L’Iraq chiede pace. Ma senza nuovi interventi militari dell’Occidente

Eletta Cucuzza
Adista Notizie n. 24 del 28/06/2014

Contro le armi dei jihaidisti dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, credenti sunniti alla conquista dell’Iraq (Isil o Isis, lo stesso che, a quanto si sa, tiene prigioniero da agosto dello scorso anno il gesuita Paolo Dall’Oglio), il patriarca di Babilonia dei caldei Louis Raphaël I Sako chiama ad altre “armi” altri credenti: la preghiera e il digiuno «possono cambiare il cuore delle persone e incoraggiarle al dialogo e al rispetto reciproco, con la benedizione di Dio», ha detto il 15 giugno invitando ad essi per l’intera giornata del 18 tutte le comunità caldee sparse nel territorio iracheno e nel resto del mondo. Si sono uniti all’appello del patriarca Sako i vescovi austriaci e Pax Christi Italia. Entrambi rivolgono un richiamo alla comunità internazionale e all’Europa in particolare, perché si faccia promotrice di passi concreti di pace, «per evitare – scrive Pax Christi – che sul territorio gli unici segnali di una presenza internazionale siano le armi, vendute in abbondanza da Usa, Russia e Unione Europea».

Ribelli jihaidisti: molto armati, bene organizzati

Gli insorti dell’Isil hanno conquistato circa un terzo del Paese – Mosul e Tikrit (forse ripresa dai combattenti curdi l’11 giugno), varie località delle province di Ninive e Salaheddine (nord), diversi settori della zona di Diyala (est) e Kirkuk (nord) – e da un momento all’altro potrebbero prendere Baghdad, mirando a costituire un califfato che copra territori iracheni, siriani e turchi. In Iraq, la loro avanzata, che nei primi giorni non ha trovato resistenza, si sta solo da poco scontrando con una qualche difesa messa in campo dell’esercito regolare. Sono già tanti, di numero imprecisato, i morti per mano dell’Isil: la formazione jihaidista ricorre anche ai bombardamenti, e diffonde in rete immagini raccapriccianti, oltre che per dimostrare la sua forza, per terrorizzare gli eventuali resistenti che non fossero stati testimoni diretti delle (a quanto sembra) centinaia di esecuzioni sommarie perpetrate dagli islamisti e dell’escalation delle violenze. La paura è tanta e da Mosul è già fuggito mezzo milione di civili, a piedi o con mezzi fortunosi e fatiscenti, verso il Kurdistan iracheno, a nord del Paese.

«La battaglia – si legge in un articolo del sito di informazioni sul Medio oriente Nena News (12/6) – si sta facendo regionale, con l’Isil che minaccia le autorità turche (rapiti ieri 25 membri del consolato turco, tra cui il console generale, e 32 camionisti) e la Siria dove controlla vaste aree a Nord-Est, dopo aver marginalizzato le opposizioni moderate e islamiste rivali. Secondo alcuni analisti, il gruppo guidato dal temibile Al-Baghdadi e uscito da Al Qaeda, di cui ormai non è più parte, sarebbe composto da circa 5mila miliziani. Un numero troppo basso per giustificare una simile offensiva, tanto ben organizzata, e gestita da uomini ben equipaggiati. Molti, tra cui Damasco, puntano il dito contro i Paesi del Golfo che hanno in questi anni finanziato, stipendiato e armato i gruppi islamisti di stanza in Siria e impegnati nel conflitto contro il regime. Gli stessi Stati Uniti hanno più volte frenato gli aiuti militari alle opposizioni per timore che finissero nelle mani di gruppi qaedisti».

Pregare, sperare, attendere

In solidarietà con i civili che fuggono da Mosul e fortemente preoccupato per la gravità degli eventi, papa Francesco all’Angelus del 15 giugno ha detto: «Invito tutti voi ad unirvi alla mia preghiera per la cara nazione irachena, soprattutto per le vittime e per chi soffre maggiormente le conseguenze dell’accrescersi della violenza, in particolare per le molte persone, tra cui tanti cristiani, che hanno dovuto lasciare la propria casa». E sentimenti di vicinanza sono stati espressi dal card. Leonardo Sandri, prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali, all’indirizzo del patriarca Sako, e degli arcivescovi di Mosul, il caldeo mons. Emil Shimoun Nona e il siro-cattolico mons. Boutros Moshe, che sono al fianco – ha assicurato Sandri – della popolazione cristiana e musulmana in fuga.

