Nel Paese in cui solo le farfalle sono libere

Ingrid Colanicchia*
Adista Segni Nuovi n. 26 del 12/07/2014

Quando ho saputo che Samer Issawi era stato di nuovo arrestato e condotto in carcere, nell’ambito dell’operazione lanciata da Israele a seguito della scomparsa dei tre giovani coloni poi ritrovati morti, la prima cosa che mi è venuta in mente è stato lo sguardo di sua madre, Leila. Avevamo incontrato lei, Samer e il resto della famiglia nella loro casa a Gerusalemme Est, nell’ultimo giorno del nostro viaggio con Assopace Palestina (v. Adista Segni nuovi n. 24/14).

Era una tiepida sera di fine aprile e sul terrazzo della famiglia Issawi spirava una piacevole brezza. Se non fossi già stata a conoscenza della storia di Samer, al vederlo niente mi avrebbe lasciato immaginare che solo pochi mesi prima non aveva neppure le forze per alzarsi dal letto, che era arrivato a pesare 45 kg, in pratica che era in fin di vita. La sua è una storia di ordinaria ingiustizia: viene arrestato la prima volta a 17 anni e condannato a due anni di carcere, poi nuovamente a vent’anni, condannato a 30 anni di prigione. Dopo quasi dieci anni viene rilasciato nell’ambito degli accordi tra Israele e Hamas per lo scambio con il soldato Shalit.

Il 7 luglio 2012 viene arrestato nuovamente, come accaduto a diversi altri prigionieri rilasciati nell’ambito di quell’accordo, accusato di aver violato i termini di rilascio, ovvero di essere uscito da Gerusalemme. Nel 2013, grazie a uno sciopero della fame durato 8 mesi, è riuscito ad attirare l’attenzione internazionale sulle condizioni in cui versano i 5mila detenuti palestinesi che si trovano nelle carceri israeliane. E a tornare in libertà, anche se per poco.

Mentre il piccolino di casa ci serviva un caffè aromatizzato, Leila ci raccontava che nel complesso la sua famiglia ha passato quasi 60 anni nelle carceri israeliane. Tutti i suoi figli hanno conosciuto la violenza di Israele. Fadi è stato ucciso nel 1994, quando aveva solo 16 anni, durante una manifestazione seguita al massacro della moschea di Hebron. Medhat ha passato 19 anni in carcere. Firas, Ra’afat e Shadi hanno passato dai 5 agli 11 anni in prigione. Shireen, avvocata in prima linea nella difesa dei prigionieri palestinesi, è stata arrestata più di una volta ed è in carcere anche in questo momento.

La sorte toccata a Samer, a Shireen e a tutti i loro fratelli non è un’eccezione. Secondo l’organizzazione per i diritti umani Addameer, dal 1967 più di 800mila palestinesi sono passati per le carceri israeliane. Una cifra che include anche i circa 8mila bambini palestinesi arrestati dal 2000.

E tutto in spregio al diritto internazionale. Al 1° dicembre 2013 erano più di 5mila i detenuti palestinesi distribuiti in 17 prigioni, quattro centri per gli interrogatori e quattro centri di detenzione. Tutti, tranne uno di questi centri, si trovano all’interno di Israele, in violazione dell’art. 76 della IV Convenzione di Ginevra che stabilisce che una potenza occupante deve detenere i residenti del territorio occupato nelle carceri all’interno dello stesso territorio.

Non solo. Israele fa un uso assolutamente arbitrario, in violazione del diritto internazionale, della “detenzione amministrativa”, procedura che consente, al sussistere di determinate condizioni, di incarcerare una persona “sospetta” per un periodo di sei mesi rinnovabile indefinitamente, senza muoverle alcuna accusa formale e senza regolare processo.

Una situazione che ha indotto, nell’ottobre scorso, una rete di personalità e di organizzazioni internazionali a lanciare, dalla cella in cui era detenuto Nelson Mandela, nella prigione di Robben Island, una campagna per la liberazione di tutti i prigionieri palestinesi. Volto simbolo di questa campagna è quello di Marwan Bargouthi, primo membro del Consiglio Legislativo palestinese ad essere arrestato da Israele e in carcere ormai da 12 anni. «Il popolo palestinese ha lottato per decenni per la giustizia e la concretizzazione dei propri diritti inalienabili», si legge nel testo sottoscritto tra gli altri da Angela Davis, Adolfo Pérez Esquivel, Mairead Maguire e dall’arcivescovo Desmond Tutu.

«Tali diritti sono stati più volte ribaditi da innumerevoli risoluzioni delle Nazioni Unite». «La loro applicazione comporta la liberazione di Marwan Barghouti e di tutti i prigionieri palestinesi – proseguono i firmatari – in quanto la loro prigionia altro non è che un riflesso della pluridecennale privazione della libertà che il popolo palestinese ha subìto e continua a sopportare».

Samer ora non può salire su quel terrazzo a guardare il tramonto, nessuna brezza spira sul suo volto. Dalla scomparsa dei tre giovani coloni, il 12 giugno scorso, Israele ha scatenato tutta la sua forza repressiva. E ora che sono stati ritrovati i loro corpi si teme il peggio. Anzi, il peggio sta già accadendo. Mohammed Abu Khdeir, un ragazzo di 17 anni di Shufat, sobborgo di Gerusalemme Est, è stato rapito e ucciso. Al suo corpo è stato dato fuoco. Mentre la comunità internazionale esprime cordoglio per la morte dei tre coloni adolescenti, la punizione collettiva del popolo palestinese continua a ritmo serrato.

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* La nostra redattrice in aprile si è recata in Palestina con Assopace Palestina, l’associazione fondata da Luisa Morgantini che tre volte l’anno organizza viaggi in Israele e Territori occupati (www.assopacepalestina.org). Sul precedente e sui prossimi numeri di Adista Segni nuovi altre puntate dedicate a questo viaggio.