È stato il marito, è stato il padre. È stata la libertà di un uomo

Stefania Cantatore – Udi Napoli
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L’uomo che ha ucciso la moglie e i figli per riconquistare la sua libertà ha mostrato nel modo più incontrovertibile che nella libertà degli uomini non c’è spazio per quella delle donne, e che anzi la loro libertà esclude quella delle donne. Lasciare una donna, che sia quest’ultima favorevole o no alla separazione, rappresenta, di fatto, la liberazione dei suoi gesti e l’impossibilità di condizionarli.

Per lungo tempo la violenza perpetrata in famiglia e dalla famiglia è stata dissimulata, trattata come un’anomalia di un istituto che di per sé protegge. Un istituto che protegge e che se non lo fa, si è pensato e si pensa, è per errori e manchevolezze delle donne, spesso vittime.

In questo impianto culturale nelle separazioni tra donne e uomini esplode l’ineguaglianza profondamente voluta e coltivata nel nostro sistema: la prospettiva dell’annientamento è la minaccia immanente sull’esistenza femminile sia che le donne lascino, sia che vengano lasciate da un uomo.

L’uomo che ha ucciso la moglie e i figli per riconquistare la sua libertà ha mostrato nel modo più incontrovertibile che nella libertà degli uomini non c’è spazio per quella delle donne, e che anzi la loro libertà esclude quella delle donne. Lasciare una donna, che sia quest’ultima favorevole o no alla separazione, rappresenta, di fatto, la liberazione dei suoi gesti e l’impossibilità di condizionarli.

Una donna non controllabile, perché “socialmente dalla parte della ragione” essendo lasciata da un adultero, è stata soppressa perché non poteva essere annientata sotto il peso di qualche colpa. Sono stati soppressi i suoi bambini in una situazione che getta luce su tutte le donne violentate, maltrattate, annichilite dai ricatti e qualche volta, rispetto all’incredibile mole di violenze sessuate perpetrate ogni giorno, uccise.

Le donne uccise dagli uomini sono comunque tante, e mentre ne muore una in famiglia, almeno un’altra muore nel magma indistinto di quella che è tratta nel nostro paese, e ancora almeno un’altra muore per mano ignota, perché non riconducibile “a moventi passionali”.

Ogni vittima rappresenta un pezzo di futuro sottratto al mondo, Cristina e i suoi figli non dovevano essere uccisi, e il dolore non può essere più grande perché a farlo è stato il marito.

Non saremo noi a dire che è più grave essere uccise dal marito o dall’ex, non saremo noi a tollerare che le vittime uccise e vessate perché donne, vengano messe su piani differenti. Ammettere aggravanti sarebbe ammettere che esistono attenuanti, fuori e dentro i tribunali.
I rapporti di fiducia non sono solo quelli familiari e non sempre quelli familiari sono di fiducia, spesso sono di potere. Come sul lavoro e a scuola, come nelle amicizie, dove ugualmente le donne trovano ricatti, violenza e morte. Il problema sempre viene spostato e dissimulato dividendo le donne per categorie. Se vogliamo chiamarlo problema.

Noi lo chiamiamo femminicidio in tutti i suoi gradi ed espressioni formali: si tratta di sterminio cadenzato, di una forma di controllo sistematico sulla demografia politica e civile.

Il dolore che sentiamo per i bambini uccisi è tanto lacerante quanto forte è la certezza che la nostra prole non sarà mai al sicuro in un mondo che continua a tollerare e prevedere la nostra morte come strumento di mantenimento dell’ordine gerarchico.
I bambini non sono al sicuro nei posti così detti sicuri: il nostro stato tollera ancora che violentatori e ladri di innocenza vengano sanzionati per via privata, tollera e si accontenta delle promesse di altri capi, delle cui affermazioni attendiamo ancora l’esito.

Non sappiamo cosa il governo e le amministrazioni intendano fare di fronte all’ennesima riprova che il nostro sistema vive secondo il canone di una libertà maschile che esclude quella delle donne. Sappiamo che gli impulsi che le nostre madri ci hanno insegnato a riconoscere vengono oggi nominati nei tribunali a discolpa degli assassini, nella conclamata impossibilità di tirare in ballo la follia.
Sappiamo che di nuovo la vita delle vittime viene infangata e vilipesa. Sappiamo che i fondi per l’antiviolenza vengono sperperati, non di rado assegnati a mediatori religiosi e no che per incapacità politica rimandano le donne e i bambini verso i loro aguzzini, perché il loro obiettivo è salvare la famiglia perdendo di vista le persone. Tutto questo mentre nelle sedi della responsabilità pubblica si producono solo lacrime e “mea culpa”. Tutto questo mentre l’informazione usa il femminicidio come esercizio intellettuale.

Noi andiamo avanti con gli occhi bene aperti, bene attente alla verità delle cose: gli inganni e le promesse hanno mascherato e reso più insidiose le armi che hanno ucciso Cristina Omes e ai suoi figli.