Mons. Nona, parlando con AsiaNews (16/6), ha manifestato gratitudine al papa perché il suo appello «avrà un grande effetto per tutti noi», «per i cristiani che vivono un momento di grave difficoltà» e per tutto il popolo che soffre e prega per la pace. «Speriamo», ha aggiunto, che possa «sortire un grande effetto nei cuori di tutti quelli che prendono la violenza come metodo per affrontare e risolvere i problemi». Nell’auspicare che la comunità internazionale possa «trovare una soluzione urgente» perché «l’Iraq non diventi come la Siria», dove la guerra civile «è considerato un fatto normale e accettato», mons. Nona ha manifestato anche tutto il suo scoraggiamento: «Purtroppo – ha commentato – nessuno propone soluzioni reali e concrete per riportare la pace, non vi è un vero interesse comune al bene del Paese e dei suoi cittadini».

A livello internazionale, cresce la preoccupazione. Gli Stati Uniti temono lo smembramento di un Iraq che hanno tentato di “pacificare” a caro prezzo (di vite umane e di soldi), anche riorganizzando e istruendo esercito e polizia; temono – ma non sono i soli – che una buona quantità del petrolio iracheno rimanga nelle mani dei jahidisti sunniti (ne sono ricche le zone conquistate). Obama esclude per ora un nuovo intervento diretto nel Paese mediorientale, per lo meno non intende inviare militari sul campo, riservandosi piuttosto di operare con droni. Gli Usa stanno perciò lavorando sul fronte diplomatico, includendo nei colloqui lo stesso Iraq, la Turchia e dal 17 giugno l’Iran. Che, se fortemente avversario della potenza occidentale, è a maggioranza sciita e tanto interessato a frenare la minaccia rappresentata dall’Isil che il suo presidente, Hassan Rohani, non disdegna, secondo quanto ha dichiarato, di poter collaborare con gli Usa «in sostegno dell’Iraq contro l’offensiva dei jihadisti». Ma sarebbe un’ipotesi molto lontana: un portavoce del ministero degli Esteri iraniano ha assicurato che «l’Iraq ha la capacità e la preparazione necessaria per lottare contro il terrorismo e l’estremismo». Per ora (v. notizia seguente).

È la stessa idea di mons. Jean Benjamin Sleiman, arcivescovo di Bagdad: «Non credo sia necessario un intervento della comunità internazionale», ha dichiarato ad ACS (Aiuto alla Chiesa che soffre) il 17/6. «Lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante deve essere fermato e tale obiettivo può essere raggiunto soltanto se i leader iracheni riusciranno a lavorare insieme. La loro collaborazione è molto più importante di qualsiasi aiuto esterno».

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PETROLIO E RELIGIONE, MISCELA ESPLOSIVA. DUE ANALISI SU SIRIA E IRAQ

Eletta Cucuzza
Adista Notizie n. 24 del 28/06/2014

Si devono all’islamologo gesuita egiziano Samir Khalil Samir (l’agenzia dei vescovi italiani Sir ne riferisce ampiamente il 17/6) e all’analista geopolitico Nima Baheli (Osservatorio Iraq, 18/6) due analisi di quanto sta succedendo nel Medio Oriente, in particolare in Siria e in Iraq (v. notizia precedente). I veri motivi della guerra, ha sostenuto parlando a Sarajevo all’XI Comitato scientifico della Fondazione internazionale Oasis dedicato alla “Tentazione della violenza. Religioni tra guerra e riconciliazione”, sono di stampo confessionale e vede opposti sciiti e sunniti: gli sciiti di Nouri al Maliki in Iraq e gli alauiti, ramo sciita, di Bashar al Assad in Siria, con l’appoggio dell’Iran e di Hezbollah libanesi; le milizie sunnite dell’Isil, foraggiate dai Paesi sunniti del Golfo, Arabia Saudita in testa che alimenta anche i “fratelli” iracheni. «Lo scopo dell’Isil – ha detto – è restaurare il sultanato ottomano abolito nel 1924 dal generale e statista turco, Kemal Atatürk, e che i Fratelli musulmani, fondati nel 1928 da Hassan al-Banna, non hanno saputo rifondare. Questi ultimi, anch’essi sunniti, non sono mai riusciti ad incidere politicamente. Solo una volta, in Egitto, hanno ottenuto il potere che hanno mantenuto per un anno, prima che, nel luglio del 2013, il loro presidente, Mohammad Morsi, venisse destituito dall’Esercito e dalle rivolte di popolo. Il loro scopo è essenzialmente di tipo religioso e non quello di migliorare la società. Il popolo invece chiede lavoro, casa, cibo, sicurezza, stabilità».

