavano con ogni probabilità dai servizi segreti di Israele, i quali a loro volta tra il 2008 e il 2009 avrebbero fornito all’AIEA una serie di rapporti altrettanto improbabili che mostravano come l’Iran aveva proseguito i test su ordigni nucleari anche dopo il 2003.

Su questo materiale aveva manifestato estremo scetticismo l’allora direttore generale dell’AIEA, l’egiziano Mohamed ElBaradei, ma, dopo che quest’ultimo venne sostituito a fine 2009 dal ben più docile giapponese Yukia Amano, l’agenzia pubblicò un nuovo rapporto basato proprio sui documenti israeliani, accusando l’Iran di avere proseguito dopo il 2003 le ricerche finalizzate alla costruzione di armi nucleari.

Simili premesse, fatte proprie dagli Stati Uniti, finiscono dunque per dare per scontato che, almeno nel recente passato, l’Iran abbia cercato assiduamente di costruire armi nucleari, oltretutto in maniera segreta. In questo modo, l’atmosfera venutasi a creare in Occidente attorno al programma di Teheran proietta inevitabilmente un’ombra minacciosa sull’esito dei negoziati in corso. Infatti, secondo Washington, Parigi o Tel Aviv, i precedenti iraniani impongono che questo paese venga privato anche della capacità soltanto teorica di acquisire un ordigno atomico.

Che le intenzioni delle autorità della Repubblica Islamica non siano affatto queste, tuttavia, è stato confermato già in molte occasioni, a cominciare ad esempio dalla “fatwa” emanata dal leader supremo, ayatollah Ali Khamenei, contro la creazione di armi di distruzione di massa. Con essa, Khamenei ribadiva l’ordine del suo predecessore, ayatollah Ruhollah Khomeini, emesso negli anni Ottanta in piena guerra con un Iraq che stava utilizzando armi chimiche contro gli iraniani.

Come fa notare Gareth Porter, inoltre, durante la presidenza Ahmadinejad la combinazione di retorica nazionalista e anti-occidentale, assenza di negoziati e di sanzioni internazionali così stringenti come quelle approvate successivamente avrebbe potuto facilmente spingere l’Iran a raggiungere la capacità di “breakout” se ciò fosse stato nei programmi dei suoi leader.

Al contrario, tra il 2010 e il 2012, l’Iran si è mosso nella direzione opposta, usando meno della metà delle proprie centrifughe e convertendo l’uranio arricchito in forma inutilizzabile a scopi militari, indicando chiaramente il proposito di evitare provocazioni e un controproducente clima di scontro con gli Stati Uniti e l’Occidente.