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Maria Cristina e la gabbia

Associazione Il Melograno
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Maria Cristina era un’amica.
Quelle amiche con le quali condividi la quotidianità. Una quotidianità condivisa non solo con Maria Cristina e con i figli ma anche con suo marito. In questi giorni di profondo dolore ci domandiamo che cosa Maria Cristina non ha avuto la forza di dire e, anche se aveva aperto la porta della capacità delle donne di stare insieme, di confrontarsi, di sostenersi, non ha condiviso.

Le morti violente provocate da mariti e compagni che, oramai con frequenza giornaliera, riempiono le cronache del nostro Paese ci creano sempre sentimenti di sconforto, rabbia, disorientamento, malinconia e frustrazione.
Ma l’uccisione di Maria Cristina e dei suoi bambini di 5 anni e 20 mesi ci colpiscono ancor di più, perché Maria Cristina era una mamma della piccola sede della nostra associazione di Milano Sud. Una donna che ha motivato le operatrici del Melograno a continuare nel loro lavoro quotidiano a sostegno delle neo madri e dei loro figli.

Maria Cristina era un’amica.
Quelle amiche con le quali condividi la quotidianità, la festa di compleanno, il portare i bambini alla scuola materna, il Capodanno, la vacanza. Una quotidianità condivisa non solo con Maria Cristina e con i figli ma anche con suo marito.
In questi giorni di profondo dolore ci domandiamo che cosa Maria Cristina non ha avuto la forza di dire e, anche se aveva aperto la porta della capacità delle donne di stare insieme, di confrontarsi, di sostenersi, non ha condiviso.

Riflettiamo invece sul VUOTO che circonda gli uomini. Uomini che continuano a sentirsi per sempre socialmente figli, viziati e coccolati, e che non riescono a diventare padri, ad assumersi la responsabilità delle scelte fatte e di quelle che potrebbero fare. Che non diventano mai adulti, incapaci di riconoscere e gestire i sentimenti, di confrontare desideri e realtà. Che pensano che per sentirsi liberi, basti cancellare la realtà che ‘ingabbia’, non importa se questo comporta anche cancellare
vite.

Che pensano che mogli e figli siano proprietà, delle quali ci si può disfare se diventano troppo ingombranti.
Ci fanno pensare le motivazioni addotte dal marito/assassino: “Non volevo sentirmi in gabbia! E nemmeno un divorzio mi avrebbe potuto liberare da questo sentire, perché i figli sarebbero rimasti per sempre!”

Non è più possibile rinviare la presa in carico collettiva di un devastante problema italiano. Non siamo difronte a un delitto individuale ma a una malattia sociale. E’ arrivato il momento per le istituzioni, per i professionisti, per gli uomini di trovare la giusta strada per affrontare quello che ci sentiamo di definire come il più grave errore perpetuato per generazioni nel nostro Paese rispetto all’educazione dei maschi.

E’ arrivato il momento per gli uomini di sedersi a ragionare sul loro essere figli, uomini, padri.
La violenza devastante dei gesti efferati di alcuni uomini, offre all’universo maschile una grande opportunità: capire che per essere uomini è necessario divenire persone in grado di esprimere i propri sentimenti, le proprie fragilità, i propri dubbi e le proprie certezze, di essere padri o di decidere di non divenirlo (perché, è vero, una volta
fatti i figli restano per sempre, ma non sono appendici dei genitori, ma persone), di sentirsi liberi di vivere e di fermarsi prima di sentirsi in gabbia .

Le donne parlano e riflettono tra loro sulle relazioni e i sentimenti, l’Associazione ‘Il Melograno’ come molte altre, come i Consultori familiari che il movimento delle donne ha ideato e fortemente voluto e che piano piano sono smantellati e depotenziati, sono spazi di confronto e sostegno costruiti negli anni con cura, fatica e passione
dalle donne.
Spetta ora agli uomini prendersi cura di se stessi, creare i loro spazi di riflessione, sostegno e relazioni. Dove riflettere sulla propria sessualità irrisolta, sugli oscuri impulsi alla violenza, sull’enigma della possessività, sulla paternità incompresa. Senza chiedere ancora una volta alle donne di spiegare e farsi carico dei loro problemi.

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La costruzione sociale e mediatica della “madre del mostro”. Oltre le lasagne c’è di più
http://comunicazionedigenere.wordpress.com/2014/06/19/la-costruzione-sociale-e-mediatica-della-madre-del-mostro-oltre-le-lasagne-ce-di-piu/

La costruzione sociale del “mostro”: tra sciacallaggio mediatico, sfascia-famiglie e linciaggio collettivo
http://comunicazionedigenere.wordpress.com/2014/06/18/la-costruzione-sociale-del-mostro-tra-sciacallaggio-mediatico-sfascia-famiglie-e-linciaggio-collettivo/