La coscienza apocalittica

Giancarla Codrignani

Oggi la città di Bologna si è congedata da un’amica che è stata un’ottima entomologa, specializzata nello studio delle api. Il prete, amico e non clericale, che celebrava ha incentrato l’omelia sulla filosofia di Maria Adelaide Vecchi, la cui pena per la scomparsa di intere famiglie di api e la diffusione generalizzata della “varroa”, malattia responsabile delle stragi, riconduce al vizio peculiare degli umani, che non amano le api perché sono creature come tutti noi, ma perché producono il miele.

E’ un esempio e una premonizione: anche gli umani saranno destinati a pagare un prezzo assai alto per gli abusi che ledono in profondità la natura, cioè quel “vivente” di cui tutti facciamo parte. Verranno anche per noi malattie nuove, fortemente aggressive, causate dall’incapacità di capire il messaggio di sobrietà e di bellezza della parola evangelica: i gigli dei campi per sempre restano più belli e vitali di Salomone in alta uniforme.

Per caso l’ultimo numero della rivista Concilium ha per titolo l’interrogativo “Ritorna la coscienza apocalittica?”. Un gran bel tema, probabilmente opportuno per un’epoca come la nostra. Certamente la filosofia dell’amica bolognese era apocalittica, ma bisogna chiedersi in che senso. L’interpretazione corrente è assolutamente pessimistica: il tempo della fine, attraverso catastrofi premonitrici, lascia aperta la prospettiva della fine-del-mondo.

In realtà l’interpretazione non pare autentica: le catastrofi possono essere “segni” e la “caduta del velo”, l’apokalypsis, annuncia certamente la presenza di grandi trasformazioni in corso; che, di per sé, non è detto siano negative. Tutti, quando dicono “non si può andare avanti così”, “non se ne può più”, sanno che è imminente qualche cambiamento: se buono o cattivo dipende dalle nostre scelte.

In questo senso, anche Concilium ricorda che la teologia cristiana è sempre apocalittica. Perché richiama al presente e alle nostre responsabilità di determinare la qualità del futuro. Come dice l’amica scienziata: sappiamo troppo poco sugli ogm, sulla plastica che non si ritrova più nel mare dove è stata scaricata e perfino sul perché il Mediterraneo debba diventare un lago mortuario. Purtroppo ha la meglio la paura.

La paura è la grande nemica: nei tempi difficili sembra che piaccia lamentarsi e annunciare sciagure, reagendo poco e male. C’è, come dice Jurgen Ebach, “una tabella di marcia della storia del mondo” in termini apocalittici che deve produrre la consapevolezza dell’urgenza dei cambiamenti fin dallo stato iniziale. Infatti il futuro procede come gli pare se non lo interpretiamo: si tratta dell’unica potenzialità di giocarcelo, che è affidata alle nostre mani.

Nella letteratura apocalittica ellenistica l’ “Apocalisse degli animali” interpreta gli agenti della storia come animali che conoscono un processo rovesciato rispetto alle origini e ricostruiscono l’ordine della creazione: i rapaci e i leoni che spolpano le pecore vengono aggrediti dal Signore delle pecore e fatti sprofondare in un abisso: il giudizio che liquida i danni e i danneggiatori trasforma l’ordine sociale.

Il recinto delle pecore insidiate e massacrate diventa la nuova Gerusalemme, le pecore governano e gli animali tornano agli inizi e si assoggettano alle pecore. Se si contestualizza, si attende una rivoluzione che destrutturi, anche con durezza violenta, l’iniquità dei sistemi ellenistici e azzeri il corso della conservazione.

Anche le nostre crisi sono un grande crogiolo apocalittico. Di fatto percepite solo come danno, disperazione del proprio destino, incapacità di sentire la voglia di un futuro che cambi le cose non permettono la consapevolezza che i beni scaduti si debbono buttare per crearne dei nuovi.

In questi mesi ovunque si commemora il centenario della prima guerra mondiale, l’ “inutile strage”, e si rileggono particolari storici dai quali si desume sia l’irrevocabilità dell’esplosione degli antichi conflitti a prescindere dall’attentato di Gavrilo Pinzip, sia la possibilità concreta di negoziati che avrebbero potuto, con nemmeno grande fatica diplomatica, evitare l’irreparabile.

Eppure il nazionalismo un secolo fa appariva un valore identitario superiore ad ogni altro e le armi difendevano l’onore delle nazioni. Esisteva un “ministero della guerra”, la difesa della patria era “sacra” e tutte le bandiere ricevevano equanimi benedizioni: ancora oggi si ricorda il 4 novembre come festività della “vittoria”. Non si sa che cosa si vinse.

Certo avanzò una grave crisi economica, con i reduci disoccupati, le donne rimandate alla casalinghità dopo aver sostituito gli uomini nelle fabbriche, le ricadute di aspettative della rivoluzione sovietica che avrebbero prodotto gli scioperi alla Fiat, la fondazione del Partito Comunista d’Italia e la scesa in campo di un “uomo della provvidenza” a guidare, lui, un uomo della sinistra massimalista, un movimento populista per dare ordine all’Italia. I segni apocalittici c’erano tutti: pochi li seppero leggere.

E ne derivarono le dittature, la perdita dei diritti e della libertà per un intero continente, la seconda guerra “mondiale”, per finire con la shoà e Hiroshima.

Oggi viviamo con un agio che storicamente non si era mai visto, ma pochi ricchi posseggono i mezzi di interi continenti. La forbice ricchi/poveri si allarga in continuazione, devastiamo l’ambiente, viviamo di petrolio, gas e smog, il solo settore senza disoccupazione è quello delle armi, i conflitti non risolti e spesso acuiti per interventi di poteri interessati a scoraggiare le intese rappresentano anch’essi una bella segnaletica apocalittica.

Basta qualche nome: Ucraina, Libia, Palestina. Siria, Iraq…. nessun “popolo” è “sovrano” come dicono le tradizionali costituzioni. I poteri forti, non solo manovrano e controllano il mondo, ma usano le nuove tecnologie come meglio gli conviene e raccontano che bisogna appoggiare i sunniti contro Bashar al Assad, salvo rovesciare le carte due settimane dopo.

Un dovere era stato uccidere Gheddafi, riconosciuto da tutti i paesi africani presidente dell’Unità Africana e mettere il silenziatore sulla devastazione che ne è derivata. Eppure i “segni” sono perfino troppi, tutti “apocalittici”. Quale coscienza li legge? Forse siamo così persi da farci del male da soli per paura?