Malgrado la drammaticità degli eventi che si susseguono in Medio Oriente, p. Samir spera «in un’intesa per raggiungere la pace in Siria e in Iraq ed una stabilizzazione in Egitto, dove sono quasi tutti sunniti, e in Libano, dove il rapporto sunniti-sciiti è sempre molto teso». Per la situazione irachena – ha informato p. Samir – forse si apre uno strettissimo spiraglio: «Pare che l’Arabia Saudita voglia trovare un punto di incontro con l’Iran e questo potrebbe essere un passo in avanti verso la soluzione del conflitto interconfessionale». Spiraglio che resiste ad aprirsi anche per «la difficoltà dell’Occidente a comprendere la vera essenza confessionale di questa guerra che sta ridisegnando i confini della regione. L’Occidente continua a sostenere chi ha più soldi e chi ha interesse a comprare armi. Le armi – ha affermato apertamente – vengono dall’Occidente, mentre i soldi per pagarle dal petrolio arabo. Così si comprendono alleanze strategiche tra Arabia e Usa, Francia e Qatar. La secolarizzazione dell’Occidente, inoltre, non fa altro che rafforzare il fanatismo islamico».

«Lavorare per un sistema politico in cui il potere sia condiviso tra sciiti e sunniti e le altre componenti della società (drusi, cristiani, ecc.)» è l’unica strada «per ravvivarne il dialogo». «Il problema di sempre nell’Islam», secondo p. Samir, «è l’unione tra politica e religione. Deve poter nascere un Islam laico dove vi è libertà di religione, necessaria per favorire la pratica integrale della fede».

Non esprime auspici invece Nima Baheli, che si “limita” ad un’analisi geopolitica dettagliata partendo dagli interessi e dal coinvolgimento dell’Iran nella storia mediorientale di oggi. «Tra Iran ed Iraq negli ultimi anni i rapporti sono stati molto intensi. In particolare con i governi [iracheni] di Nouri Al-Maliki degli ultimi dieci anni si è osservata una tendenza a favorire maggiormente gli interessi della comunità sciita a discapito di quella sunnita». «Strategicamente – rileva – l’Iraq per l’Iran è fondamentale: l’obiettivo è che a Baghdad non ci sia mai un governo ostile. In Iraq deve esserci, insomma, un governo alleato che non permetta a forze straniere e neanche agli stessi iracheni di attaccare l’Iran». Indirettamente, il sostegno militare iraniano è già in territorio iracheno: «il capo della brigata dei pasdaran Al Qods, Qasem Soleimani – informa Baheli – sta portando avanti una funzione di addestramento nell’ottica di creare forze paramilitari sciite che possano contrastare più efficacemente gli attacchi delle milizie sunnite dell’Isis». È più o meno quello che stanno facendo gli Usa, avendo interessi simili a quelli iraniani: «Entrambi i Paesi non hanno alcun desiderio di vedere l’Iraq diviso in tre parti settarie, ovvero un centro sunnita, un sud sciita e un nord curdo. Se ciò si realizzasse sarebbe una grande sconfitta per entrambi i “protettori”». Fra i due Paesi c’è già da anni una «collaborazione dietro la cortina», mai ammessa ufficialmente, malgrado, il 17 giugno, «il segretario di Stato John Kerry abbia rigettato una collaborazione militare tra iraniani e statunitensi in Iraq».

Fra gli altri attori sul palcoscenico mediorientale non bisogna sottovalutare Israele, che potrebbe temere l’alleanza Usa-Iran. È opinione di Baheli che «nel medio-lungo termine Israele non riscontri problemi di fronte a relazioni più intense tra iraniani e statunitensi in Iraq. Questo perché gli interessi israeliani regionali coincidono con quelli dell’Iran, in particolare quello di evitare che emerga una potenza regionale araba». Certo, purché gli iraniani accettino «certe condizioni interne ad Israele (evidentemente sulla situazione dell’Occupazione dei Territori Palestinesi)». «Chi invece ha davvero molto da perdere da un’ipotetica alleanza USA-Iran – aggiunge l’analista – è l’Arabia Saudita, che sono convinto farà di tutto per scongiurarla e per evitare il formarsi di una coalizione regionale sotto l’egida iraniana. L’avanzata dell’ISIS si può leggere anche in questo modo».

In tutto ciò, un ruolo notevole lo gioca il petrolio: «Da un lato – osserva ancora Baheli – l’Iraq è sicuramente uno dei Paesi con le più grandi riserve di petrolio in tutto il mondo. Dall’altro si tratta di un Paese fisicamente al centro della regione, per cui qualsiasi attore, nazione o potenza regionale o esterna che volesse avere il predominio del Medio Oriente deve essere in grado di controllare l’Iraq e anche la Siria. Ed è in quest’ottica geopolitica che gli iraniani e gli statunitensi sono più o meno disponibili a una negoziazione. Il problema è riuscire a capire chi, tra questi due, riesca poi nel lungo termine a prevalere».